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Micromega su Francesco. Quando un gesuita diventa papa

Micromega su Francesco. Quando un gesuita diventa papa

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 30 del 12/09/2015

Di seguito pubblichiamo un estratto del numero 6/2015 di MicroMega sul pontificato di papa Francesco, che verrà presentato a Roma il 15 settembre con la partecipazione di due redattori di Adista (per ulteriori informazioni, v. rubrica “Riviste”).


Jorge Bergoglio, novizio nei gesuiti argentini dal 1958, ordinato sacerdote nel 1969, concluse la sua formazione nel 1973 secondo la regola dell’ordine con un «terzo anno di noviziato» (un ultimo anno di ritiro spirituale): si è dunque trovato all’inizio del suo percorso religioso nel pieno della crisi politica, sociale e religiosa degli anni Sessanta che si è tradotta, soprattutto in Argentina in ragione della violenza dei governi civili o militari al potere, in una crescente politicizzazione dei giovani religiosi e nell’abbandono di molti di loro. Nel maggio 1969 l’Argentina ha vissuto anche – episodio troppo dimenticato – una sorta di «Maggio ‘68» a Córdoba: una rivolta (...) partita dagli studenti e dagli operai, la cui repressione provocò nel Paese uno sciopero generale e, all’indomani di questo, la comparsa sulla scena di gruppi peronisti e di estrema sinistra che si lanciarono nell’azione diretta prima e nel terrorismo poi.

Anche se le informazioni (...) su Bergoglio dopo la sua elezione restano incomplete (specie sugli anni della sua formazione), si sa che fu colpito dagli avvenimenti e dal clima degli anni Sessanta e Settanta (…). Più precisamente, se dobbiamo credere a Bernadette Sauvaget, autrice di un ottimo testo passato troppo inosservato sulla «visione del mondo» di papa Francesco, politicamente sarebbe stato segnato fin dall’adolescenza dal peronismo, la corrente populista fondata da Juan Perón, leader carismatico salito al potere in Argentina nel 1946, deposto da un golpe militare nel 1955, tornato infine nel 1973 e morto l’anno successivo. Con la sua politica “giustizialista” e l’ispirazione corporativista, Perón, militare in rotta con l’esercito legato alla borghesia e ai proprietari terrieri, perseguiva l’emancipazione economica e politica della classe operaia.

Il peronismo poteva certo risultare seducente per il futuro papa, tanto più che il partito popolare di massa che lo sosteneva attirava i seguaci dell’estrema sinistra come dell’estrema destra, e si ispirava in parte alle grandi encicliche sociali della Chiesa: la Rerum novarum (1891) di Leone XIII e la Quadragesimo anno (1931) di Pio XI. Un fatto sorprendente, se ci si ricorda che l’ingresso in un ordine religioso comporta di norma la sospensione degli impegni mondani: negli anni Sessanta Bergoglio sarebbe stato non ufficialmente membro ma apertamente simpatizzante di un’organizzazione peronista, la Guarda de Hierro (Guardia di ferro), all’opposizione durante il regime dominato dai militari. In particolare, del peronismo avrebbe apprezzato l’insistenza sul senso e sul ruolo del “popolo”, un popolo che rappresenta una sorta di bussola dell’azione politica. Questa empatia politica per il “popolo” si è senz’altro confusa, in lui come in altri, con l’idea centrale del “popolo di Dio” portata avanti dal Concilio Vaticano II nel definire la Chiesa; e sarà decisiva per i cattolici maggiormente impegnati nella riforma della Chiesa, assumendo un significato “politico” interno: lungi dall’essere un’organizzazione gerarchica – o meglio, prima di diventarlo – la Chiesa-popolo di Dio è l’assemblea dei figli di Dio, tutti uguali gli uni agli altri, fratelli in Cristo e assistiti dalla stessa grazia dello Spirito Santo. Da questo punto di vista l’idea del “popolo di Dio” contesta la concezione di un’istituzione piramidale, gerarchizzata, in cui autorità e obbedienza definiscono i legami che uniscono i membri tra loro. Già dalla fine degli anni Settanta il cardinale Ratzinger criticò quest’uso teologico-politico: secondo lui la concezione della Chiesa che il Concilio intendeva promuovere era una definizione puramente spirituale, quella di un “popolo” assolutamente non politico. Da papa, eviterà poi di dare risalto a quell’espressione, anzi eviterà addirittura di citarla. Ciononostante altri teologi ne difesero la legittimità, e la definizione continuò a furoreggiare; in ogni caso, papa Francesco sembra esserne tuttora ispirato, ma in base a una concezione mistica e addirittura carnale da cui non sembrano assenti il peronismo o semplicemente l’America Latina con la sua calorosa apertura sociale: per esempio, quando parla dell’«odore» del gregge di cui i veri pastori della Chiesa (per conoscerlo e servirlo) si dovrebbero impregnare (…). Possiamo dire, in sintesi, che la Teologia del popolo insiste sul significato teologico del popolo stesso e non innanzitutto sulla sua liberazione politica ed economica (come ha fatto invece la Teologia della Liberazione) né sulla sua vocazione «egualitaria» (come è stato spesso interpretato in Europa il concetto di popolo di Dio utilizzato dal Vaticano II). Anche se questi ultimi significati non sono esclusi, c’è un’importante differenza di accento e soprattutto l’insistenza sul fatto che dal popolo e dalla sua fede c’è tanto da imparare e da ricevere (…). Non solo il papa sostiene la religiosità popolare, ma vi si sente in sintonia, costituisce per lui un «luogo teologico». (…) 

Qualsiasi cosa Bergoglio abbia fatto o non fatto [durante la dittatura in argentina], considerata la violenza dei militari, è comprensibile che la “sinistra gesuita” argentina sia stata mortificata dai suoi silenzi: silenzi che finiranno per farlo cadere decisamente in disgrazia nella Compagnia argentina durante gli anni Ottanta .

