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Quel male che deve essere raccontato

Quel male che deve essere raccontato

Tratto da: Adista Documenti n° 10 del 12/03/2016

Riflettere sulla violenza contro le donne è un po’ come fermare la mente sulle immagini dell’ennesimo naufragio dei migranti, ragionare sulla devastazione dei cambiamenti climatici, pensare alla criminalità organizzata che corrompe e corrode larghe porzioni di società nel mondo. La dimensione del problema e la quota di indicibile dolore che porta con sé tolgono semplicemente il respiro. Soffermarsi su questa tragedia immutata della storia umana vuol dire scivolare negli abissi reali e simbolici della violenza maschile contro il femminile, che risale appunto ai primordi e si manifesta ancora con globale archetipo di efferatezza, concedendo poco o nulla alle diversità culturali e religiose. Significa però anche muoversi a volo radente sulla superficie fosca dell’ultimo episodio di brutalità nazionale, sulle conferme statistiche racchiuse nei rapporti che aggiornano la conta degli omicidi nei singoli Paesi, che misurano la violenza di genere lungo i percorsi migratori o nelle zone di conflitto, dove la vecchia arma degli stupri di massa viene declinata secondo nuove forme della terrificante modernità mediatica.

Il campo di battaglia del corpo delle donne

Il corpo delle donne è sempre stato il campo di battaglia dei rapporti di potere fra il genere maschile e quello femminile. Fino al XX secolo, senza soluzione di continuità, sul corpo delle donne si è consumato il rapporto di totale subordinazione all’uomo, come ha sistematicamente illustrato lo storico Edward Shorter raccontando gli obblighi nei secoli della vita femminile legati perlopiù alla prigionia del ciclo biologico, all’essere considerata la donna materia che dà forma ma non possiede esistenza propria, alla necessità di occuparsi di famiglie assai numerose, ai rischi del parto e dell’aborto, alle frequenti malattie. All’origine di tutto questo, il diritto maschile di disporre del corpo femminile.

Dal ratto delle Sabine fino ai giorni nostri, con la legittimazione religiosa degli stupri delle infedeli offerta ai propri adepti dal sedicente Stato islamico, fino al rapimento delle 200 ragazzine portate via con gran clamore dalla scuola superiore di Chibok in Nigeria dai jihadisti di Boko Haram (oggi respinte da tutti perché definite “annoba”, le appestate), il corpo femminile è bottino e campo di battaglia in senso tutt’altro che metaforico. Il patriarcato politico e religioso si è avvalso tradizionalmente della sacralizzazione dei luoghi come delle possibilità riproduttive delle donne per esercitare il dominio, spesso tramite l’identificazione della terra come donna: una terra da conquistare, una donna da stuprare. In questa prospettiva lo stupro di massa – così in voga anche oggi – comporta non solo il significato della minaccia, come scrive Marcello Flores, ma anche il valore simbolico di mettere in discussione la mascolinità e il coraggio della comunità che si vuole espellere o che, tramite l’ingravidamento coatto e la nascita di figli bastardi, viene ulteriormente umiliata, frantumata, estraniata da se stessa.

Solo negli ultimi 20 anni l’analisi e il dibattito sugli stupri commessi all’interno di guerre e conflitti sono diventati un ambito di studio e di intervento, con un’attenzione tutta nuova dell’opinione pubblica e delle organizzazioni internazionali. I contraddittori anni ’90 del XX secolo, con la fine della guerra fredda e l’imporsi della globalizzazione, hanno rappresentato per Flores «un momento di rottura e di transizione profonda, in cui anche il ruolo della donna e la questione della violenza nei suoi confronti si sono trasformate o ri-proposte apparentemente immutate ma con una carica di consapevolezza inimmaginabile nel passato». La valutazione è pertinente ma rischia di non fare abbastanza i conti con le distorsioni post 11 settembre, e i rigurgiti di guerra preventiva e di nuovo terrorismo che essi hanno prodotto. È beffardo che l’ingannevole nozione dei nostri giorni sulla guerra chirurgica, pulita, a zero morti, grazie alla presunta affidabilità tecnologica dei droni e delle bombe intelligenti, conviva con la realtà di sordide pratiche belliche che usano, anzi abusano, il corpo delle donne e delle bambine. Un altro paradosso deriva dal fatto che con lo stato di tensione permanente e di guerra asimmetrica non dichiarata che da 15 anni sovrasta il mondo, la guerra mondiale frammentata di cui parla papa Francesco, si sia affermata ormai una sostanziale indistinzione tra guerra e pace, spazio interno ed esterno al confitto. Per cui lo stupro non si configura più soltanto come uno stratagemma di guerra ma anche come conseguenza della pace: dacché esiste, il peacekeeping con le sue forze militari internazionali tende a caratterizzarsi per una ricorsività allarmante di violenze, stupri, prostituzione forzata, sfruttamento e ricatti sessuali esercitati dai “portatori di pace” contro le popolazioni civili, soprattutto donne, ma persino bambine e bambini. Si potrebbe quasi dire che le violenze sessiste, fino allo stupro e al femminicidio (o femicidio, come preferiscono definirlo alcune studiose), siano un dato atavico dell’ordine patriarcale, una specie di “rumore di fondo permanente” su cui si innesta e sovrappone il fragore degli stupri bellici, come ha scritto in una recente pubblicazione Annamaria Rivera.

