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Perché il Sessantotto ci parla ancora

Perché il Sessantotto ci parla ancora

Tratto da: Adista Documenti n° 19 del 26/05/2018

Vi sono rivoluzioni che falliscono eppure cambiano il mondo... e che continuano a far discutere... », scriveva Wallenstein dell’arco di tempo che va dal ‘68 alla fine degli anni ‘70. E Bloch scriveva che i contadini tedeschi, la cui rivolta fu sconfitta nel 1525, tornavano a casa (quei pochi non massacrati) cantando «torniamo sconfitti, meglio di noi combatteranno i nostri figli». Per questo credo che il ‘68 e gli anni seguenti non vadano lasciati alla «critica roditrice dei topi» (Marx), ma rivisitato criticamente e analizzato per grandi temi. Mi limiterò a descriverne tre, con l’ottica di un soggetto che ha vissuto quegli anni con intensità e passione, con una cultura marxista libertaria.

Per me la rivoluzione era rappresentata dalla frase di Rosa Luxemburg: «per un mondo in cui saremo socialmente uguali, umanamente differenti e totalmente liberi». Rifuggivo da tendenze dogmatiche, pur presenti nel movimento. Ritenevo (e ritengo) che il partito rivoluzionario avesse un senso solo se si rapportava alla spontaneità dei movimenti popolari, ricollegandola al progetto complessivo. Temevamo, infatti, che nella struttura di un partito “separato” dalle masse penetrassero i germi dell’autoritarismo, della oligarchia custode dell’ortodossia rivoluzionaria. Provenivo dalla sinistra cristiana, dai “Cristiani per il socialismo”. Fondammo, poi, il PdUP e Democrazia Proletaria. Avevo imparato che lo stalinismo si critica “da sinistra”, rilanciando democrazia consiliare e autogestione, difendendo sempre la libertà di chi la pensa diversamente.

Mi pongo una prima chiave di lettura. Quegli anni furono la fine di un’epoca o l’apertura di un ciclo? E il ‘68 fu preparato dal ciclo di lotte degli anni precedenti o fu una rottura con esso? Si potrebbe discutere a lungo. Ma non vi è dubbio che il ‘68 fu soggettivamente vissuto come una rottura. Vi furono, certo, il Vietnam, la questione nera, l’imperialismo. Il ‘68 coinvolse gli emarginati; ma si interessò anche del “folle” (che era “presunto folle” di fronte ad una presunta, contestata “normalità”). Lo stare insieme, nei picchetti, nell’interruzione delle lezioni, nelle notti delle occupazioni, nelle scuole, nelle fabbriche, nei quartieri, fu la fonte di comportamenti nuovi, di parole nuove della politica. La fantasia al potere; e l’amore, la sessualità, la sofferenza, il piacere, la vita vissuta diventano parte della militanza. Il ‘68, il ‘69 furono certo una rivolta “contro il capitale”, si rivolsero ad un nuovo soggetto collettivo che nasceva dentro la composizione di classe che mutava, sia nella scuola di massa che nelle fabbriche dell’”operaio massa”. Soggetto che, nella lotta, maturava una nuova coscienza di sé. Il movimento, partendo dalle condizioni reali dello sfruttamento, acquisiva la critica dell’economia politica, dei processi di valorizzazione del capitale. Anche per questo quegli anni si proiettarono nel decennio, al contrario che in Francia, in Germania.

Per la prima volta, nel “secolo breve” le lotte non furono rivolte solo verso riforme di miglioramento dell’esistenza quotidiana, ma si ribellavano alla omologazione sociale, alla integrazione all’interno delle «magnifiche sorti e progressive », di un modello ritenuto dal Potere naturale ed eterno. Furono, nell’immaginario collettivo, una critica serrata al neocapitalismo.

Le lotte sociali si fusero con le lotte democratiche, costruendo nuovi luoghi, spazi di autogestione. Si alimentavano delle lezioni dell’internazionalismo. Tra Città del Messico, la Cuba del Che, Barkeley, Parigi, Trento si creava cosmopolitismo. Rossana Rossanda ricorda la scritta apparsa sui muri dell’Università: «Non vale la pena di trovare un posto in questa società, ma di creare una società in cui valga la pena di trovare un posto». Ricordo come fondativa l’esperienza basagliana di Gorizia: «Siamo tutti matti da slegare». Così come Medicina Democratica a Castellanza. L’interpretazione evolutiva della giurisdizione in Magistratura Democratica. La straordinaria qualità delle 150 ore (con il rivoluzionario slogan dell’operaio che esclamò: «Io, in quelle ore non voglio imparare a lavorare meglio, ma voglio imparare a suonare il violino».

Non vi fu solo, cioè, antiautoritarismo, ma rovesciamento di ruoli, comportamenti, l’esplosione delle contraddizioni di classe, genere, specie, che si intrecciavano rivoluzionando le nostre vite. Fu una rivoluzione culturale, la critica alla «sussunzione del sapere dentro il capitale». La quale si rafforzava nei consigli di fabbrica, di zona, coinvolgendo intellettualità, competenze, saperi. Questo fitto intreccio tra democrazia rappresentativa e diretta, tra autogestione e democrazia costituzionale non parla anche a noi oggi? Non penso affatto, ovviamente, che il contesto sia simile, né che siamo vicini a momenti di rottura rivoluzionaria ma si addensano ragioni di fondo che ci inducono a “pensare politica” in senso alto, gramsciano, per non rovinare nella barbarie: l’immiserimento della società, la crisi dei ceti medi, la violenza politica anche statuale, la struttura sempre più oligarchica ed autoritaria dell’Unione Europea.

