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Prigionieri palestinesi: sciopero della fame e congiura del silenzio

Prigionieri palestinesi: sciopero della fame e congiura del silenzio

- Primo Piano

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 19 del 20/05/2017

Il 17 aprile scorso, 1.500 prigionieri politici palestinesi, rispondendo all’Appello che Marwan Barghuthi è riuscito a far filtrare dal carcere nel quale era rinchiuso e a farlo pubblicare sul New York Times (v. Adista Segni Nuovi n. 17/17), hanno intrapreso insieme a lui uno sciopero della fame ad oltranza, nutrendosi solo di acqua e sale. Nessuna risposta dalle autorità israeliane, ma una reazione sì: Barghuthi ed anche altri prigionieri sono stati spostati in altri carceri e posti in isolamento; dinnanzi ai carceri nei quali sono rinchiusi i prigionieri in sciopero sono stati organizzati pic-nic e sagre con carni alla brace; si è anche saputo che il Governo israeliano, invece di prendere in considerazione le richieste dei prigionieri, intende ricorrere alla alimentazione forzata, pratica considerata una tortura, che i medici israeliani rifiutano di praticare.

I prigionieri non chiedono che il rispetto delle regole del Diritto Internazionale a tutela dei prigionieri, e cioè la «ragione degli arresti arbitrari di massa dei palestinesi, delle torture, dei maltrattamenti e delle misure punitive nei confronti dei detenuti», nonché il rispetto dei «diritti alla salute, alle visite dei familiari, ai contatti con le persone care, all’istruzione». Diritti fondamentali «deliberatamente ignorati» dal sistema carcerario dello Stato che pretende (non si sa su quale fondamento, al di là delle periodiche votazioni) di essere l’unica democrazia del Medio Oriente.

Di tutto ciò l’opinione pubblica italiana è tenuta all’oscuro, perché in Italia su quel che accade in Palestina, cioè le illegalità che Israele vi compie quotidianamente e sistematicamente, vige una congiura del silenzio scrupolosamente osservata dai mezzi di informazione, con l’unica eccezione de il manifesto, a volte di Avvenire e di Radio3 mondo, la trasmissione di Radio3 e da ultimo, in via del tutto eccezionale, del telegiornale della notte di Rai3 che qualche minuto dopo le 24 del 6 maggio ne ha dato notizia. Colpa dei giornalisti? Non vi è dubbio. Ma anche delle nostre Istituzioni, a tutti i livelli.

Appena il 2 maggio scorso, la rappresentanza italiana all’Unesco, in conformità alle direttive ricevute dal ministro Alfano – che a sua volta si è rifatto a quanto aveva già stabilito il primo ministro Renzi dopo che in una precedente analoga occasione l’Italia si era astenuta – ha votato contro una Risoluzione dell’Unesco intitolata "Palestina Occupata". Presentata da Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan, nega la sovranità di Israele su una parte di Gerusalemme, critica severamente il governo israeliano per i suoi progetti di insediamento nella Città Vecchia di Gerusalemme e nei pressi dei luoghi sacri di Hebron e ribadisce che ogni decisione della "potenza occupante" su Gerusalemme è priva di valore. Tutto in assoluta coerenza con le Risoluzioni dell’Onu.

Israele infatti, occupata Gerusalemme arbitrariamente con la guerra del 1967, ha poi inteso farne la propria capitale con la Legge Fondamentale approvata dalla Knesset nel 1980. Ma il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, che aveva anche prima denunciato l’illegalità dei vari tentativi di Israele di impadronirsi della Città, con la Risoluzione 478 del 1980 ha dichiarato «nulla e priva di valore legale» la Legge Fondamentale, invitando tutti gli Stati membri a non avere proprie missioni diplomatiche in quella città.

Netanyahu ha nondimeno definito “vergognosa” la Risoluzione dell’Unesco ed il ministro Alfano ne ha parlato come dell'«ennesima risoluzione politicizzata». Le istituzioni locali nostrane non sono da meno.

