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Nel buio, la luce

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 09 del 09/03/2013

Non ci sono più i papi di una volta, quelli che morivano. E anche il dogma popolare che diceva “morto un papa se ne fa un altro” ha ricevuto un colpo letale, sebbene le folate di vento della fantasia faranno nascere altri modi di dire. Di sicuro, però, le dimissioni di Joseph Ratzinger, il papa infelice di essere papa, hanno spezzato una routine, hanno inceppato un ingranaggio teologico che appariva e veniva proposto come una certezza, quasi una infallibilità ammissibile, tollerabile. È innegabile, come ha rammentato Enrico Peyretti, proprio nei primissimi momenti delle dimissioni di Benedetto XVI, che «ora emerge l'uomo dalla figura del papa, come affermò Pietro: non sono che un uomo». Superato quindi il rispetto, profondo, e l’umana commozione per una scelta quasi inedita, questa grande rinuncia risulta dirompente, ... ha scatenato una forza incalcolabile: ha fuso insieme fragilità e determinazione, attorcigliando una lucida razionalità, immersa nella paura, a una feconda energia spirituale, mischiando gli effetti con i danni collaterali. Rimane così calato d’imperio nell’immediato, inequivocabile e nudo, che con la scelta di Benedetto, dalle ore 20 del 28 febbraio 2013, il problema presente e futuro per la Chiesa non è più il papa, qualsiasi papa, ma il papato, non più l’intrigo impunito, ma la trasparenza imposta, non più un Vangelo prigioniero, ma liberato.
E se il gesto di Ratzinger, definito rivoluzionario, profetico e trasfigurante, diverrà veramente tale, non potranno più essere i codici o le norme del concistoro o un motu proprio o le lobby deturpanti della Curia vaticana a determinare il cammino della fede in Cristo, ma sarà di diritto e per dovere, e sarebbe ora, la riappropriazione del Vangelo la fonte di qualsiasi nuova rappresentatività storica e identità spirituale del cristianesimo e della Chiesa. E se questo ancora non accadrà, per qualche marchingegno satanico, ciò che si accelererà non potrà portare a nessuna nuova dignità e libertà della Chiesa nel mondo, ma solo a una involuzione autodistruttiva che coinvolgerà anche gli esiti realizzati, o pregiudizialmente sopiti, del Concilio Vaticano II.
Il problema che ereditiamo, quindi, non sarà solo quanto ben evidenziato dal teologo spagnolo J.M. Castillo (v. Adista Speciale n. 8/13, ndr): il problema «non sarà più questo papa o qualsiasi altro, bensì quello che realmente è, e che fa, l'istituzione del papato: come è organizzata, come funziona, e come è gestita, al di là di chi sia il papa che l'ha presieduta o che può potenzialmente presiederla». Ma sarà anche, finalmente, il problema svelato della crisi di «un cristianesimo che non sa insegnare, vivere, testimoniare l’amore per la terra e la cura per l’universo, e che è così spaventato dalla passione di vivere che non riesce ad ascoltare il grido angosciato degli anawim, dei piccoli della storia umana» (Mattew Fox). Benedetto XVI, quindi, sembra aver chiuso solo una porta a chi ha «deturpato la Chiesa» e «strumentalizzato Dio», perché bisognerà vedere se nascerà una nuova Chiesa, capace di non soccombere tra ricatti e sotterfugi e di aprire invece un portone per consentire al vento dello Spirito di entrare e al Vangelo di uscire a prendere aria fresca, pulita, l’aria «del vento che non lascia cadere la polvere», come cantava padre Turoldo. E questo nonostante i primi passi siano tutti all’insegna di duelli e dispetti, di arsenico e vecchi merletti, come stanno a testimoniarci la scelta della presidenza dello Ior, affidata al presidente di un consorzio di imprese che costruiscono navi da guerra, o la stesura di quella relazione conturbante dei cardinali, piena di contravvenzioni al sesto e al settimo comandamento: passi di duellanti che preannunciano altri “mezzogiorni di fuoco” e Angelus domenicali ispirati dai magnificat di storture, debolezze e sporcizie, e con denunce di ciò che c’è stato di male e insidie di ciò che potrà esserci di peggio.
Mai come in questa crisi vaticana si vive anche la crisi di un paradigma culturale e teologico di una narrazione cristiana che regge sempre meno ai profondi cambiamenti di natura scientifica, sociale, politica, biblica, teologica e culturale. Una crisi di appartenenza, che da un lato fa gridare penosamente che «non si scende dalla croce», e dall’altro fa nascere l’intima speranza, foriera anche di ombre, che un papa e un papato possano riempire il futuro della Chiesa, simultaneamente, di nuove opportunità o di antiche catastrofi, facendolo oscillare tra il custodire nuovi germogli e l’addensare vecchie macerie, o, ripetendo ancora Mattew Fox, «un non insegnare nulla ai credenti riguardo alla costruzione della giustizia e alla trasformazione sociale, o riguardo all’eros, al gioco, al piacere, al Dio della gioia», al mangiare il pane dell’Amore. Viene da dire, guardando la verità dei fatti, che sia solo una questione di fede: fede che un significato ci sia in quel che accade, anche quando non si riesce a vedere o a svelare quanto ci viene nascosto; fede come quella di chi ha l’infinita urgenza di rispondere a un futuro che ci chiama.
Ma sappiamo che non è solo fede ciò che declina la storia della Chiesa che era, che è, e che sarà: è la storia anche di urla che sanno rompere le acque e generare l’inizio di qualcosa o Qualcuno di nuovo, non grida di invettive che soffocano il respiro, ma urla di liberazione che rompano l’incantesimo dell’immutabile, dell’insostituibile, dell’immodificabile. Forse, oggi, quella domanda sempre attuale, sempre inascoltata, gridata con la forza di mille primavere da un prete sperduto nella profezia dell’amore, ci aiuta a sognare, e pensare: «E se la speranza nascesse proprio dal disincanto? E se dalle rotture nascesse veramente il nuovo?». Sì, nel buio la luce si vede meglio, anche se è piccola.

* Frate dell’Ordine dei servi di Maria

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