Le strutture di solidarietà sono sotto la mannaia della repressione (tanto che noi giuristi democratici parliamo dell’introduzione surrettizia nel codice del “reato di solidarietà”) perché la povertà è di nuovo considerata una colpa. Il ‘68 fissò il suo paradigma della rivolta. Nel futuro, non lontano, probabilmente le inevitabili rivolte cresceranno su un altro paradigma.

Vi è, comunque, un asse centrale: aprire i luoghi chiusi del Potere, mettere in connessione bisogni e sofferenze, ricostruire nessi sociali in una società frantumata, atomizzata, spaesata. Come ha scritto lo storico Xavier Vigna, in Francia, ma più ancora in Italia, «gli studenti sono andati dove non sarebbero dovuti andare, nelle fabbriche, negli ospedali, nelle prigioni. Non è forse il fenomeno più massiccio, ma il più sovversivo, il fattore che ha il maggior potenziale di contestazione». Oggi, del resto, la crisi della globalizzazione liberista è diventata addirittura, sotto l’egida di istituzioni internazionali “ademocratiche”, mai elette, che configurano una “fuga dalla democrazia”, il fattore principale della governabilità borghese. È una “crisi costituente”, che ridisloca i poteri, esalta ogni forma di iniquità, autoritarismo, xenofobia, segregazione.

Si ripropone la necessità, in Italia come in tutti i Paesi dell’Europa, di rimettere a tema percorsi, programmi, forme per un “altro mondo possibile”. In Europa siamo di fronte ad un bivio: la crisi delle forze liberaldemocratiche e la bancarotta delle socialdemocrazie spinge ad un bivio. Da un lato l’incarognirsi e il diffondersi di forze razziste, “sovraniste” (prima gli Italiani, prima gli Ungheresi, e così via); dall’altro il consolidarsi di organizzazioni e movimenti che affrontano la crisi “da sinistra” (in Spagna, come in Portogallo, in Francia, in Germania, nei Paesi nordici, nella stessa Gran Bretagna della Brexit). Da qui, anche in Italia, dobbiamo ripartire. Per nostre non innocenti responsabilità, teoria e progetto sono diventati irrilevanti.

La cosiddetta “crisi delle ideologie” ha significato che l’unica ideologia in campo è l’egemonismo liberista e mercatista. Il lavoro di ricostruzione, di ricucitura non può che ripartire dai fondamentali: mutualismo, conflitto, reinvenzione dei luoghi in cui vive ogni giorno l’utopia dell’alternativa (leghe, casse di solidarietà, camere del lavoro territoriali, configurazione orizzontale del “blocco storico”). «Fare società» per rendere credibile l’alternativa di sistema, scriveva Gramsci dal carcere in un contesto anche umanamente molto aspro.

Del resto, con la Prima Internazionale, così nacque il movimento operaio organizzato. Vi è, credo, un insieme di valori, di acquisizioni, di attualità sovversiva del decennio ‘68/’78 a cui possiamo ancora ispirarci, invadendo, con la critica, i luoghi che il Potere chiude sempre di più, giorno dopo giorno. Esso ci richiama ad un progetto complesso che viva dentro la contraddizione, che il ‘68 visse, tra uno sviluppo tecnologico che potrebbe, anche in termini di risorse, “liberare” il mondo e i caratteri di esclusione e semischiavitù che invece esso assume.

È lo storico ossimoro che, in forma diverse, si ripresenta. Ma penso che non possiamo affidarci a forme interclassiste, giustizialiste, adattative rispetto ai poteri costituiti, che rendono i bisogni di rivolta docili ancelle del Potere, trasformando il conflitto sociale in rancori individuali contro la democrazia costituzionale.

Continuo con ostinazione a non credere, al contrario di Renzi e Casaleggio, che la distinzione più aderente alla realtà sia tra conservazione ed innovazione e non più tra destra e sinistra, tra sfruttatori e sfruttati. La posta in gioco è, mi pare, anche ora una sempre più radicale «critica dell’economia politica». Il marxismo va declinato al plurale, senza economicismi e dogmatismi. Dobbiamo, ancora una volta, inoltrarci, senza futili certezze, nel «mare in subbuglio di questo capitalismo in via di mutazione», come ha scritto Hobsbawm. Ormai la vera contraddizione è biopolitica, è capitale/vita. E il ‘68 ci parla ancora....     

 

* Giovanni Russo Spena è giurista, già segretario di Democrazia Proletaria, senatore di Rifondazione Comunista e membro dei Cristiani per il Socialismo. 

* * Manifestanti con eskimo: foto [ritagliata] di Uliano Lucas (1970-1975), tratta da it.wikipedia.org, immagine originale e licenza - Fonte: Biblioteca Multimediale Marxista

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