Ad esempio, dal 28 febbraio al 23 marzo di quest’anno, a Roma (ma anche in altre città) per ben sette volte sono state impedite iniziative che avevano ad oggetto la questione palestinese, rendendo indisponibili all’ultimo momento locali di proprietà pubblica (Comune di Roma, Municipio V, Università Roma 3, Università La Sapienza) che erano stati regolarmente richiesti e concessi. In manifesta e flagrante violazione dell'articolo 21 della Costituzione, è stata cioè impedita la libera espressione dell’opinione di chi pensa che anche il Popolo palestinese abbia dei diritti. Questo sconcio il 17 marzo è stato denunciato al prefetto di Roma da 21 associazioni con una circostanziata lettera che chiedeva al «massimo rappresentante a livello locale del Governo della Repubblica» di intervenire a tutela della libertà di espressione e di «disporre gli accertamenti necessari ad appurare da chi e in quali forme provengano i lamentati, ripetuti impedimenti, anche al fine di prevenire il ripetersi di simili gravi episodi».

Dopo oltre un mese, malgrado molteplici sollecitazioni per fax, telefono e posta elettronica, le associazioni non ancora hanno ottenuto l’incontro che avevano richiesto e nemmeno una risposta.

Il sistema istituzionale sembra dunque congiurare con quello dell’informazione per nascondere sotto una coltre di silenzio quanto accade in Palestina, affinché l’opinione pubblica, non percependo che le violazioni del Diritto Internazionale che lì quotidianamente avvengono infirmano il fondamento della libertà anche degli altri popoli, non si mobiliti per difendere con quelli del Popolo Palestinese anche i propri diritti.

Il perché si spiega. L’Italia è saldamente inserita nell’articolazione di omertosa connivenza con cui gli Stati occidentali assicurano ad Israele impunità per le sue politiche coloniali e di apartheid in cambio del ruolo – nella loro logica prezioso – che svolge come presidio dell’Occidente nell’area del Medio Oriente. Area nevralgica, nella quale, in un groviglio di tensioni, conflitti e mire egemoniche, si svolge un duro confronto tra l’imperialismo statunitense e quel che resta dell’impero russo. Il confronto, che ha assunto la forma inedita di scontro armato per interposte bande, è sfociato in una situazione paradossale allorché le due superpotenze si sono combattute bombardando ambedue, pur se con intenti opposti, lo stesso Paese, la Siria.

In questo contesto, lo sciopero della fame dei 1.500 prigionieri politici palestinesi assume un valore che va ben al di là della pur sacrosanta rivendicazione della loro dignità e dei loro diritti. Può costituire l’occasione per rompere il muro di silenzio e suscitare mobilitazioni ed alleanze a livello internazionale. I prigionieri per la giornata del 1° Maggio hanno diffuso un documento nel quale celebrano la Giornata del Lavoro appunto «come giorno… di lotta contro tutte le forme di colonialismo, razzismo, sfruttamento e oppressione». Ed invitano i «lavoratori, i movimenti delle classi popolari, i movimenti degli oppressi» a «partecipare a questa (loro) battaglia in tutto il mondo, come parte integrante della lotta contro il razzismo, l'imperialismo e il capitalismo».

A Roma l’appello dei prigionieri è stato raccolto da un gruppo di associazioni che hanno costituito un apposito “Coordinamento” con l’intento di sollecitare istituzioni e media a fare bene la loro parte. Il 3 maggio scorso una sua delegazione è stata ricevuta dalla presidente del Comitato per i Diritti Umani della Camera dei Deputati, on. Pia Locatelli, alla quale ha fatto presente che lo Stato italiano è fortemente inadempiente degli obblighi assunti sottoscrivendo le Convenzioni di Ginevra, le quali impegnano gli Stati firmatari ad assumere posizioni ferme nei confronti di uno Stato che ne violasse il dettato, come è appunto il caso di Israele, e che il Parlamento non può non richiamare il Governo al rispetto degli obblighi che l’Italia ha assunto.

È un primo passo. Altri seguiranno, ma gli esiti potranno verificarsi solo nel tempo. Intanto i prigionieri palestinesi continuano a nutrirsi solo di acqua e sale.

 

* Nino Lisi è della Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese

* Foto di thierry ehrmann tratta da flickr, immagine originale e licenza

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