La violenza da raccontare

Sospetto che abbia ragione da vendere l’amica e saggista Alessandra Bocchetti quando sostiene che il discorso sulla violenza sulle donne è quello più accettato dalle istituzioni perché dare visibilità alle donne quando sono offese è rassicurante; le donne vittime non fanno paura a nessuno, anzi sono la conferma che tutto procede nel solco della voluta ordinarietà. Effettivamente, se guardiamo alle rappresentazioni cui ricorrono le campagne di sensibilizzazione prodotte dalle istituzioni, spesso dalle stesse associazioni di donne, l’immagine che rimandano è quella di una donna sola e ripiegata su se stessa dopo la violenza. La figura di un uomo non compare quasi mai. Lo sguardo sociale punta insomma alla vittima e non all’autore, uno spostamento che ripropone un’immagine di minorità femminile, confermando una disparità tra i sessi, e occulta il maschile a uno sguardo critico. Il dubbio che il discorso reiterato sulla violenza di genere nasconda il tentativo di far coincidere l’identità della donna con quella della vittima è legittimo. Ed è legittimo considerarlo un intento deliberato di distrarre l’attenzione da un’agenda di genere che non può più eludere il pensiero politico delle donne, a partire dalla sua critica di un sapere che si è presunto neutro ordinatore dei corpi e delle parole.

Ma la questione esiste, odiosa, irrisolta, imbevuta ancora di stereotipi e pregiudizi che ne oscurano la portata e ne falsano le conseguenze non solo sulle donne, ma anche sui bambini che spesso assistono a questi episodi, in un ciclo perverso destinato a riprodurre se stesso. Credo quindi che Il male vada raccontato, per estirparlo. Guardo con favore alla nuova e dolorosa consuetudine con cui le donne uccise sono contate, le loro resistenze domestiche raccontate sulle pagine dei giornali, i loro nomi pronunciati nelle piazze. Senza questa mobilitazione intorno al conteggio delle morte ammazzate il pur tardivo risveglio dei mezzi di comunicazione su questa violenza travestita da amore non ci sarebbe stato. Un problema strutturale di dimensioni epidemiche, come ebbe a commentare la direttrice dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Margaret Chan presentando nel 2013 il più completo studio mai svolto sugli abusi fisici e sessuali subiti dalle donne in tutte le regioni del pianeta (141 ricerche in 80 Paesi). Lo studio calcola che una donna su tre sia oggetto di violenza fisica o psicologica da parte del partner o di uno sconosciuto. Dice anche che il 38% di tutte le donne uccise nel mondo muore per mano del partner. A due anni di distanza, la misurazione dell’amore criminale rimanda con una certa coerenza ai più recenti dati statistici sul nostro Paese, le cui vicende portano alla ribalta delle cronache non solo l’abuso della violenza, ma anche le persistenti strategie della comunicazione che fanno un uso perverso del corpo femminile, merce di scambio usato come ricompensa, addirittura come tangente nei casi di corruzione. Al giugno 2015, l’Istat contava 6.788.000 donne che avevano subìto violenza nel corso della propria vita, il 31,5% di loro tra i 16 e i 60 anni.

La violenza maschile dunque non è riconducibile a una devianza di maniaci o marginali, non è una storia estrema. È l’esperienza di centinaia di migliaia di persone, donne e uomini, e interroga direttamente la nostra normalità, il nostro presente. Mette a nudo il vissuto di relazioni impregnate di un malinteso concetto di natura – uomini forti e donne deboli, uomini cacciatori e donne prede – ancora non scalfito, e le strutture stesse dell’immaginazione e della cultura a cui apparteniamo. Fa parte della nostra narrazione delle origini – basti pensare per un momento all’iterazione della donna vittima della brutalità maschile nella mitologia, o nel racconto delle religioni, nelle rappresentazioni dell’arte, nell’ordinamento dello Stato, producendo in questo modo realtà sociale e dando senso a gesti e comportamenti. L’associazione fra seduzione e caccia – humus culturale dell’odierno femminicidio – viene da lontano e attinge a un vasto campo letterario, dalla Gerusalemme Liberata del Tasso a La Lupa di Verga, dalle disgraziate protagoniste del melodramma a La Ballata del Carcere di Reading di Oscar Wilde, per non parlare della Sonata a Kreutzer di Tolstoj, nell’intreccio paradigmatico tra eros e thanatos.

