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Scontri a Gerusalemme: la risposta di un popolo che non ha più nulla da perdere

Scontri a Gerusalemme: la risposta di un popolo che non ha più nulla da perdere

Tratto da: Adista Notizie n° 36 del 24/10/2015

38303 ROMA-ADISTA. «L’escalation di violenze non è cominciata con l’uccisione di due coloni israeliani, è cominciata molto tempo fa ed è andata avanti per anni. Ogni giorno ci sono palestinesi uccisi, feriti, arrestati. Ogni giorno che passa il colonialismo avanza, l’assedio del nostro popolo a Gaza continua, oppressioni e umiliazioni si susseguono. Mentre molti oggi ci vogliono schiacciati dalle possibili conseguenze di una nuova spirale di violenza, io continuerò a chiedere che ci si occupi delle cause che stanno alla radice della violenza: la negazione della libertà del popolo palestinese».

In questi giorni in cui i grandi mezzi di comunicazione, italiani e non, fanno un pessimo servizio a lettori e telespettatori scegliendo di raccontare questa storia come se fosse cominciata appena due settimane fa e senza citare le violenze dei coloni e delle forze di sicurezza – dal corrispondente Rai Piero Marrazzo ad Alessandro Gilioli che su L'Espresso firma un articolo in cui la parola “occupazione” non ricorre neppure mezza volta – a rimettere le cose al loro posto è Marwan Barghouti, il leader palestinese detenuto nel carcere israeliano di Hadarim.

In una lettera pubblicata dal Guardian (11/10, una traduzione in italiano è disponibile sul sito di Assopace Palestina) Barghouti, anche detto il Mandela palestinese, fa un po' di chiarezza sottolineando che «il vero problema è che Israele ha scelto l’occupazione al posto della pace ed ha usato i negoziati come una cortina di fumo per portare avanti il suo progetto coloniale. Tutti i governi del mondo conoscono questa semplice verità – prosegue – eppure molti di loro fanno finta che un ritorno alle ricette fallite del passato ci potrebbe permettere di raggiungere libertà e pace»: «Ho trascorso 20 anni della mia vita, tra cui gli ultimi 13, nelle prigioni di Israele – conclude Barghouti – e tutti questi anni mi hanno reso ancora più convinto di una immutabile verità: l’ultimo giorno dell’occupazione sarà il primo giorno della pace». 

L'hasbara – la propaganda sionista – sicuramente risponderebbe che queste affermazioni sono di poco valore visto che a farle è un palestinese. Ma a dire le stesse cose, in questi giorni, sono anche cittadini israeliani come il giornalista Gideon Levy, il quale si è spinto ad affermare che «anche il mahatma Gandhi comprenderebbe le ragioni dietro a questa esplosione di violenza da parte dei palestinesi», o la sua collega Amira Hass che ha sottolineato a più riprese che la guerra non è iniziata con l'omicidio, il 1° ottobre scorso, della coppia di coloni e che non finirà quando nessun ebreo verrà assassinato. «I palestinesi stanno lottando per la loro sopravvivenza, nel vero significato della parola. Noi israeliani ebrei stiamo lottando per i nostri privilegi in quanto nazione di padroni, nel senso peggiore del termine. Il fatto che ci si accorga che c’è una guerra solamente quando gli ebrei sono assassinati non cancella la realtà che i palestinesi vengono continuamente uccisi e che di continuo facciamo qualunque cosa in nostro potere per rendergli la vita insostenibile». «I giovani palestinesi non assassinano ebrei in quanto ebrei, ma perché noi siamo i loro occupanti, i loro torturatori, siamo quelli che li imprigionano, i ladri della loro terra e della loro acqua, siamo quelli che li mandano in esilio, i demolitori delle loro case, quelli che gli negano un futuro».

Terza Intifada?

Ad accendere la miccia della rabbia palestinese, gli eventi succedutisi in settembre alla Spianata delle Moschee con le restrizioni all'accesso dei musulmani al luogo sacro, l'intensificarsi dei pellegrinaggi ebraici e la conseguente preoccupazione da parte palestinese di una modifica dello status quo del al-Haram al-sharif tesa a portare il sito sotto il controllo israeliano, nell'ambito di quella progressiva ebraicizzazione di Gerusalemme cui Israele mira (v. Adista Notizie n. 33/15).

