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Non è (solo) Trump

Non è (solo) Trump

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 15 del 15/04/2017

Mi è arrivata la richiesta di sostenere on-line un progetto di legge che un deputato democratico si appresta a presentare in Parlamento. Il titolo è: “No Taxpayer Revenue Used to Monetize the Presidency Act”, ovvero “No TRUMP Act”. Come spiega l’estensore, l’intento è quello di «impedire l’uso di denaro dei contribuenti per eventi, pernottamenti, cibo e altre spese miscellanee presso hotel di proprietà di o gestiti da un presidente o suoi parenti». Il tono quasi goliardico nasconde, ovviamente, un grave problema di conflitto di interessi. Tuttavia, data la doppia maggioranza repubblicana in Parlamento e al Senato e il potere di veto dello stesso presidente, la proposta non passerà mai, a meno di una caduta di Trump e dei suoi amici e parenti dalla compagine governativa.

Una tale caduta, dopo il fallimento del progetto di affossare “Obamacare” e dopo altri due ceffoni iniziali (le dimissioni di Michael Flynn, di cui parlavamo nelle Cronache del 4 marzo – il quale Flynn durante la campagna elettorale a quanto pare non solo parlava con emissari russi, ma si prendeva anche mazzette dai turchi – e la parziale autosospensione dalle indagini sui contatti coi russi, in quanto possibile parte in causa, di Jeff Sessions, il nuovo Attorney General), viene data come probabile da un buon numero di osservatori. Non me la sento di fare profezie, ma vorrei dire che il problema non è (solo) Trump.

Un primo problema strutturale è il partito democratico, incapace non solo di rinnovarsi ai vertici (la vecchia dirigenza sconfitta è stata sostanzialmente riconfermata nelle settimane scorse), ma anche di fare opposizione. Praticamente tutti i personaggi nominati da Trump e quasi tutte le sue proposte di legge (tranne la troppo impopolare controriforma sanitaria ora definita [ex] “Trumpcare”), sono stati accettati dal Senato con voti dei democratici, persino quando alcuni repubblicani votavano contro.

Ricordo la scandalosa defezione dei “Pharma Thirteen”. Questi sono tredici senatori democratici, di cui dodici hanno votato contro e uno si è astenuto a una proposta che avrebbe permesso di reimportare legalmente in USA dal Canada medicinali prodotti qui, ma che costano molto di meno oltre confine. I tredici, però, sono finanziati dall’industria farmaceutica per le loro campagne elettorali e non possono perdere tale supporto se vogliono essere rieletti. L’ironia tragica della cosa è che, in questo caso specifico, ben dodici senatori repubblicani, non finanziati da industrie farmaceutiche, avevano votato a favore e quindi la mozione sarebbe passata trionfalmente, in una situazione che sulla carta è di 52 a 48 a favore dei repubblicani, invece di essere battuta 52 a 47.

Vedremo che cosa succederà ora con la nomina del nuovo giuduce della Corte Suprema, presentato come un ultra conservatore e per cui tuttavia già quattro senatori democratici hanno detto di votare a favore. Alcuni hanno persino votato a favore del negatore del mutamento climatico, ora incaricato di smantellare l’Ente per la Protezione Ambientale.

Può stupire che in particolare un senatore, Joe Manchin, della West Virginia, abbia praticamente sempre votato a favore delle proposte dell’Amministrazione. Il senatore in questione, però, è eletto in una zona in pieno tracollo economico, perché l’economia locale è fondata sull’industria estrattiva del carbone, ora in crisi in quanto non competitiva, oltre che inquinantissima. Ma che si fa con la gente che viveva, anche se brutalmente sfruttata, intorno alle miniere? Il ricatto umano è evidente, come mostra anche il caso parallelo di alcune tribù indiane. Infrangendo tutti i patti sottoscritti, abbiamo ricacciato i discendenti degli antichi abitanti dentro riserve sempre meno abitabili, con terre sempre meno coltivabili; ma poi è saltato fuori che alcuni di loro ora siedono su giacimenti di ogni sorta, dal petrolio, all’uranio, al carbone. Materiali la cui estrazione, specie se fatta “al risparmio” per incrementare gli utili, è inquinantissima.

Così si arriva al controsenso che alcune comunità di indiani, di solito considerati i guardiani dell’ecosistema e ultimo baluardo anche spirituale di difesa dell’ambiente, ora vedono con simpatia alcune decisioni dell’amministrazione Trump che mirerebbero a facilitare l’industria estrattiva. I contributi finanziari che ne verrebbero sono pensati come uno strumento che permetterebbe sopravvivenza e sviluppo, senza ricorrere all’abusata prostituzione morale dei casinò indiani, specialmente in zone lontane dalle grandi città dei bianchi.

C’è dunque almeno un secondo problema: il dilemma etico finanziario di fronte a situazioni di reale miseria. Possiamo lanciarci in vere riforme, che rivalutino gli ambienti lavorativi anche nel rispetto di norme ambientali che rendano tutto più costoso, oppure scegliamo la via più facile, favorendo gli stessi interessi, così da trovarci tutti presto a respirare carbone e metano?

No, non è (solo) Trump il problema. 

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