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«Ecumenismo in cammino». Papa e primate anglicano presto insieme in Sud Sudan

«Ecumenismo in cammino». Papa e primate anglicano presto insieme in Sud Sudan

Tratto da: Adista Notizie n° 10 del 11/03/2017

38882 ROMA-ADISTA. È stata la prima volta per un papa cattolico a Roma. Un evento che i presenti raccontano come se si fosse consumato in famiglia, in un clima disteso, gioviale e festoso. La preghiera comune, i canti, la benedizione e la convivialità hanno fatto della visita di papa Francesco alla comunità anglicana di Roma, lo scorso 26 febbraio presso la All Saints Church di via del Babuino, un esempio di ecumenismo concreto, vissuto on the road più che declamato dalle aule accademiche. «Il Papa è venuto come pastore di tutti i cristiani, non solamente dei cattolici. La sua presenza tra di noi? Dà testimonianza dell’unità», ha detto il responsabile per la Chiesa anglicana in Europa, il vescovo Robert Innace, di fronte alla chiesa, gemellata da molti anni con la parrocchia cattolica di Ognissanti. Anche papa Francesco, durante l'omelia, ha ribadito la sua visione di ecumenismo: «Ci riconosciamo fratelli e sorelle in Cristo» e dunque «desideriamo camminare insieme, liberi dai rispettivi pregiudizi», per affrontare insieme le sfide di questi tempi e per metterci al servizio dei fratelli più poveri ed emarginati. Insomma, sottolinea il papa rispondendo alle domande di alcuni giovani anglicani, l'ecumenismo «non si può fare in laboratorio: si deve fare camminando, lungo la via». E se teologi e studiosi discettano sul suo significato nelle aule universitarie, «nel frattempo noi ci aiutiamo, l’uno con l’altro», «nel servizio alla carità, ai poveri, agli ospedali, nelle guerre».

Ma a stuzzicare l'attenzione di osservatori e vaticanisti, sempre attenti a cogliere i segnali di cambiamento lanciati dell'attuale pontefice, è stato l'annuncio di un prossimo viaggio in Sud Sudan, al fianco del primate della Comunione anglicana e arcivescovo di Canterbury, Justin Welby. «Sto valutando con i miei collaboratori la possibilità di andare in Sud Sudan», ha detto Francesco nella chiesa anglicana di via del Babuino, per rispondere positivamente all'invito di tre leader religiosi cristiani locali, anglicano, presbiteriano e cattolico, che collaborano da anni per la pace del Paese. «Non vogliono che vada solo ma con l'arcivescovo di Canterbury, Justin Welby. E stiamo pensando se si può fare», vista la drammaticità e la pericolosità della situazione nel giovanissimo Paese africano. Ancora una volta il papa intende accantonare le divergenze teologiche, mettendole in secondo piano rispetto alla gravità dei fatti, che richiedono sforzi comuni e congiunti.

I precedenti

L'annuncio era atteso da tempo, precisamente dal 27 ottobre 2016, quando una delegazione ecumenica di leader religiosi cristiani del Sud Sudan – composta dall'arcivescovo cattolico di Juba, Paulino Lukudu Loro, dall'arcivescovo della Chiesa episcopale per la provincia del Sudan e del Sud Sudan, Daniel Deng Bul Yak, e dal moderatore della Chiesa presbiteriana del Sud Sudan, Peter Gai Lual Marrow – ha incontrato papa Francesco in udienza presso il Palazzo apostolico vaticano (v. Adista Notizie n. 39/16). Certamente per discutere della grave guerra civile e della conseguente crisi umanitaria che attanaglia il Paese da oltre tre anni, ma soprattutto per invocare il sostegno papale, in preghiera e anche in presenza. I tre rappresentanti cristiani si sono detti convinti che, essendo quella sudsudanese una popolazione molto devota, una visita apostolica dei vertici ecclesiastici potrebbe toccare profondamente le coscienze dei protagonisti del conflitto, innescando virtuosi processi di conversione. Nel corso dell'incontro di fine ottobre il papa aveva già manifestato l'intenzione di comprendere una tappa susudanese nell'ambito di un'eventuale nuova visita apostolica nel continente africano, e si era anche detto propenso ad incontrare i due rivali, responsabili dell'attuale guerra civile, il dinka Salva Kiir Mayardit e il nuer Riek Machar. La recente apertura del papa ha suscitato nel piccolo e tormentato Paese africano grande entusiasmo: «Sono felice di sentire che il papa potrebbe venire in Sud Sudan», ha detto il vescovo di Yei, mons. Erkolano Lodu Tombe, ascoltato dalla Radio Vaticana (27/2). «Preghiamo per la venuta del Santo Padre in Sud Sudan», che «avrebbe un grande significato per la nostra fede e per la nostra vita, perfino per i non cristiani, per tutte le popolazioni del Sud Sudan». 