Fatti che si intrecciano con l'irreversibile perdita di credibilità del presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen. La sua strategia, concretizzatasi prima nei negoziati di pace e poi, di fronte al loro fallimento, nell’appello a istituzioni e organismi internazionali, si è rivelata fallimentare, non avendo incassato alcun risultato che abbia avuto risvolti tangibili. Non stupisce quindi che in base a un sondaggio effettuato a settembre dal Palestinian Centre for Policy and Survey Research, i due terzi dei palestinesi vogliano le sue dimissioni. 

Anche il suo discorso all'Onu del 30 settembre scorso, quando si è limitato a dire che la Palestina non si sarebbe più sentita vincolata agli accordi con Israele, è da molti stato considerato come un'occasione persa. Come se non bastasse, a distanza di pochi giorni, nel clima infuocato di queste settimane, ha di fatto smentito quanto dichiarato in quella sede, confermando la cooperazione con Israele in materia di sicurezza, uno dei capitoli più importanti e più contestati – da parte palestinese – degli Accordi di Oslo.

L'atteggiamento dell'Anp rispetto a quella che è già stata ribattezzata “Intifada di Gerusalemme” (o, dagli israeliani, “Intifada dei coltelli”) è uno degli elementi di maggiore discontinuità rispetto alla prima e alla seconda Intifada. Entrambe, come ricorda sul portale 972mag (9/10) Noam Sheizaf, hanno infatti visto mobilitata praticamente tutta la popolazione, istituzioni comprese (anche se la seconda Intifada col tempo ha assunto un'altra forma e ha visto coinvolto un numero relativamente limitato di persone).

Difficile dunque dire – posto che ogni definizione lascia il tempo che trova – se quella di questi giorni assumerà i contorni di una terza Intifada. Certo è che il sondaggio del Palestinian Centre for Policy and Survey Research del mese scorso rilevava anche come, in assenza di un vero processo di pace, sia il 57% dei palestinesi a sostenere il ritorno a una Intifada armata.

Ci si poneva la stessa questione, per esempio, con le proteste dello scorso anno, quelle seguite alla punizione collettiva scatenata da Israele dopo il rapimento dei tre giovani coloni poi ritrovati morti. La principale differenza rispetto ad allora sta nelle proteste dei cittadini palestinesi di Israele. Nonostante l'omicidio della coppia di coloni sia avvenuto nel nord della Cisgiordania e nonostante anche Gaza abbia manifestato in più occasioni la propria rabbia (dal 13 settembre al 13 ottobre dei 29 morti palestinesi, 11 sono gazawi) è a Gerusalemme che è avvenuta la maggior parte delle iniziative individuali che hanno portato al ferimento o alla morte di diversi cittadini israeliani.

Durissima la risposta delle forze di sicurezza. D'altronde a Israele un'escalation della violenza fa gioco. Come rileva Amira Hass, «finora l’esperienza ha dimostrato che i periodi di calma dopo quelli sanguinosi non ci riportano al punto di partenza, ma piuttosto a un livello più basso nel sistema politico palestinese mentre fanno aumentare i privilegi degli ebrei in un Israele sempre più grande».

Unica sicurezza: la fine dell’occupazione

Che dalla prima e dalla seconda Intifada i palestinesi abbiano guadagnato ben poco è convinto anche mons. William Shomali. «Se guardiamo al passato con occhio critico, possiamo dire che, a lungo andare, quello che è arrivato ai palestinesi dalle due precedenti sollevazioni sono stati più danni che benefici», ha dichiarato in un'intervista alla Misna (6/10). «I palestinesi semplicemente non hanno più niente da perdere», ha proseguito il vescovo ausiliario e vicario del Patriarcato latino di Gerusalemme: «La loro frustrazione per la mancanza di lavoro, le condizioni di vita, la mancanza di prospettive future ha raggiunto un livello non più tollerabile». «L’unica cosa che può sanare quest’odio feroce – ha concluso – è ottenere giustizia per i palestinesi».

Dello stesso avviso il Patriarca latino Gerusalemme, mons. Fouad Twal, il quale ha sottolineato che è necessario «vedere quali circostanze hanno indotto a questa Intifada». A mancare, e qui il vescovo punta chiaramente il dito contro Israele, è la «volontà politica di cambiare le cose».

Quanto alle misure di “sicurezza” adottate da Israele nelle zone palestinesi di Gerusalemme per p. Raed Abusahliah, direttore generale di Caritas Jerusalem (Fides, 14/10), non faranno altro che «aumentare la rabbia e la frustrazione»: «L'unico modo di ottenere una sicurezza stabile e per tutti è quello di restituire la libertà al popolo palestinese». 

* Immagine di Andrea Mancini, tratta dal sito Flickr, licenza e immagine originale. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza potranno essere perseguite

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