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LA NOSTRA VITA IN MANO AD ALTRI? CONTRO VISIONI TOTALIZZANTI

- Intervista a Vittorio Possenti

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 3 del 03/01/2009

Professore, gran parte della riflessione teologica e morale su questi argomenti parte dall’assunto che la vita umana è un dono di Dio e come tale l’uomo non ne può disporre liberamente; tesi da cui derivano una serie di conseguenze sul piano giuridico e politico molto vincolanti (anche quando questi vincoli sono filtrati da un’opportuna traduzione secolare – in termini di legge naturale – degli stessi assunti teologici). Da cattolico qual è la sua opinione su questa tesi?

La vita come “dono di Dio” è un concetto che deriva dalla Creazione. È Dio che creando dal nulla porta tutti gli esseri all’esistenza e dona loro la vita; poi gli esseri dotati di ragione e di libertà ritornano a Dio animando il circolo della Creazione stessa.

Ma il tema del dono può prestarsi anche a qualche ambiguità: una volta che io ho operato un dono, la cosa donata, il valore donato non appartiene più al donatore bensì al donatario. E su questo si può innestare il delicato discorso sulla disponibilità parziale o indisponibilità assoluta della propria vita (è importante sottolineare che parliamo della propria vita, non della vita dell’altro).

Per prima cosa si può osservare che l’idea della indisponibilità assoluta della propria vita non sembra avallata dal comportamento di coloro che donano la propria vita per amore. Gesù dice che nessuno ha amore più grande di chi dà la propria vita per gli amici. Quindi esiste una sorta di disponibilità per il dono della propria vita in vista di un grande bene che può essere fatto agli altri. Questo per quanto concerne il piano della teologia e della rivelazione.

Il discorso cambia quando ci si pone nella prospettiva di un non credente, di cui è necessario tenere conto. Questi, vivendo l’esperienza del dolore e della sofferenza, può arrivare a sentire la propria vita come un peso insopportabile. Egli andrà curato, amato, aperto alla speranza, senza mai prevaricare sulle sue più intime convinzioni. Dinnanzi a chi non ha  fede nel Dio creatore e nel Dio redentore il problema di affrontare nel modo migliore tali situazioni va considerato come un aspetto inerente all’esistenza umana, su cui è necessario confrontarsi e provare a formulare delle risposte solide.

 

Lei ha sostenuto che esiste una netta differenza tra il “diritto di morire” – che lei non accetta – e il “diritto di rifiutare le cure” – che invece sostiene debba essere riconosciuto. Ma se il rifiuto delle cure può implicare la morte come conseguenza prevedibile e necessaria, che differenza c’è col “diritto di morire” tout court?

Il diritto di rifiutare i trattamenti sanitari è riconosciuto dalla nostra Costituzione, art. 32 comma 2. Oggi questo tema è oggetto di un grande dibattito in relazione ai lavori del parlamento per una legge che fissi alcuni elementi sulla questione della fine della vita. Il diritto di morire a mio parere non sussiste: non è riconosciuto dalla Dichiarazione universale del 1948 né dai principali trattati e convenzioni che si radicano nella stessa Dichiarazione universale. Noi non abbiamo una disponibilità tale della nostra vita da poter domandare di essere uccisi, come vorrebbero invece i sostenitori dell’eutanasia. Esiste ovviamente la possibilità  del suicidio, ma in questo caso si tratta di un “evento”, di un “fatto”, non di un diritto che una persona possa rivendicare per sé di fronte agli altri.

Quindi non penso si possa parlare di un diritto di morire, mentre invece si può parlare di diritto al rifiuto del trattamento sanitario, come del resto fa anche la legge francese sulla fine della vita. Credo inoltre che accanto a questo diritto vada anche riconosciuto un diritto alla cura della sofferenza e del dolore che implica un serio incremento dell’utilizzo di curie palliative. Oggi in Italia solo il 20% di malati che potrebbe essere sottoposto a tali cure ne usufruisce di fatto. In un discorso tenuto la bellezza di 55 anni fa, già Pio XII riconosceva non solo la liceità ma addirittura il dovere della cura del dolore e della sofferenza, anche quando da questa cura del dolore possa derivare un abbreviamento della vita del paziente. In questi casi, infatti, l’obiettivo che si persegue non è la morte del paziente ma appunto la cura del dolore. Quest’ultimo è l’aspetto moralmente rilevante.

