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Lungo i cammini della liberazione. Le gioie e le speranze di una teologia declinata al futuro

Lungo i cammini della liberazione. Le gioie e le speranze di una teologia declinata al futuro

Tratto da: Adista Documenti n° 16 del 30/04/2016

DOC-2779. BRESCIA-ADISTA. Il suo primo numero la rivista internazionale di teologia Concilium lo ha pubblicato nel 1965 prima ancora della conclusione del Vaticano II, con la lucida consapevolezza – come evidenziano i teologi brasiliani Maria Clara Bingemer e Luiz Carlos Susin nell'editoriale del numero, il primo del 2016, che celebra il «duplice giubileo» – che, «per una Chiesa che si rinnovava in modo così radicale», fosse «necessaria una teologia ugualmente rinnovata». E non ci sono davvero dubbi che la rivista sia stata «una delle espressioni più qualificate di questo rinnovamento teologico».

Chiamata dunque a celebrare il doppio appuntamento, quello del cinquantesimo anniversario del Concilio, con tutto ciò che questo ha comportato per la vita della Chiesa, e quello del suo cinquantesimo compleanno, la rivista aveva organizzato, nel maggio del 2015, alla Pontificia Università Cattolica di Rio de Janeiro, un grande convegno internazionale, sul tema “Cammini di liberazione: gioie e speranze per il futuro”. Titolo, questo, che, oltre a recuperare «la bella e felice» espressione iniziale della Costituzione pastorale Gaudium et spes, voleva indicare la necessità non solo e non tanto di fare memoria di un evento passato, per quanto straordinaria sia stata la sua importanza per la Chiesa, quanto piuttosto, spiegano Bingemer e Susin, di «riscattare tutto il potenziale di innovazione e di appello che questa espressione conteneva, puntando al futuro» e dunque di domandarsi come quell'avvenimento «continui a invitarci a guardare avanti, attenti alle domande e alle inquietudini delle nuove generazioni e disposti a una fedele creatività nel tentativo di rispondere a esse». Con la convinzione, espressa dal teologo Jon Sobrino nel suo intervento, che «vi sono eventi passati che seppelliscono la storia e catene che la imprigionano. E vi sono eventi passati che liberano la storia dalle catene, come molle che spingono in avanti».

Non sorprende allora come, raccogliendo in questo primo numero del 2016, il cui titolo riprende esattamente quello del convegno, le riflessioni tenute a Rio de Janeiro nel maggio del 2015, la rivista Concilium dimostri nella maniera più chiara come la teologia da essa elaborata nel corso di questi cinquant'anni abbia «sempre seguito da vicino i cambiamenti epocali avvenuti nella cultura e l'avvento di nuovi paradigmi che hanno orientato l'intelligenza della fede verso inevitabili trasformazioni». Trasformazioni che, come evidenzia nel suo intervento André Torres Queiruga, portano con sé sfide di enorme portata, a cominciare da quella «lanciata al pensiero religioso dalla Modernità con la scoperta dell'autonomia». Una questione di fronte a cui la teologia si rivela ad oggi piuttosto impreparata, non avendo ancora trovato parole che presentino le questioni religiose «che ci interessano realmente» in maniera «davvero significativa, al di là della semplice ripetizione di formule o di concetti che non parlano affatto o dicono molto poco». Basti pensare, spiega il teologo spagnolo, a quanto sia difficile parlare, «in un ambiente mediamente critico», di questioni come la Trinità, o di Gesù Cristo, del male, della preghiera e di molti altri temi che costituiscono il nucleo del messaggio cristiano.

O, ancora, la sfida - su cui pone l'accento Luiz Carlos Susin - rappresentata dal «dialogo con le culture contemporanee in un mondo più complesso», tenendo presente il principio per cui “il tutto è più grande della somma delle parti”. Cosicché, se ha naturalmente senso la raccomandazione di Lev Tolstoj - «se vuoi essere universale, comincia a verniciare il tuo villaggio» - è vero anche, però, che «l'orizzonte ultimo, di futuro, di speranza e di ispirazione anche per la teologia, quando vernicia il villaggio», l'orizzonte «che guidi quindi il lavoro locale e incarnato», non può che essere «il tutto più grande, la visione basata su un vasto orizzonte». E, secondo Susin, «il più ampio orizzonte e contesto culturale e pratico nel quale dovremo fissare la nostra attenzione» è quello ecologico, quello del futuro della Terra e della vita sulla Terra. Un futuro comune che può essere assicurato, conclude Susin, solo dall'ospitalità, intesa come anima della religione, come sua ragione d'essere; l'unica che può «portare salvezza», tanto più nelle condizioni attuali di pluralismo e migrazione: quell'ospitalità che «apre alla famiglia umana e a tutti gli esseri viventi, anche a fratello lupo di san Francesco».  

Deriva da qui, secondo il teologo indiano Felix Wilfred, la necessità per la teologia di diventare «umile nel mezzo della situazione di crisi che l'umanità sta affrontando» e di cooperare con svariate altre forze, focalizzandosi «sugli elementi essenziali». Perché proprio come, di fronte alla casa in fiamme, si ha il tempo di salvare solo le cose fondamentali, così, «quando l'umanità e la natura sono in crisi profonda e immerse nella diseguaglianza e nell'esclusione, abbiamo bisogno di elaborare delle teologie, sia nel Nord che nel Sud del mondo, che si occupino esplicitamente della situazione di crisi dell'umanità e del creato». Una sfida che, per la teologia, presuppone anche la disponibilità, come sottolinea la teologa tedesca Regina Ammicht Quinn, a lasciarsi interpellare e «interrompere» da dubbi e domande, da inquietudini e provocazioni.

Vi proponiamo alcuni stralci della riflessione di Wilfred e l'intervento di Ammicht Quinn

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