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Cop21: la "sicurezza" dei ricchi imbavaglia le vittime dei cambiamenti climatici

La Conferenza delle Parti (Cop21) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici è in pieno svolgimento e proseguirà fino all'11 dicembre. Per approfondire la questione vi proponiamo, in una nostra traduzione dall'inglese, la riflessione di Naomi Klein apparsa sul quotidiano The Guardian il 20 novembre scorso.


Chi sono quelli la cui sicurezza va protetta con ogni mezzo possibile? E chi sono quelli la cui sicurezza all'occasione si sacrifica, malgrado esistano mezzi per fare di meglio, e molto? Se queste sono le domande al centro della questione della crisi climatica, le risposte sono il motivo per cui i vertici sul cambiamento climatico si chiudono spesso fra lacrime e recriminazioni

La decisione del governo francese di proibire le proteste, le manifestazioni e altre «attività all'aperto» durante il vertice di Parigi è, sotto molti aspetti, inquietante. Quello che più mi preoccupa ha a che vedere con il modo in cui tale decisione riflette la stessa disuguaglianza fondamentale che caratterizza la crisi climatica, la questione chiave di cosa si intenda per sicurezza e di chi, in ultima istanza, viene preso in considerazione in questo mondo diseguale.

Vi sono coloro che dicono che in un contesto segnato dal terrorismo tutto si giustifica. Ma una conferenza sul cambiamento climatico non è come una riunione del G8 o dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, in cui si incontrano i potenti e in cui quelli che il potere non ce l'hanno cercano di guastare la festa. Le azioni della società civile parallela non sono un elemento superfluo, né una distrazione rispetto all'evento principale. Sono parte integrante del processo, ragione per cui il governo francese non si sarebbe dovuto permettere di decidere quali parti del vertice cancellare e quali mantenere.

Piuttosto, dopo i tremendi attentati del 13 novembre, era necessario determinare se esistevano la volontà e la capacità di ospitare il vertice nel suo complesso, con la piena partecipazione della società civile, incluse le manifestazioni per le strade. Se non era possibile, si sarebbe dovuto rimandare o si sarebbe dovuto chiedere a un altro Paese di assumersi l'impegno. Invece, il governo di Hollande ha adottato una serie di decisioni che riflettono un insieme di valori e di priorità molto particolari su chi e cosa merita di ricevere una completa protezione da parte dei servizi di sicurezza dello Stato. Sì ai leader mondiali, alle partite di calcio e ai mercatini di Natale; no alle manifestazioni sul cambiamento climatico e alle proteste contro i negoziati, considerando che le attuali proposte di tagli alle emissioni mettono in pericolo le vite e le condizioni di vita di milioni, se non di miliardi di persone.

Dove ci porterà tutto questo? Dobbiamo aspettarci che le Nazioni Unite revochino arbitrariamente le credenziali della metà dei partecipanti della società civile? Di coloro che più probabilmente potrebbero causare problemi all'interno del vertice blindato come una fortezza? Non mi sorprenderebbe affatto.

Vale la pena riflettere su cosa significa, in termini reali oltre che simbolici, cancellare manifestazioni e proteste. Il cambiamento climatico rappresenta una crisi morale perché ogni volta che i governi delle nazioni ricche si mostrano incapaci di agire, il messaggio è: noi, nel nord globale, stiamo anteponendo il nostro comfort immediato e la nostra sicurezza economica alla sofferenza e alla sopravvivenza dei popoli più poveri e vulnerabili della Terra. La decisione di cancellare gli spazi più importanti in cui si sarebbe potuta ascoltare la voce della gente che ha sofferto per le conseguenze del riscaldamento ambientale è drammatica espressione di un abuso di potere profondamente contrario all'etica: ancora una volta un ricco Paese occidentale antepone la sicurezza delle élite agli interessi di quanti lottano per la sopravvivenza. Una volta di più, il messaggio è che la nostra sicurezza non è negoziabile, la vostra è alla mercé di chiunque.

Un'ulteriore riflessione. Scrivo queste parole da Stoccolma, dove sono impegnata in una serie di eventi pubblici relativi alla questione del cambiamento climatico. Quando sono arrivata, la stampa era tutta presa da un tweet inviato dalla ministra svedese dell'Ambiente, Åsa Romson. Poco dopo la notizia degli attentati di Parigi, ha twittato la sua indignazione e tristezza per la perdita di vite umane aggiungendo poi che riteneva fosse una cattiva notizia per il vertice sul clima: una riflessione che ha fatto chiunque sia legato al movimento ambientalista. Tuttavia è stata schernita per la sua presunta insensibilità: come poteva pensare al cambiamento climatico nel momento in cui era stata compiuta una simile carneficina?

La reazione è stata rivelatrice, visto che dava per scontato che il cambiamento climatico è una questione di minore importanza, una causa senza fondamento, persino frivola. Soprattutto quando questioni come la guerra e il terrorismo prendono il sopravvento sulla scena. Mi ha fatto pensare a qualcosa che Rebecca Solnit scrisse non molto tempo fa: «Il cambiamento climatico è violenza».

Lo è. Parte di questa violenza è sul lungo periodo: mari che si alzano e che gradualmente cancellano interi Paesi, siccità che uccidono migliaia di persone. Parte di questa violenza è invece evidente nel breve periodo: uragani come Katrina e Haiyan che rubano migliaia di vite umane in un attimo. Quando governi e grandi imprese non sono capaci di agire per prevenire un riscaldamento catastrofico, questo costituisce un atto di violenza. È una violenza talmente grande, talmente globale e che si abbatte simultaneamente sui nostri antenati, sui nostri discendenti e su noi stessi (antiche culture, vite presenti, futuro in potenza) che non esiste una parola in grado di contenere tutta la sua mostruosità. E ricorrere ad atti di violenza per mettere a tacere le voci di coloro che sono più esposti alla violenza del cambiamento climatico aggiunge altra violenza.

Per spiegare come mai le partite di calcio previste si sarebbero tenute come da programma, il segretario di Stato francese allo Sport ha dichiarato: «La vita deve andare avanti». Vero. Ed è per questo che mi sono unita al movimento per la giustizia climatica. Perché quando governi e grandi imprese non riescono ad agire in modo da riflettere il valore di ogni forma di vita sulla Terra, bisogna reagire.

* Immagine di Alisdare Hickson, tratta dal sito Flickr, licenza e immagine originale. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza potranno essere perseguite

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