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Perché l’essere maschio non comporta alcun vanto

Perché l’essere maschio non comporta alcun vanto

Tratto da: Adista Documenti n° 10 del 12/03/2016

L’abbraccio tra papa Francesco e il patriarca di Mosca Kirill (immagine che ha fatto il giro di quel mondo che guarda le immagini), è tanto rassicurante quanto contraddittorio. Da un lato ci dice che in un mondo diviso (quale luogo simbolico migliore di Cuba?) almeno le Chiese sono capaci di cambiare e produrre segni di riappacificazione. Dall’altro, ci dimostra che le Chiese non cambiano affatto e che il potere ecclesiale rimane saldamente in mani maschili. Plus ça change plus c’est la même chose.

Se dovessimo trattare la questione “le Chiese e le donne” alla luce di questa immagine, penseremmo che le Chiese sono istituzioni maschili alle quali le donne sono estranee. Ovviamente le cose non stanno così, le donne sono – siamo – già Chiesa. Anzi, come dimostrò la rivista Jesus qualche anno fa, senza le donne le Chiese non andrebbero da nessuna parte: a svolgere il lavoro nelle chiese sono le donne. Qual è il problema? Il problema è che non si vedono, che raramente si sentono, che non trovano rappresentanza. Anche l’ecumenismo appare troppe volte un affare di abbracci tra uomini dai quali le donne sono escluse o si defilano.

Così, volente o nolente, il nostro tema si inscrive nella vecchia economia binaria secondo la quale nella Chiesa gli uomini, e alcuni (come il clero) più di altri, fungono da mente pensante; le donne da corpo, forza lavoro o utenti primari di un’offerta spirituale declinata squisitamente al maschile (sebbene talvolta travestita al femminile).

Invisibilità delle donne?

Donne invisibili e Dio patriarcale è il titolo di un libro di Marga Bührig, dato alle stampe nel 1987. Qualche anno dopo Elisabeth Schüssler Fiorenza pubblica nuovamente un articolo su donne e ministero col titolo “Siamo ancora invisibili”. All’inizio del nuovo millennio esce Orme invisibili: donne cattoliche tra passato e futuro a firma di Maria Teresa Garutti Bellenzier.

Si è parlato molto dell’invisibilità di noi donne nella Chiesa come anche del nostro silenzio. Adriana Valerio, per esempio, scrive della «esigenza di dare visibilità a quelle donne che sono uscite dall’anonimato e dal silenzio per irrompere nella storia» (1995, p. 5) e anche io avevo usato l’idea di passare Dal silenzio alla parola. Tuttavia, credo che sia giunta l’ora di cambiare prospettiva. Non è che noi donne siamo invisibili ma, come Valerio aveva osservato altrove (1990), è la nostra presenza che è stata negata. Detto altrimenti, sono gli uomini a non vederci. Non è che come donne stiamo in silenzio, sono gli uomini a non ascoltarci quando parliamo, a non leggerci quando scriviamo, a non partecipare quando discutiamo. Così Giancarla Codrignani dichiara sconsolatamente: «Ma nessuno accoglie le riflessioni delle teologhe femministe» (2011, p. 135). Sì, sembra che gli uomini abbiano occhi per vedere ma non ci vedano, orecchie per sentire ma non ci ascoltino. Come scrive la sociologa Anna Simone, «il quadro sociale è piuttosto chiaro: le donne hanno fatto grandi passi in avanti, gli uomini e la società» (figuriamoci le Chiese) «fanno fatica a recepirlo» (2014, p. 90). Perciò cominciamo a pensare, insieme a lei e a qualche altra, che la vera questione sia maschile.