Ancora oggi, l’idea di essere prede naturali del desiderio maschile si forma e si consolida molto presto nelle donne, che vengono gradualmente educate a suscitarlo attraverso un complesso codice di comportamenti. I maschi, dal canto loro, fin da bambini subiscono un processo di rappresentazione simbolica parallelo e complementare. Gli obblighi sono pesanti, si fondano principalmente sul ricorso alla forza, sulla dimostrazione del coraggio, del potere e anche della violenza. La pressione culturale poggia infine sulla nozione che il desiderio fisico maschile sia un istinto incontrollabile, e che la volontà degli uomini sia la prima vittima. Si sbaglia chi considera questa convinzione un’obsoleta ricerca di giustificazioni delle bisnonne per l’incontinenza e i tradimenti dei loro consorti. La violenza e il sentimento di padronanza e di dominio possono non emergere in forme dichiarate ed eccessive, ma esistono anche se in forme blande e innocue – basta pensare alla questione della lingua, oppure al rito del matrimonio, in cui il padre accompagna la sposa all’altare consegnandola al giovane uomo che sarà suo marito. È lo scambio tra uomini messo in scena che ci fa commuovere.

Il male si deve raccontare, senza esemplificazioni che rischiano di cannibalizzare quanto si è fatto finora, il moltissimo che resta da fare. La parola permette di illuminare la questione più profonda: la violenza insensata è il riflesso del disordine simbolico che si è installato con la progressiva frantumazione del patto sociale. «Nel corpo sociale – scrive Luisa Muraro nel prezioso libricino Dio è violent – non scorre più, come energia positiva, il senso di un ordinamento condiviso. Sotto i colpi della crisi del 2008 che non passa, ora che il benessere materiale è in forse, ci accorgiamo che l’unico orientamento generale lo dava la crescita economica». Del resto la violenza è un paradigma che attiene alle forme di organizzazione della società e lo scriteriato sfruttamento delle risorse del pianeta è una declinazione dello stupro, ci ricorda la femminista indiana Vandana Shiva.

La debolezza maschile

La scarsa qualità delle relazioni che ne scaturisce fa emergere la necessità di alfabetizzazione nei rapporti fra le persone, soprattutto i lungamente trascurati rapporti di coppia. Ma c’è una questione da chiarire senza indugio: il fenomeno della violenza contro le donne non ci parla in generale di una debolezza femminile a cui sopperire con paternalistiche tutele – protezione delle donne dalla violenza – quanto piuttosto di una debolezza, di un incaglio nella vicenda del maschile. Come commenta Stefano Ciccone nel suo imperdibile Essere Maschi, il maschile è storia di una «parzialità che si è fatta norma, misura dell’umano, rispetto a cui il femminile diveniva declinazione per difetto: ma al tempo stesso è storia di quella condizione vissuta dagli uomini che il sistema di poteri, norme e rappresentazioni chiamato patriarcato ha plasmato nel tempo»; parlare del maschile vuol dire non solo parlare di quel sistema bloccato, ma ancora di più «delle domande a cui la costruzione di questo ordine ha risposto e dei segni che questo ordine lascia sui corpi, sui desideri, e sulle percezioni degli uomini». Da decenni a questa parte, le diverse società del mondo hanno messo a tema una questione femminile mentre il maschile resta un nodo irrisolto, «come se le costruzioni linguistiche, simboliche e istituzionali prodotte avessero reso gli uomini invisibili a se stessi nella loro esperienza di vita, dissimulando la materialità della loro realtà».

Riconoscere che la violenza è iscritta nel rapporto fra uomini e donne è cosa che vorremmo non credere, chiamando a testimonianza l’esperienza di tanti uomini miti e buoni che conosciamo, i compagni di vita amati, i nostri adorati figli, i cari amici. Riconoscere invece che questa realtà esiste, e nominarla là dove essa si annida in gesti pesanti o leggeri, sin dalle prime fasi della vita dei bambini e delle bambine, è condizione necessaria per cambiare le regole del gioco. Questo comporta un impegno molto serio da parte di donne e uomini. Implica uno sforzo di soggettività, per uscire entrambi dagli stereotipi e insieme costruire le basi di una nuova compartecipazione e una nuova dimensione del conflitto tra i due generi.

Non ci sono molte alternative a questa rotta, che è ricerca per entrambi i generi di una nuova felicità. Evidentemente, un mondo che pensa di costruire la sua armonia sulla sofferenza volontaria di un genere solo, oltre a essere intimamente malato, non è più accettabile.


Nicoletta Dentico, giornalista, già direttora di Medici Senza Frontiere Italia, impegnata da decenni sui temi della cooperazione internazionale, dei diritti e della salute globale. È stata co-fondatrice del movimento Se Non Ora Quando? (SNOQ). Dal 2013 siede nel Consiglio di Amministrazione di Banca Popolare Etica, ed è responsabile internazionale della Fondazione Lelio Basso.

* Illustrazione di Stefania Anarkikka Spanò

Leggi la presentazione dello speciale da cui questo articolo è tratto

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