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Perché non si dica “io non sapevo

Perché non si dica “io non sapevo"

Tratto da: Adista Documenti n° 4 del 30/01/2016

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Sono molto contento di essere qui e di vedere così tante persone: vi garantisco che a Tel Aviv non ci sarebbe tutta questa gente a sentire quello che ho da dire. La mia speranza in effetti è molto più riposta nell'Italia, nell'Europa, nelle organizzazioni non governative che nella società israeliana.

Lasciate che vi racconti qualcosa di me.

Sono nato a Tel Aviv, i miei genitori erano entrambi profughi dall'Europa. Ero il tipico prodotto del sistema educativo israeliano, di cui ho subìto il lavaggio del cervello come la maggior parte della mia generazione. Non avevo mai sentito parlare della Nakba e pensavo che noi, gli ebrei, avessimo sempre ragione e che gli arabi avessero sempre torto, che noi fossimo Davide e loro Golia, che l'unico scopo degli arabi fosse quello di gettarci nell'oceano e che noi siamo le vittime: le uniche vittime.

Ero un bravo ragazzo di Tel Aviv: ho servito nell'esercito e ho fatto qualcosa forse di peggiore, ho lavorato quattro anni per Shimon Peres. Nessuno è perfetto. E quando si è giovani si fanno errori e tante cose stupide.

È stato solo alla fine degli anni ‘80, con la Prima Intifada, quando mi sono recato nei Territori occupati come giornalista, che mi sono reso conto che si stava consumando un dramma nel nostro cortile di casa: un grande dramma di cui gli israeliani non vogliono sapere nulla, di cui pochissimi giornalisti israeliani parlano. È a partire da quel momento che ho gradualmente deciso che avrei dedicato la mia vita professionale alla documentazione del crimine dell'occupazione per quei pochi, pochissimi israeliani che vogliono conoscere e per gli archivi, così, quando un giorno, e sono sicuro che quel giorno arriverà, si chiederà agli israeliani dove fossero quando tutto questo succedeva, e molti risponderanno “non sapevamo niente”, ci saranno le prove che, se qualcuno avesse voluto sapere, avrebbe potuto farlo.

In questi 30 anni la mia visione è diventata sempre più radicale, perché, prendendo sempre più coscienza di quanto criminale sia la situazione, mi sono convinto che solo affrontandola in modo radicale si potrà trovare una soluzione.

Per anni ho sostenuto la soluzione “due popoli due Stati”, credendo che fosse quella buona e giusta, ma ora mi rendo conto che non c'è mai stato neppure un politico israeliano di rilievo davvero intenzionato a porre fine all'occupazione o a dare seguito alla soluzione dei due Stati. E ora che ci sono 600mila coloni il treno della soluzione dei due Stati ha lasciato per sempre la stazione.

Ma torneremo sulla questione più avanti, perché vorrei dedicare questo intervento più che altro ad analizzare la società israeliana e il suo sviluppo in questi anni.

UNO STATO, TRE REGIMI

Israele è forse il solo Stato al mondo che ha tre regimi.

È una democrazia liberale per i suoi cittadini ebrei. Una democrazia via via più fragile e debole, con l'approvazione sempre più frequente di leggi antidemocratiche, e in cui comunque c'è una scarsa consapevolezza di cosa voglia dire democrazia: la democrazia viene scambiata per il volere della maggioranza.

Il secondo regime è quello che si sostanzia nei confronti dei palestinesi cittadini di Israele (gli arabo-israeliani, che rappresentano il 20% della popolazione): partecipano formalmente alla vita democratica, votano, vengono eletti, hanno libertà di parola e movimento, ma sono soggetti a discriminazioni in ogni campo possibile.

Il terzo è ovviamente l'occupazione militare dei Territori: una delle più brutali tirannie al mondo, e non sto esagerando. Tirannia totalitaria come nessun'altra. Regime che può essere definito solo come apartheid. Perché ha l'apparenza e la sostanza dell'apartheid. Perché, quando due popoli condividono un pezzo di terra e uno dei due gode di ogni diritto e l'altro di nessuno, questo è apartheid.