I viaggi, tra teologia e pastorale

Cosa sta cambiando nei viaggi internazionali apostolici nell'era di Francesco? È la domanda che si pone il vaticanista cileno Luis Badilla in un articolo pubblicato lo scorso 26 febbraio su Religión Digital. L'autore accosta l'ipotesi della visita apostolica in Sud Sudan insieme a Justin Welby con le precedenti esperienze all'estero di papa Francesco: il 16 aprile 2016 sull'isola di Lesbo, con il patriarca Bartolomeo e l'arcivescovo ortodosso di Atene Hieronymus II; il viaggio in Terra Santa e l'incontro con Bartolomeo (maggio 2014); quello a Cuba con il patriarca di Mosca Kirill (febbraio 2016); quello, infine, a cavallo tra ottobre e novembre scorsi, a Lund (Svezia) con i luterani, per il 500.mo della Riforma di Martin Lutero. La presenza dei leader delle altre confessioni sembra essere il tratto distintivo dei “nuovi” viaggi apostolici di papa Francesco. «Sono piccoli passi dell'ecumenismo concreto – commenta Badilla – che allargano le prospettive di questo cammino difficile ma indispensabile». Si tratta di viaggi brevi e dai toni meno formali, molto lontani dalla logica dei grandi eventi ingessati nei protocolli. «I viaggi compiuti fino ad oggi mostrano dinamismi diversi», conclude Badilla: «Ufficialità ridotta al minimo necessario, visite a luoghi a volte rischiosi o poco raccomandabili dal punto di vista logistico, crescita degli incontri con porzioni di popolo spesso sofferente, emarginato e "scartato", insomma non solo alle periferie ma soprattutto all'umanità periferica. Non sembra esagerato pensare ad una nuova lettura, aggiunta alla luce dell’odierna situazione del mondo, dell’ecumenismo pastorale per arricchire e rendere irreversibile quello teologico».

Un appello

Intanto, nel Sud Sudan allo sbando, le brutte notizie si susseguono senza sosta. E, come se la guerra non bastasse, dal 20 febbraio scorso vige nel Paese lo “stato di carestia”, decretato dal governo. «Il nostro impegno è prima di tutto quello di prendere atto della sofferenza della gente», hanno scritto i vescovi sudsudanesi in un “Messaggio pastorale ai fedeli e al popolo”, diffuso dopo un'assemblea episcopale che si è tenuta a Juba tra il 21 e il 23 febbraio scorsi. Il messaggio, però, risulta più che altro rivolto all'esterno, alla comunità internazionale: si moltiplicano gli attacchi ai civili, sempre più colpiti per la loro appartenenza etnica. «Tantissimi individui – aggiungono i vescovi – vengono uccisi, torturati, dati alle fiamme, picchiati, violentati, detenuti o costretti a lasciare le proprie abitazioni. Alcuni centri sono divenuti “città fantasma” e perfino nelle nostre chiese o nei campi dell’Onu dove giungono sempre più profughi a chiedere asilo, avvengono abusi terribili». «La catastrofe umanitaria richiede una risposta urgente e noi chiediamo alla comunità internazionale – questo l'appello – di venire in aiuto alla gente che in Sud Sudan sta morendo di fame». Il Messaggio dei vescovi fa eco anche all'invito che papa Francesco ha pronunciato durante l'udienza generale del 22 febbraio scorso: «Destano particolare apprensione le dolorose notizie che giungono dal martoriato Sud Sudan, dove ad un conflitto fratricida si unisce una grave crisi alimentare che condanna alla morte per fame milioni di persone, tra cui molti bambini».

* Immagine di Nicolas Raymon, tratta dal sito Flickr, immagine originale e licenza

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