Un affare da uomini

Nel 1981 il Consiglio Ecumenico delle Chiese (al quale la Chiesa cattolica partecipa come osservatrice) organizzò una conferenza sul tema “La comunità di donne e uomini nella Chiesa”. Solo cinque anni dopo una delle organizzatrici affermò: «La conferenza di Sheffield è stata ridotta al silenzio… non è stata presa in considerazione da coloro che decidono le priorità nella teologia della Chiesa e nella formazione teologica» (Parvey, 1986). Qualcosa di analogo è successo al Decennio Ecumenico delle Chiese in Solidarietà con le Donne giunto a termine nel 1998. Tra gli obiettivi del Decennio figuravano la condivisione del potere decisionale nelle Chiese, la visibilità delle idee e delle attività delle donne, la liberazione delle Chiese dal razzismo, dal sessismo e dal classismo. Nel nostro Paese tali istanze furono portate avanti dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e dal Forum delle donne al quale partecipavano le donne cattoliche. Terminato il Decennio, però, le Chiese dell’area protestante, convinte che l’ammissione delle donne al pastorato avesse posto fine a ogni residuo di maschilismo e preoccupate della propria sopravvivenza, abbandonarono le istanze del decennio delegandole ancora una volta alle organizzazioni femminili al loro interno. Veniva così perpetuata l’idea che la Chiesa fosse un affare di uomini i cui interessi stanno decisamente altrove.

Soggetti parziali 

Il punto di partenza del pensiero delle donne è sempre stato un’analisi delle relazioni asimmetriche tra uomini e donne. “Raddrizzando” – per usare l’espressione della teologa statunitense Carter Heyward – uno dei due termini della relazione per renderla simmetrica, si presupponeva che l’altro cambiasse di conseguenza. Mary Daly, infatti, scrivendo agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, aveva pensato che il movimento delle donne avrebbe trascinato con sé anche gli uomini, i quali, ascoltando le nuove parole delle donne, si sarebbero messi in discussione scoprendo una nuova soggettività tutta loro. Eppure questo non è (ancora) accaduto. O forse sarebbe meglio dire che, dopo cinquant’anni, siamo solo agli inizi di un processo che si annuncia lungo e travagliato come qualsiasi parto: la nascita di un nuovo modo di essere uomini, ma anche di nuove parole per dirlo.

Anni fa (1993) polemizzai con la teologa Cettina Militello circa la reciprocità. Mentre lei insisteva sulla reciprocità delle relazioni tra uomini e donne (nelle Chiese e altrove), io dicevo che tale reciprocità necessitava non solo di una soggettività ritrovata da parte delle donne ma anche di una nuova soggettività maschile, libera da rapporti di potere patriarcale e dalla stereotipia maschile. «Se gli uomini riusciranno a scoprire in se stessi questa promessa di ricerca e di riconciliazione interiore, avranno raggiunto la soglia del nuovo spazio». Ecco ciò che, salvo poi rinunciarci, aveva inizialmente immaginato Daly (1990, p. 207). Ecco cosa avremmo voluto noi donne! Che gli uomini, fratelli di fede e compagni di percorso, si lasciassero interrogare dalle parole che stavamo imparando a dire e, per dirlo insieme al pensiero della differenza, riconoscessero e assumessero la propria parzialità di soggetti sessuati al maschile indagando di conseguenza la propria collocazione come uomini in una società e in una Chiesa patriarcali.

Ritengo tuttora che questo sia il sine qua non di relazioni reciproche tra uomini e donne nelle Chiese, base di nuove configurazioni di potere nonché di una nuova fedeltà al Vangelo. Qualcosa, forse, comincia a muoversi grazie, da un lato, a gruppi storici come “Uomini in cammino” (a Pinerolo) o “Maschile plurale” pronti a dialogare con diverse realtà ecclesiastiche, e, dall’altro, al complesso evolversi della relazione tra i generi negli ultimi decenni.