Quindi ecco la prima bugia: “Israele è l'unica democrazia del Medio Oriente”. Non esiste infatti una democrazia a metà: o si è una democrazia in senso completo o non lo si è. O una democrazia è tale per tutti coloro che vivono sotto la sua sovranità oppure non è una democrazia. E poiché non si può negare che i due milioni di palestinesi della Cisgiordania e i due milioni di palestinesi di Gaza vivano, in modi diversi, sotto il controllo di Israele, dire che Israele è una democrazia non è altro che propaganda.

È una democrazia per un privilegiato come me: nato ebreo israeliano. Ma non si può definire il regime di un Paese considerando solo una delle sue facce.

E arrivo quindi alla domanda che da anni mi pongo: come è possibile che una così brutale tirannia abbia luogo a mezz'ora da casa mia e che la società israeliana non sia minimamente toccata dalla cosa? Gli israeliani non sono dei mostri. Sono sempre i primi a mandare aiuti in caso di catastrofi naturali in giro per il mondo. Com'è possibile allora che non ci sia alcuna reazione a tutto questo?

Molti israeliani sono profondamente convinti che le Forze di difesa israeliane (Idf) siano l'esercito più etico al mondo. Spesso ho provato a sfatare questa idea provando a dire che forse è il secondo esercito più etico al mondo: che magari l'esercito del Lussemburgo, posto che ce l'abbia un esercito, è più etico di quello israeliano. Affermazioni che scandalizzano: “Come puoi dire una cosa del genere?”. Ma se a Gaza, un anno e mezzo fa, l'esercito ha ucciso 500 donne e 500 bambini, come è possibile pensare che sia il più etico al mondo?

Per produrre un cambiamento abbiamo bisogno di capire le ragioni delle cose.

Gli israeliani hanno un certo numero di convinzioni che consentono loro di sentirsi tranquilli e sicuri del fatto che la giustizia sia dalla loro parte.

La prima convinzione è quella di essere il popolo eletto e di avere quindi più diritti degli altri. La convinzione che il diritto internazionale sia, sì, importante e vada applicato a tutti, ma non a Israele, che costituisce un caso speciale. Alle risoluzioni internazionali bisogna, sì, obbedire, ma non Israele, Israele è un caso a parte. Siamo il popolo eletto e questo ci dà il diritto di fare praticamente tutto ciò che vogliamo.

La seconda convinzione è che noi siamo le vittime. Di più: che siamo le uniche vittime. Nel corso della storia ci sono state tante occupazioni anche più brutali e più lunghe di quella israeliana, ma non c'è mai stata un'occupazione in cui l'occupante abbia presentato se stesso come la vittima. L'accento è sempre posto sulla sicurezza e il benessere dell'occupante, il quale presenta la situazione come un'imposizione delle circostanze. O, per dirla con le parole indimenticabili di Golda Meir, prima ministra israeliana negli anni Settanta: «Non perdoneremo mai ai palestinesi di averci costretto a uccidere i loro figli».

Essere le vittime dà ancora una volta agli israeliani il diritto di fare ciò che vogliono.

La terza convinzione – propagandata dai media israeliani che giocano un ruolo criminale e che sono i principali complici dell'occupazione – deriva dalla campagna di disumanizzazione e demonizzazione dei palestinesi. Fondamentalmente la maggioranza degli israeliani – non tutti – pensa che i palestinesi non siano proprio esseri umani fino in fondo, completamente. E questo ci dà la possibilità, ancora una volta, di fare quello che vogliamo, perché, se non sono esseri umani, o non sono esseri umani come noi, non c'è in ballo nessuna questione di diritti umani.

A questo si collega poi la convinzione che i palestinesi siano nati per uccidere, che siano tutti terroristi, che i giovani palestinesi si sveglino la mattina e decidano di andare a uccidere gli ebrei. A qualcuno piace collezionare farfalle, a qualcun altro francobolli: ai bambini palestinesi piace uccidere. E questa demonizzazione, unita alla disumanizzazione, ci conferma ancora una volta di essere dalla parte della ragione.

Queste tre convinzioni – di essere il popolo eletto, di essere le vittime, e che i palestinesi non siano esseri umani fino in fondo – costituiscono un potente strumento di lavaggio del cervello. Uno strumento che mi rende scettico sulla possibilità di un cambiamento dall'interno della società israeliana, la quale nel corso di questi anni si è spostata sempre più a destra, è diventata sempre più nazionalista, razzista, militarista. È molto chiaro verso dove sta andando ed è praticamente impossibile aspettarsi un cambiamento dall'interno finché perdureranno queste condizioni.