Diverse situazioni apparentemente senza via d’uscita che sono oggi al centro del dibattito pubblico potrebbero trovare nello sviluppo delle cure palliative del dolore una soluzione al tempo stesso morale, logica e razionale.

 

Nei discorsi di Ratzinger emerge con chiarezza la formazione del professore tedesco imbevuto di una riflessione filosofica che da Heiddeger ad Adorno ha indagato molto criticamente la problematica della scienza e della tecnica (tanto che alcuni laici accusano il papa di sostenere posizioni antiscientifiche e antimoderne).

Perché questo atteggiamento critico nei confronti dello strapotere della tecnica sembra venir meno quando si parla di fine della vita? Non sussiste secondo lei una contraddizione tra la critica all’artificiosità di determinate metodologie in fase di inizio della vita e il totale appiattimento sul “verdetto delle macchine” nella fase finale?

Bisogna operare una distinzione preliminare fra il tema della scienza e il tema della tecnica. Non mi pare che il papa abbia un atteggiamento contrario alla scienza. Benedetto XVI mette semplicemente in guardia, a mio parere molto opportunamente, dal rischio di relegare la conoscenza umana solamente nel recinto della conoscenza scientifica secondo un’idea drasticamente positivistica che era molto forte nell’800 e che sta riprendendo forza negli ultimi 10-15 anni. L’unica forma di conoscenza sarebbe quella scientifica: Ratzinger vuole contestare questa tesi, non la scienza in sé.

Passando al tema della tecnica, possiamo dire che mentre ogni conoscenza è buona qualunque sia l’oggetto della conoscenza, non è vero che qualunque applicazione della conoscenza, cioè qualunque tecnica, sia buona. La tecnica può essere usata per il bene come per il male, e dunque dobbiamo guardare dentro i problemi con molta attenzione.

 La dottrina bioetica della Chiesa è molto attenta a sostenere l’illiceità del ricorso a qualsiasi costo alla tecnica nei momenti di inizio della vita, come nei casi di fecondazione tecnica extracorporea (anche omologa) definita molto impropriamente “assistita”. Mi pare un atteggiamento saggio: non possiamo portare la sfera della vita sotto il dominio della tecnica.

Il discorso si fa più complicato quando si parla di fine della vita, perché la morte naturale è ormai di difficile individuazione. Le macchine riescono a sostituire determinate funzioni dell’organismo,  prolungando artificialmente la vita di un malato. In questo ambito la riflessione andrebbe ulteriormente approfondita, recuperando il concetto di naturalità del morire ed evitando che si ingaggi una lotta per differire il momento della morte ad ogni costo.

 

Ferrara ha definito il suo articolo “una svolta radicale” all’interno della cultura cattolica. È d’accordo con questo giudizio?

Ringrazio Giuliano Ferrara per aver accolto l’articolo con un atteggiamento liberale, dal momento che non coincide con le sue opinioni. Non lo seguo quando divide schmittianamente il campo cattolico tra ‘amici’ e ‘nemici’ paventando una ritirata, e nego che il contenuto dell’articolo possa essere presentato come una “svolta radicale”: sono tesi elaborate diffusamente all’interno della cultura cattolica italiana ed internazionale facendo perno sull’idea – a cui facevo cenno nella prima risposta – di una almeno parziale disponibilità della propria vita in ordine alla rinuncia del trattamento sanitario. Non dimentichiamo che se la propria vita è per il soggetto completamente indisponibile, entrerà fatalmente nella disponibilità di altri.

 

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