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Un faticoso passo avanti

Tratto da: Adista Documenti n° 29 del 02/08/2014

Il 26 giugno, il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, con sede a Ginevra, ha messo ai voti un’iniziativa di Ecuador e Sudafrica mirata alla creazione di un gruppo di lavoro incaricato di elaborare «uno strumento internazionale giuridicamente vincolante sulle transnazionali e su altre imprese». La proposta aveva come obiettivo quello di avanzare nella strutturazione di un quadro legale di regolamentazione del comportamento delle grandi imprese, al fine di impedire gli abusi e le violazioni dei diritti umani derivanti dalle loro attività. Le premesse del progetto poggiavano sulle numerose risoluzioni e norme delle Nazioni Unite relative alla protezione dei diritti umani e, indirettamente, su una proposta (per quanto non esplicitamente menzionata) ventilata nel seno di questa organizzazione già negli anni ’70. 

All’epoca, i processi ancora latenti di decolonizzazione in Asia e in Africa e la nascita di governi progressisti e di sinistra in America Latina (il Cile di Allende, l’Assemblea Popolare di Juan J. Torres in Bolivia, la Rivoluzione Peruviana di Velasco Alvarado e la presidenza di Luis Echeverría in Messico) resero possibile la costruzione di un ampio consenso in seno alle Nazioni Unite sulla necessità di sottomettere le imprese transnazionali a regole di carattere universale che andassero oltre quelle che avrebbero potuto adottare le legislazioni degli Stati, spesso troppo deboli per salvaguardare la sovranità nazionale sulle proprie ricchezze e sulle proprie risorse naturali. 

Attento a tali considerazioni, il Consiglio Economico e Sociale dell’Onu propose la creazione di una commissione e di un centro studi sulle multinazionali con il proposito di elaborare un codice di condotta per queste imprese. Naturalmente, agli occhi della borghesia, ciò risultava un intollerabile affronto ai propri interessi, perché la misura si proponeva di modificare il rapporto di forze tra le imprese e i Paesi in cui queste operavano, oltre a costituire un inammissibile ostacolo all’illimitata mobilità internazionale che era una delle fonti principali degli astronomici profitti da esse ottenuti nel cosiddetto Terzo Mondo. Ed è per questo che tale iniziativa aveva dato origine ad aspre controversie, aggravate dagli effetti della cosiddetta “crisi del petrolio” del 1973, tra il blocco di governi del capitalismo avanzato – guidato dagli Stati Uniti con la collaborazione dei Paesi europei e del Giappone – e l’allora Gruppo dei 77, accompagnato dai Paesi che all’epoca costituivano il campo socialista. Le tattiche dilatorie dei primi unite alla sclerosi burocratica degli organismi delle Nazioni Unite posero improvvisamente fine ai negoziati, finché, con l’elezione di Margaret Thatcher nel Regno Unito e di Ronald Reagan negli Stati Uniti, le borghesie metropolitane non passarono all’offensiva, sconfiggendo i movimenti e le forze politiche che, dal maggio del 1968, contrastavano la dominazione del capitale ed eliminando il progetto dall’agenda dell’Onu. Fino ad ora.

La proposta discussa a Ginevra ha ripreso, con le necessarie attualizzazioni, alcune delle preoccupazioni che avevano animato l’intenso dibattito degli anni ’70. Solo che, in questo caso, e in seno al Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu, l’iniziativa è stata messa ai voti e approvata: con uno scarso margine, ma comunque approvata. 20 Paesi hanno votato a favore della proposta di Ecuador e Sudafrica, 14 contro e 13 si sono astenuti. L’aspetto preoccupante è che, dei nove Paesi dell’America Latina e dei Caraibi che compongono il Consiglio per i Diritti Umani, solo due hanno sostenuto con il proprio voto l’iniziativa ecuadoriana: Cuba e Venezuela. Purtroppo, Argentina, Brasile, Cile, Costa Rica, Messico e Perù si sono astenuti. Algeria, Cina, Filippine, India, Indonesia, Pakistan, Russia e altri Paesi si sono invece espressi a favore della risoluzione, mentre, come era prevedibile, gli Stati Uniti, i Paesi europei e il Giappone hanno votato contro. 

Sorprendente, dicevamo, la condotta dei Paesi latinoamericani; sorprendente e suicida, aggiungeremmo, perché, se c’è un tesoro che deve essere preservato dalla voracità delle transnazionali, questo è dato proprio dall’enorme richezza di beni comuni di cui dispone la Nostra America, sede delle maggiori riserve mondiali di acqua, petrolio, biodiversità e minerali strategici, per le quali le grandi imprese, transnazionali o meno, sono disposte a violare, in caso di necessità, l’intera gamma di diritti umani. Come hanno potuto i rappresentanti di questi sei Paesi dell’America Latina e dei Caraibi rifiutarsi di assumere un’iniziativa dei nostri fratelli dell’Ecuador e del Sudafrica, vittime di brutali saccheggi da parte delle transnazionali, come dimostra nel modo più eclatante il disastro ambientale e umano lasciato dalla Chevron nell’Amazzonia ecuadoriana? Possono essere così ingenui (per non utilizzare un termine più offensivo) da supporre che la catastrofe prodotta in Ecuador sia uno sfortunato incidente che non riflette per nulla il modus operandi delle grandi imprese, soprattutto nei Paesi della periferia? 