NESSUNA SPERANZA?

Certamente, nella società israeliana, ci sono gruppi coraggiosi che lavorano per un cambiamento, ma il loro coraggio non compensa la loro esiguità e la loro marginalità, anche perché sono soggetti alla delegittimazione da parte dei media.

Vi porto l'esempio dell'organizzazione Breaking The Silence, che raccoglie le testimonianze di quei soldati israeliani che vogliono «rompere il silenzio» sui crimini commessi nei Territori occupati. Questa organizzazione costituiva una grande speranza: avrebbe potuto rappresentare una scossa, condurre a un risveglio della società israeliana. E invece questo non è accaduto perché l'establishment militare – insieme ai media – l’ha immediatamente e totalmente delegittimata, impedendole di esprimere a pieno il suo potenziale.

Ho menzionato Breaking The Silence, ma di organizzazioni di questo tipo ce ne sono tante. La loro influenza però è pari a zero. In questo contesto, non c'è spazio per aspettarsi un cambiamento che venga dall'interno della società israeliana.

La speranza può essere riposta solo al di fuori di Israele: nel mondo. Il problema, che conoscete meglio di me, è che l'Europa istituzionale è totalmente paralizzata a causa del passato e dei suoi sensi di colpa e inoltre non è che la pallida ombra degli Usa. E quindi praticamente non fa nulla.

Prendete l'ultimo esempio dell'etichettatura delle merci delle colonie. Dopo così tanti anni, finalmente l'Europa prende questa decisione. Ed ecco cosa succede. L'Europa comincia subito a chiedere scusa: “Si tratta solo di una questione tecnica”; “Non ha valenza politica”. Un dovere dell'Europa si trasforma in qualcosa di cui chiedere scusa. Quando compro una macchina, voglio sapere se è rubata, magari la compro lo stesso, ma voglio saperlo. Quando compro una bevanda, voglio sapere quali sono gli ingredienti e dove è prodotta. E, se è prodotta su una terra rubata, voglio saperlo. Non è solo un mio diritto: è dovere del mio Paese informarmi. In Israele tutto ciò è stato presentato come un passo prima di Auschwitz. “L'Europa bolla nuovamente gli ebrei!”. Gli israeliani sono così fieri dei prodotti delle colonie: allora perché non far sapere che sono fatti lì? Si è agitato quindi lo spauracchio delle sanzioni. Ma quando la Russia ha invaso la Crimea le sanzioni sono arrivate dopo poche settimane: nel nostro caso, dopo 48 anni di occupazione, ancora non si è visto niente.

E poi ci sono gli Usa che hanno dimostrato di lasciare carta bianca a Israele su tutto: sui bombardamenti di Gaza, sulle nuove colonie... Una situazione che ha raggiunto livelli senza precedenti negli ultimi sette anni, durante la presidenza di Barack Obama, il quale, avendo costituito una grande speranza, rappresenta di conseguenza la più grande delusione. Il tutto in un periodo in cui Israele dipende dall'appoggio degli Usa più che mai, non solo economicamente e militarmente, ma anche politicamente. Dagli Usa, insomma, non verrà mai alcun cambiamento di rotta.

COMINCIARE A PENSARE IN TERMINI NUOVI

Così l'ultima speranza siete voi. La società civile, le organizzazioni non governative, l'opinione pubblica in Europa e negli Stati Uniti. E possiamo notare negli ultimi anni un crescente divario tra il comportamento dei governi e dei media da un lato e dell'opinione pubblica dall'altro. Mentre governi e media continuano a sostenere ciecamente Israele e i suoi crimini, l'opinione pubblica diviene sempre più cosciente che questa situazione è inaccettabile e che, in quanto tale, non può durare per sempre. E così associazioni, ong e realtà, come per esempio il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), rappresentano una fonte di speranza in un'era in cui la speranza è una merce sempre più rara.

Non è facile per me, israeliano che vive in Israele, dire quello che sto per dire, ma finché Israele e gli israeliani non saranno chiamati a rendere conto dei loro crimini, non potrà esserci alcun cambiamento. È un percorso lungo, ma da qualche parte bisogna cominciare e l'incoraggiamento più grande l'ho ricevuto da un paio di visite in Sudafrica, perché, se il boicottaggio ha funzionato lì, non c'è ragione al mondo per cui non possa funzionare in Israele.

