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Nella Valle dell'Omo, una catastrofe umanitaria. Un reportage accusa il “sistema Italia”

Nella Valle dell'Omo, una catastrofe umanitaria. Un reportage accusa il “sistema Italia”

Tratto da: Adista Notizie n° 4 del 28/01/2017

38829 ROMA-ADISTA. Land grabbing, espropriazioni forzate, popoli originari allontanati dalle loro terre e costretti dentro riserve ghetto (fenomeno detto di “villaggizzazione”), economie tradizionali disperse, ecosistemi devastati, culture locali estinte; il tutto condotto con la forza da regimi ed eserciti repressivi, violenti e irrispettosi dei diritti umani, con la complicità di multinazionali, mass media e governi occidentali, tra cui il nostro, sempre a caccia di “buoni” amici per far girare il “sistema Italia”. È quello che succede quotidianamente ai popoli indigeni africani, vittime dei processi di globalizzazione e di crescita forzata, colpevoli di abitare terre fertili sempre più preda di multinazionali minerarie, energetiche o dell'agribusiness. Il caso drammatico ed emblematico di un certo modo di intendere lo “sviluppo” e la cooperazione internazionale nel continente nero, della Valle dell'Omo, il fiume etiopico che sfocia nel lago Turkana, è al centro del reportage “Cosa c'è da nascondere nella Valle dell'Omo. Le mille ombre del sistema Italia in Etiopia”, redatto da Giulia Franchi e Luca Manes, prodotto da Re:Common e presentato il 10 gennaio scorso presso i missionari comboniani di Verona (pdf gratuito su http://www.recommon.org/che-cosa-ce-da-nascondere-nella-valle-dellomo).

Censura e minacce

Le prime pagine del libricino sono dedicate al racconto del clima di censura che vivono i media e le associazioni umanitarie internazionali, e che hanno sperimentato sulla loro pelle anche i due coautori del rapporto, prima della partenza, in attesa del visto e dei permessi ufficiali, ma anche una volta arrivati in Etiopia, relazionandosi con le istituzioni centrali e locali. Giunti dopo varie peripezie e rallentamenti a Konso, in prossimità della Valle dell’Omo, dicono i due, «ci era stato fatto capire che sarebbe stato meglio evitare domande scomode». Poi, proprio nel centro dell'inchiesta, nessuno ha espressamente proibito ai giornalisti di recarsi in visita nella «zona calda», eppure, tra ulteriori intoppi e lungaggini burocratiche, «la melina ha ormai avuto i suoi effetti» e il viaggio si è dovuto arrestare: «Non ci è più possibile continuare ad aspettare invano, cambiando voli e aggiungendo pernottamenti che gonfierebbero a dismisura la nostra nota spese», raccontano ancora.

Chi denuncia le violazioni dei diritti umani nel Paese pare debba scontrarsi con un doppio livello di censura: il muro locale, che si risolve nella propaganda di regime, nella repressione delle opposizioni e nei tentativi di denigrare le voci “contro”, soprattutto quelle che denunciano la scarsa democraticità del sistema istituzionale etiopico, l'intolleranza del regime nei confronti del dissenso e il grido di dolore delle comunità locali, minacciate ed espropriate per lasciare spazio ai grandi investimenti. Un secondo strumento di censura, non meno “efficace”, è poi lo scarso interesse degli organi di informazione internazionale, ma anche i silenzi e le collusioni dell'informazione mainstream con il “buon amico” del mondo occidentale, baluardo delle libertà contro l'avanzata degli jihadisti nell'Africa orientale ma soprattutto garanzia di grandi investimenti per le multinazionali.

A rischio di estinzione

La Valle del fiume Omo, 25mila chilometri quadrati di terra, «è caratterizzata da una molteplicità di ecosistemi, culture e lingue». È abitata da numerose comunità indigene (centinaia di migliaia di abitanti per 16 diversi gruppi etnici), che vivono intorno al corso d'acqua e che, data l'inospitalità del territorio, sono riuscite a conservare riti, usanze, metodi di coltivazione, di allevamento e pratiche economiche tradizionali, sostenibili a livello ambientale e rispettose dell'ecosistema che si è generato intorno al fiume. Le notizie, poche e rare, che faticosamente riescono a uscire da quelle zone non fanno presagire nulla di buono. Lo stesso anno, Human Right Watch denunciava che nell'ovest del Paese, a Gambella, 70mila persone erano state «scacciate dalle loro terre e abitazioni per assecondare le esigenze di investitori stranieri dell’agroindustria. Il processo di ricollocazione (o “villaggizzazione”) sarebbe avvenuto con la forza e quasi senza concedere compensazioni, mentre si sarebbero consumate violazioni dei diritti umani a livello diffuso». La medesima ricetta di land grabbing e repressione sembra in atto da diversi anni anche contro le popolazioni della Valle dell'Omo, fiume di vitale interesse non solo per le popolazioni indigene ma anche per le corporation interessate a piani di irrigazione e di produzione energetica su larga scala: «In base a quanto riportato dai media globali – si legge nel rapporto di Re:Common – siamo di fronte a una catastrofe umanitaria, scatenata da uno dei più feroci accaparramenti di terre mai visti in Africa. Le tribù della bassa Valle sono sfrattate con violenza dalle loro case ancestrali, mentre i loro pascoli e terre agricole sono trasformate in piantagioni industriali di canna da zucchero, cotone e agro-combustibili. Si parla di percosse, abusi e intimidazioni generali, ma anche di stupri nei confronti di donne e bambini da parte dei soldati etiopi. Nel frattempo, decine di abitanti della regione sono stati catturati e rimangono in detenzione per aver espresso apertamente la loro opposizione ai piani di sviluppo statali».