Può risultare comprensibile che Cile, Costa Rica, Messico e Perù – Paesi sedotti dal canto delle sirene e dagli specchietti per le allodole dell’Alleanza del Pacifico e sommamente inclini a obbedire agli ordini della Casa Bianca – si siano piegati al mandato degli Stati Uniti e dei loro alleati. Ma come spiegare che lo abbiano fatto anche l’Argentina e il Brasile? Il delegato argentino si sarà forse astenuto per non irritare la Chevron, coinvolta attivamente nello sfruttamento dei giacimenti petroliferi non convenzionali di Vaca Muerta, o per non turbare le cordiali relazioni stabilite con le transnazionali minerarie che stanno distruggendo l’ecosistema della cordigliera delle Ande? E il rappresentante del Perù si è dimenticato dei disastri che la Newmont Mining Corporation sta producendo in Cajamarca o quelli provocati dalla Xstrata con il Progetto Tintaya? E quello del Brasile ignora forse la devastazione ambientale e sociale prodotta in Carajas, in Amazzonia, dove una transnazionale ha stabilito la maggiore miniera di ferro a cielo aperto del mondo? Non è questa l’occasione per continuare a riportare esempi dell’impatto esercitato dalle transnazionali, in termini di violazioni dei diritti umani, in ciascuno dei Paesi che hanno deciso di astenersi rispetto all’iniziativa di Ecuador e Sudafrica. Quanto detto basta e avanza. 

Per comprendere la portata di questa iniziativa e le ragioni per cui avrebbe dovuto ricevere l’appoggio unanime dei Paesi latinoamericani e caraibici presenti a Ginevra, conviene riportare le dichiarazioni di Stephen Townley, il rappresentante degli Stati Uniti presso il Consiglio per i Diritti Umani. Dopo aver appreso il risultato della votazione, Townley ha spiegato che «gli Stati Uniti non parteciperanno all’iniziativa della creazione di un gruppo di lavoro con gli obiettivi indicati e incoraggeranno altri membri del Consiglio ad agire allo stesso modo». «Incoraggeranno» vuol dire, in questo caso, “faranno pressioni”, esattamente come hanno fatto con il loro attivo impegno per impedire la creazione del Tribunale Penale Internazionale. Come direbbe Noam Chomsky, ecco qui una lezione pratica di quello che Washington intende per democrazia! Se si vota quello che vogliono gli Stati Uniti, il risultato viene accettato; in caso contrario, la “regola della maggioranza” finisce nella spazzatura e l’impero dichiara la propria opposizione nei riguardi della nuova norma, promuovendo una disobbedienza diffusa. E Townley ha offerto anche un eccezionale contributo al diritto internazionale e alla scienza politica quando ha detto che le risoluzioni che a maggioranza potrà emettere il Gruppo di Lavoro dell’Onu non sono vincolanti per i Paesi che hanno votato contro!

In altre parole: Washington si oppone ex ante a qualunque progetto di regolamentazione relativo alle transnazionali e di protezione dei diritti umani indipendentemente dal suo contenuto (che sarà il prodotto di due anni di negoziati), nel caso che questo si traduca in un trattato internazionale. Questa dichiarazione non dovrebbe sorprendere se si ricorda che questo Paese è un violatore seriale delle sentenze della Corte Internazionale di Giustizia. Esempi: il caso delle mine nei porti del Nicaragua negli anni ’80 o quello del rifiuto a concedere l’assistenza consolare a cittadini messicani condannati a morte negli Stati Uniti senza poter contare sull’ausilio dei traduttori. 

Ovviamente, questo personaggio non ha la minima idea di ciò che vuol dire la parola “democrazia”, di quello che rappresentano le Nazioni Unite e di quello che si presume debba essere la costruzione di una legalità internazionale diretta a trasformare il mondo in un luogo più giusto in cui vivere. Come era prevedibile, i vassalli europei hanno seguito la voce del padrone e si sono affrettati, senza vergogna e senza onore, a emettere le stesse dichiarazioni, sacrificando gli ultimi resti della tradizione democratica europea.

In conclusione, si è trattato di una vittoria importante che, malgrado la deplorevole diserzione di alcuni Paesi dell’America Latina e dei Caraibi, conta sull’avallo di una costellazione di attori che, nella pratica, sta dando alla luce un nuovo ordine internazionale multipolare, mettendo sempre più in discussione l’egemonia degli Stati Uniti.

Meraviglia la diserzione del Brasile, che prende le distanze dai suoi soci del Brics - i quali hanno tutti votato a favore della proposta di uno dei membri del gruppo, il Sudafrica - evidenziando, per l’ennesima volta, la classica anfibologia (composto dal greco amphibolía, incertezza, e lógos, discorso, ndt) di Itamaraty (sede del Ministero degli Esteri brasiliano, ndt): facciamo parte dei Brics ma votiamo surrettiziamente con gli Stati Uniti. Da che parte stanno, seriamente parlando? È motivo di sorpresa e di costernazione la defezione dell’Argentina, che ha più di un motivo per preoccuparsi della questione, considerando la crescente importanza che lo sfruttamento delle risorse minerarie e petrolifere assume nella sua attuale strategia economica e la sintonia politica esistente con il governo di Rafael Correa. 

Confidiamo nel fatto che questa volta, a differenza di quanto avvenuto lo scorso secolo, una nuova versione del codice di condotta delle transnazionali possa venire approvato e applicato per porre fine ai loro interminabili abusi. E che i Paesi latinoamericani che si sono astenuti – soprattutto Argentina e Brasile – ridefiniscano la propria posizione e collaborino attivamente ai lavori della commissione che sarà incaricata di preparare la nuova normativa. Insomma: quanto avvenuto giorni fa a Ginevra è stato un piccolo passo avanti; piccolo ma significativo. La migliore prova della sua importanza la offre la veemente reazione dei rappresentanti del potere delle transnazionali, che non risparmieranno sforzi per far fallire la degna e coraggiosa iniziativa dell’Ecuador e del Sudafrica. Come si narra che disse il don Chisciotte: «Abbaiano, Sancho: è segno che stiamo cavalcando».

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