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La crisi greca e la sinistra che non c'è

La crisi greca e la sinistra che non c'è

Dopo tanta attenzione politica e mediatica e dopo tante drammatizzazioni, la crisi greca è sfociata in un epilogo non certo edificante ma in qualche modo scontato. Una lunga e aspra contesa segnata da manovre rivolte, in non trascurabile misura, a salvaguardare il prestigio dei principali protagonisti, come è emerso dai tanti "retroscena" che hanno disvelato il contenuto di riservate e a volte tortuose trattative. Quando il lungo braccio di ferro fra le parti sembrava volgere al termine, il governo ellenico ha ritenuto di fare ricorso ad un referendum nebuloso nel contenuto tecnico ma chiaro nel quesito politico ("sì" o "no" alle richieste delle autorità interessate). Una scelta con la quale l'Esecutivo Tsipras si è prodotto in un "capolavoro" che è apparso un inedito ibrido di abilità e di ingenuità politica: guidando il fronte del "no" ha puntato a neutralizzare l'opposizione interna per poi dover accettare, messo alle strette in sede europea, un piano ben più pesante di quello respinto dalla consultazione popolare. Non è infatti rinvenibile nell'accordo di Bruxelles alcuna riduzione del valore nominale del debito ma solo possibili allungamenti delle scadenze di pagamento a condizione che risulti effettiva l'attuazione di rigorose riforme da portare a termine entro tempi assai brevi. C'è poi il prestito del fondo salva-Stati da 86 miliardi in tre anni con la possibilità di accedere all'uso di 35 miliardi di euro per lo sviluppo e l'occupazione e la creazione di un fondo fiduciario nel quale far confluire gli "asset" di Atene a garanzia degli aiuti. Un fondo gestito in Grecia dalle autorità elleniche ma sotto il controllo della UE, della Banca Europea e del Fondo Monetario Internazionale (il formale ritorno della Troika).

Dopo le mortificanti vicende delle ultime ore, malinconico prodotto di un'Europa non all'altezza delle sue responsabilità e di un governo greco in difficoltà perché costretto a compiere scelte drammatiche per il suo Paese, la montagna delle dichiarazioni, delle manovre e degli scontri ha partorito il topolino di un pasticciato e fragile accordo interlocutorio che, se confermato dai Parlamenti interessati, presenta l'esclusivo merito di impedire la fuoriuscita della Grecia dall'Unione Europea ma non assicura certo la definitiva soluzione del problema. E non poteva essere diversamente perché la Grecia (governo e popolo) non vuole uscire dall'euro paventando i disastrosi esiti di tale evenienza e perché l'Europa ha tutto l'interesse a "salvare" la Grecia per quanto essa storicamente e culturalmente rappresenta e per le imprevedibili conseguenze che la "Grexit" potrebbe avere sul futuro dell'Unione.

Gli avvenimenti di questi giorni hanno dato ragione a quanti vanno da tempo affermando che senza una piena unità politica (gli Stati Uniti d'Europa) l'attuale Unione rischia di non avere futuro. Così come hanno messo in rilievo due inammissibili errori: la pretesa di ritenere che si possa restare in Europa e nella zona euro con la sistematica violazione di regole comunitarie concordemente sottoscritte fermo restando (per chi ne è convinto) il diritto e il dovere di lottare per una loro radicale riforma e l'illusione di pensare che sia possibile modificare la politica economica dell'Unione Europea per l'iniziativa singola di questo o di quel governo o, ancor meno, di questo o di quel partito. La gravità del primo errore è dimostrata, con l'evidenza dei fatti, proprio dai drammatici sviluppi della crisi greca mentre il secondo errore trova la sua origine nel non tenere presente che la politica economica europea è figlia "naturale" e, a suo modo, "legittima" di quel capitalismo neoliberista che si affermò negli anni '80 del secolo scorso portando avanti un progetto di deregolamentazione dei mercati finanziari, di flessibilizzazione del lavoro e di privatizzazione degli istituti pubblici col conseguente progressivo abbattimento dello Stato sociale. Un sistema che, forte anche di una smisurata potenza mediatica, continua a esercitare un'incontrastata egemonia nonostante i suoi clamorosi fallimenti.

Contro questo sistema si levano alti e forti i rilievi critici di autorevoli personalità del mondo della cultura e della scienza e i moniti dei rappresentanti delle grandi tradizioni spirituali. E non basta perché ci sono anche i principi, i valori e le direttive dei "grandi Statuti": lo Statuto delle Nazioni Unite che raccomanda di "sviluppare la cooperazione internazionale nei campi economico, sociale, educativo e della sanità pubblica e di promuovere il rispetto dei diritti dell'uomo", la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo che proclama il principio di uguaglianza contro tutte le discriminazioni e precisa che "ogni individuo ha diritto al lavoro" e "ad una remunerazione equa e favorevole che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana", il Trattato dell'Unione Europea con il quale l'Unione medesima si impegna a promuovere un progresso economico e sociale equilibrato e sostenibile e non ultima, per la forza profetica che l'anima, la nostra Costituzione che fa carico alla politica di rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono l'uguaglianza economico-sociale e il pieno sviluppo della persona umana.

Ora, se è vero come è vero che il neoliberismo si pone nei fatti in aperto contrasto con le grandi conquiste dell'etica politica e con i precetti dei "grandi Statuti", è altrettanto vero che occorre un movimento mondiale di opinione capace di lottare, con le armi della democrazia, per il superamento dell'iniquo sistema. E non è certo pensabile che possano dare un efficace contributo a tale impegno movimenti politici, sia pur generosi come Syriza e Podemos, che non assumano come propria carta d'identità la contestazione dell'imperante "pensiero unico" e si concedano anch'essi il vezzo di considerare un residuo ideologico di tempi andati il rapporto competitivo fra destra e sinistra. Durante il recente viaggio in Bolivia papa Francesco, affrontando ancora una volta i drammi sociali del nostro tempo, così si è espresso: "Vogliamo il cambiamento delle strutture.......un cambiamento che tocchi tutto il mondo e metta l'economia al servizio dei popoli. L'equa distribuzione è un dovere morale, si tratta di restituire ai poveri e al popolo ciò che a loro appartiene". Un messaggio spirituale con forte valenza educativa che, in versione politica, dovrebbe costituire l'impegno basilare di quella sinistra "che non c'è" e che bisognerebbe costruire accantonando divisioni,  protagonismi, inclinazioni a primeggiare e vecchi padronati ma anche annacquati nuovismi. Una sinistra che non può limitarsi solo a difendere i diritti civili, a fare qualche battaglia contro la casta e a denunciare l'immoralità. Perché così facendo rischia di deviare l'attenzione popolare dalle cause effettive del disagio sociale e finisce per rassicurare i poteri forti rendendo ad essi un utile servizio.

Michele Di Schiena è presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione

* Immagine di Sharon Mollerus, tratta dal sito Flickr, licenzaimmagine originale. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza potranno essere perseguite

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