(...) Ma fin d’ora è lecito chiedersi: quali potevano essere gli elementi del suo “discernimento” in quanto superiore provinciale ai tempi di quella storia tanto terribile? Sarebbe di enorme interesse poter conoscere le sue esitazioni, le sue scelte e le ragioni che le motivarono. Se ne possono ipotizzare almeno due. Da una parte Bernadette Sauvaget sottolinea il probabile ruolo del suo peronismo centrista: tale affinità gli impedì probabilmente di aderire alla Teologia della Liberazione e al marxismo, sempre più influenti in Argentina e in tutta la Chiesa latino-americana dal 1965 in poi. Probabilmente, prima di essere provinciale, nutriva forti riserve personali contro chi era maggiormente impegnato a sinistra. Dall’altra parte, prima di essere nominato giovanissimo a quella carica – appena 37 anni, «una pazzia» come ha dichiarato lui stesso nel settembre 2013 alle riviste gesuite – Bergoglio fu anche, a partire dal 1972, un giovanissimo maestro di novizi (…). Questa funzione, così importante, è spesso affidata a un gesuita considerato “spirituale”, che abbia cioè particolarmente interiorizzato la tradizione degli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio, ovvero la tradizione mistica della Compagnia (...). È facile immaginare che questo radicamento interiore nella spiritualità non l’abbia indotto a volgersi verso i gesuiti più politicizzati. Al di là del suo atteggiamento sotto la dittatura (...), Bergoglio si è trovato oberato di pesanti responsabilità dal suo ordine nel momento di una prova terribile che si è ripetuta nel XX secolo per religiosi, sacerdoti, credenti costretti loro malgrado in situazioni di un’estrema violenza di Stato: che dire, che fare “a livello spirituale” in simili situazioni politiche e sociali, quando qualsiasi dichiarazione pubblica, qualsiasi azione impegnata rischiano di creare fratture nel corpo ecclesiale e nella Compagnia?

(…). Alla fine del suo mandato la divisione interna alla provincia era tale che per trovargli un successore come provinciale fu necessario andare a cercare un gesuita colombiano. Fu comunque indiscutibilmente un fallimento, che lui dovette vivere come tale. Anche la sua successiva carriera nella Compagnia conserva qualche zona d’ombra: dopo essere stato rettore di una facoltà di teologia, dal 1980 in poi (dunque all’indomani del provincialato), nel 1986 si reca in Germania, forse soprattutto per cambiare aria: rimarrà solo pochi mesi alla Facoltà gesuita di Filosofia e Teologia di Sankt Georgen a Francoforte, per un progetto di tesi poi abortito, ma al suo ritorno viene inviato alla residenza gesuita di Córdoba, 700 km a nord di Buenos Aires, come confessore e parroco di quartiere, a quanto pare: una nomina sorprendente, che assomiglia moltissimo a una messa in disparte dovuta al persistere di un disagio nei riguardi del suo governo come provinciale. È qui che il cardinale Quarracino, arcivescovo di Buenos Aires, lo toglie dalla situazione in cui si presume fosse relegato per farne il suo ausiliario, rilanciando in tal modo la sua “carriera” (...). 

Secondo Bernadette Sauvaget è poi rimasto «fino alla sua elezione una figura controversa all’interno della Compagnia di Gesù» argentina ed evitava persino, quando andava a Roma da arcivescovo, di frequentarne le case romane. (…)

Alla fine che cosa resta di quegli anni di drammi, di polvere e di lacrime? Una libertà che si traduce in un certo stile, in un certo “modo di procedere”. Si possono formulare alcune ipotesi. È sicuramente innanzitutto, filtrato dalle prove della vita, ciò che resta più invisibile agli occhi delle folle e dei media. Le sue omelie “sentite” alla messa del mattino, per esempio, e altre occasioni in cui si riconosce il predicatore degli Esercizi spirituali che propone ai partecipanti dei “punti di meditazione” (...) traendo spunto dal Vangelo o da altri testi biblici; quando evoca il Diavolo, gli angeli e i miracoli in modo estremamente realista si rivela impregnato della religione popolare latino-americana e lontano dalle reticenze di un gesuita europeo “illuminato”. (…). Ancora, il continuo ritornare (dal discorso in preparazione del conclave in poi) sulle «mondanità» da evitare ad ogni costo richiama un tema già presente nella letteratura spirituale della Chiesa antica ed energicamente sottolineato nella tradizione gesuita: la guerra contro la «vanagloria», contro l’esaltazione di sé e l’autoreferenzialità. Infine, più importante di tutto il resto, sembra essere la decisione ferma e decisa di realizzare – con gli strumenti più appropriati, ivi compresi quelli del “mondo” quando si tratta per esempio di finanza, e magari anche con “astuzia” – le riforme chieste dai cardinali durante il Conclave (la Banca vaticana, la Curia, la questione dei divorziati risposati): riforme precise che devono affrontare ostacoli immensi, e dunque anche fasi di opposizione, di “desolazione”, in cui il papa sembra applicare la regola (n. 318) degli Esercizi spirituali: «Resta saldo nei propositi che avevi il giorno precedente a tale desolazione, o nella decisione in cui eri nella precedente consolazione». (…)

Jean-Louis Schlegel è filosofo e sociologo della religione. Traduzione di Anna Tagliavini

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