La questione è: dove siamo diretti? Come ho detto all'inizio, ho perso speranza nella soluzione “due popoli due Stati”. E, allora, qual è l'alternativa? Io credo che la soluzione dei due Stati non si concretizzerà mai e che si continua a parlarne solo per prendere tempo, occupare ancora più terra e mantenere lo status quo. Dobbiamo cominciare a pensare in termini nuovi. Perché la soluzione dei due Stati fa parte del passato. Mi piacerebbe tanto che fosse realizzabile, ma non lo credo più. E allora qual è l'alternativa? La soluzione “uno Stato”. E voglio dirlo chiaramente: lo Stato unico già esiste da 48 anni. Milioni di palestinesi vivono già sotto leggi israeliane, in uno Stato unico. L'unico problema è che questo Stato non è democratico.

Dobbiamo cambiare i termini del discorso e spostarlo sulla parità di diritti, sull'eguaglianza. Cosa potrebbe tirare in ballo Israele per rifiutare questa prospettiva? La sicurezza, la religione, la Bibbia? L'unico argomento che potrebbe opporre è: gli ebrei hanno più diritti! E questo sancirebbe ufficialmente che si tratta di un regime di apartheid. E allora la questione si porrebbe in termini nuovi: il mondo è disposto ad avere un nuovo Stato di apartheid? E cosa è disposto a fare per mettere fine a questo crimine ingiusto?

Nessuno può immaginare cosa significhi vivere sotto occupazione israeliana. E non mi riferisco alle esecuzioni extragiudiziali, alle detenzioni senza processo, alle demolizioni delle case, alle punizioni collettive, alla confisca della terra. Parlo delle umiliazioni quotidiane, dei bambini costretti a vedere giorno dopo giorno i propri familiari umiliati di fronte ai loro occhi, tirati fuori dal proprio letto, arrestati e picchiati. Parlo del fatto che non puoi pianificare niente perché non sai cosa succederà domani. Parlo del fatto che il diritto di muoverti è come un “regalo” che i soldati possono elargire o meno, a loro piacimento.

Una realtà che in 48 anni non è cambiata. Possiamo pensare che la situazione sia andata ammorbidendosi con il tempo, ma non è così. E per questo la resistenza continua. Come è sempre avvenuto nella storia. E tutto questo sta accadendo a un popolo che ha già vissuto una notevole dose di sofferenza nel 1948, un popolo che io considero tra i più tolleranti del mondo, perché, in rapporto a ciò che subisce, la sua reazione è fin troppo circoscritta. E tutto questo capita a tre ore e mezzo di volo da qui e per mano dello Stato probabilmente più privilegiato del mondo.

Israele vi taccerà di antisemitismo, di essere fiancheggiatori del terrorismo, farà di tutto per mettere a tacere le voci critiche, ma qualunque persona di coscienza ovunque nel mondo deve ignorare queste accuse e chiedersi: posso accettare che tutto questo continui, ancora e ancora, senza fare nulla per tentare di produrre un cambiamento?

Non sono ingenuo e so che si tratta di una strada molto lunga. L'odio e la paura nelle relazioni tra israeliani e palestinesi hanno raggiunto livelli senza precedenti. Ci vorrà tempo per curare le ferite, ma non voglio lasciarvi con la sensazione che non ci sia speranza. Per questo concludo con tre argomenti di speranza.

Molte volte nella storia le cose accadono in maniera inaspettata. Se ci fossimo incontrati alla fine degli anni '80 e vi avessi detto che in un mese l'Unione Sovietica sarebbe collassata, che il Muro di Berlino sarebbe caduto e che il regime di apartheid in Sudafrica sarebbe crollato, molti di voi mi avrebbero preso per pazzo.

La seconda fonte di speranza viene da quanto ho osservato recentemente nello Stato del New England: capita molto spesso che un grande albero cada all'improvviso e quando cade ci si accorge che era completamente marcio... e cosa c'è di più marcio dell'occupazione israeliana?

Infine, se tutto ciò non bastasse, ci sono le parole di un saggio che una volta ha detto: «In Medio Oriente occorre essere sufficientemente realisti da credere nei miracoli».

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