Italiani brava gente

Il ruolo italiano, nella catastrofe, sembra purtroppo centrale, denuncia il rapporto: «In questo contesto, la realizzazione dell’impianto idroelettrico di Gilgel Gibe III da parte dell’italiana Salini Impregilo [che già anni prima aveva realizzato altre due dighe, le Gilgel Gibe I e II] minaccia di distruggere un fragile ecosistema e di mettere a repentaglio la vita delle comunità. Una volta completata la diga, l’inondazione prodotta dal bacino artificiale sommergerà i territori su cui le tribù della Valle dipendono per la coltivazione e l’allevamento e ridurrà drasticamente il livello del Turkana in Kenya, il più grande lago desertico del mondo. Circa 500mila persone in Etiopia e in Kenya si troveranno così a dover fronteggiare una vera e propria catastrofe umanitaria».

Dal 2010 Addis Abeba ha avviato un mastodontico piano di crescita forzata, basata sulle grandi infrastrutture e sull'industria agraria, con l'obiettivo di risollevare i macro-indicatori economici del Paese. Le popolazioni espropriate per lo sfruttamento intensivo delle loro terre vengono dislocate con la forza entro nuovi villaggi realizzati con i soldi della cooperazione internazionale, anche italiana, sollevando più di qualche dubbio sul perverso rapporto tra pubblico e privato e sul sistema di collusione tra aiuto allo sviluppo (teoricamente destinato alla lotta alla povertà) e repressione delle comunità locali per gli interessi di governi e investitori, locali e stranieri.

Proprio dalle responsabilità della Salini Impregilo nella tragedia che vivono le popolazioni della Valle dell'Omo – ma anche con un occhio puntato su altre esperienze, tra cui quella di land grabbing per la produzione di olio di palma e jatropha, condotta dal 2007 nei territori Dasanech dell'Omorate dall'italiana Fri El Green – ha preso le mosse questa indagine di Re:Common che, data l'impossibilità per i giornalisti di recarsi sul campo, si è arricchita delle testimonianze (tutte anonime e irrintracciabili, visto il clima di terrore e repressione in cui vivono quei popoli) della popolazione locale, «che ha contribuito ad aggiungere notizie fresche per riempire il silenzio assordante che circonda questo Paese».

Il racconto

Le comunità che abitano ancora nella Valle e che sono state danneggiate dalle multinazionali dell'agribusiness (etiopiche, italiane, indiane, turche, ecc.) denunciano sempre nuovi e drammatici “danni collaterali”: raccolti meno rigogliosi, siccità, riduzione dei pascoli, aumentata mortalità dei capi di bestiame e delle malattie tra le popolazioni, riduzione dell'accesso all'acqua potabile, aumento degli eventi climatici estremi. La percezione diffusa «è quella di un sostanziale peggioramento delle condizioni di vita» causato dallo sfruttamento intensivo delle terre, che vede costrette le comunità indigene ad abbandonare il modello tradizionale di coltivazione e pastorizia. «Le popolazioni menzionate – conclude il rapporto – stanno valutando l’ipotesi di una migrazione su larga scala verso le città, alla ricerca di nuove forme di sostentamento».

Altro fenomeno fomentato dalle politiche di investimenti nella Valle è il conflitto interetnico e transfrontaliero, che ha già provocato centinaia di morti, dovuto alla sempre più ristretta disponibilità di risorse vitali, e quindi ad un'accresciuta competizione per riuscire ad accaparrarsi terra e acqua.

Sviluppo e diritti

«Il sistema degli aiuti all’Etiopia – accusa Re:Common – è diventato lo strumento fondamentale per finanziare la strategia di sviluppo del governo», che ha riscosso il plauso delle istituzioni finanziarie internazionali e che è affidata principalmente agli investitori privati, per l'espansione su larga scala della produzione agricola e la realizzazione di infrastrutture ad essa necessarie, come appunto le grandi dighe. Ma il giro di affari che investe l'Etiopia non giova alle popolazioni locali: «Sembra che la comunità internazionale non si renda conto che sta donando fondi per permettere al governo etiopico di distruggere la vita delle popolazioni indigene», afferma un testimone: «I finanziamenti che arrivano non stanno migliorando affatto le nostre condizioni di vita. Il budget viene invece utilizzato dall’esecutivo per peggiorarle attraverso i programmi di villaggizzazione». Per imporre i piani di crescita nella regione, inoltre, il governo ha inviato esercito e forze di polizia che, stando alle testimonianze, hanno provocato scontri feroci e numerose vittime.

Il protagonismo italiano in Etiopia è cruciale e le numerose visite di delegazioni dei due Paesi dimostrano la sussistenza di un rapporto stretto. «Amicizia – conferma il dossier – che in gergo geopolitico significa condivisione profonda delle strategie di sviluppo del Paese, dai cui vantaggi l’Italia non intende rimanere esclusa». La Salini, che è già stata nell'occhio del ciclone per numerose violazioni ai danni delle popolazioni locali, sarà protagonista della realizzazione della prossima diga, la Gibe IV, sul fiume Omo. «Poco importano le percosse, gli abusi, le intimidazioni, gli arresti arbitrari nei confronti di oppositori di ogni genere di cui si sta macchiando da anni l’esecutivo etiopico. Poco contano le migliaia di persone cacciate con violenza dalle loro case ancestrali, mentre i loro pascoli e le terre agricole vengono trasformate in piantagioni industriali di canna da zucchero, cotone e agro-combustibili. Nell’ultimo triennio la cooperazione italiana ha finanziato progetti di cooperazione allo sviluppo in Etiopia per quasi 100 milioni di euro, evitando di imbarazzare un partner strategico con domande scomode sulle violazioni dei diritti umani in atto». 

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