Partendo dall’immagine dei due patriarchi che si abbracciano, ho messo in evidenza quanto ci risulta difficile pensare alle Chiese come realtà composte di uomini e donne e non solo come bastioni del potere maschile. Alla Chiesa degli uomini che non ci vedono né ascoltano la nostra voce, si era risposto negli anni Ottanta declinando in modi diversi la “Chiesa delle donne”. Secondo Rosemary Radford Ruether, per esempio, le “comunità liturgiche femministe” erano espressione non tanto dell’esilio delle donne dalla Chiesa quanto della Chiesa in esilio con le donne, in attesa «dell’evoluzione di una nuova co-umanità di donne e uomini liberati dal patriarcato» (1985, p. 61). Elisabeth Schüssler Fiorenza, invece, sviluppò l’idea «dell’adunanza delle donne come assemblea libera e decisionale del popolo di Dio» (1990, p. 375), la quale diventò successivamente l’“ekklesia di don/ni” intesa come “spazio metaforico” che non esclude gli uomini ma sostiene «pratiche critiche… per trasformare i discorsi istituzionali kiriarcali nei campi religioso e sociale» (1996, p. 47). Tali nozioni si ispiravano al “discepolato di uguali” che Fiorenza aveva individuato nei primi movimenti cristiani (1990, p. 124). “Uguali a chi”? aveva ribattuto Luce Irigaray. Nell’epoca della differenza, da noi l’idea dell’uguaglianza ebbe poca fortuna.

Un’assemblea di “diversamente uguali”

Forse vale la pena ripristinare alcuni elementi di questa visione, soffermandoci su alcuni versetti del Vangelo. Mi riferisco al modo in cui Gesù utilizza termini di parentela per riferirsi a coloro che si riuniscono intorno a lui per ascoltare e mettere in pratica la sua parola. Due cose ci appaiono fondamentali. In primo luogo, come da tempo si è messo in evidenza, la figura del padre è assente da questa nuova comunità: «Poiché chiunque avrà fatto la volontà del Padre mio, che è nei cieli, mi è fratello e sorella e madre» (Mt 12,50). Non solo, ma altrove Gesù espressamente proibisce l’uso della parola “padre” per designare persone all’interno della comunità nascente, «perché uno solo è il Padre vostro, quello che è nei cieli» (Mt 23,9). Siamo davanti a una di quelle istanze in cui la figura paterna di Dio viene usata non per confermare il patriarcato bensì per contestarlo. Era così difficile dare retta alle parole del Maestro? A questo punto potremmo notare che Gesù ha già tassativamente vietato il riprodursi di relazioni gerarchiche tra i suoi seguaci, i quali non devono “signoreggiare” gli uni sugli altri (Mc 10, 42/Mt 21,25). Non basta, però, come abbiamo visto, che si trasformi solo uno dei termini della relazione. In secondo luogo, quindi, viene specificato che nel movimento che si raccoglie intorno a Gesù ci sono sia fratelli che sorelle. Detto altrimenti, si dà nome e visibilità alle donne delle prime comunità cristiane. «Poiché chiunque avrà fatto la volontà del Padre mio, che è nei cieli, mi è fratello e sorella e madre» (Mt 12,50).

Questo episodio riportato dai tre Vangeli sinottici ci suggerisce cose interessanti non solo riguardo alla famiglia tout court ma anche riguardo alla Chiesa. Dimostra cioè che le donne facevano parte integrante del movimento di Gesù e che la loro presenza era da lui riconosciuta e elaborata. Questa notizia ci appare incontrovertibile in quanto all’epoca della stesura dei Vangeli era già iniziata una certa patriarcalizzazione delle Chiese. Secondo alcune studiose, la figura di Dio Padre in Matteo non ha tanto a che fare con chi è Dio in se stesso («nei cieli») quanto con il tipo di relazioni che devono vigere nella comunità che Gesù sta creando. Non tanto con la relazione verticale, quindi, quanto con le relazioni orizzontali in cui la differenza sessuale è esplicitata: «Mi è fratello e sorella».

In altre parole, l’immagine di Chiesa cui rimandano le persone riunite intorno a Gesù non è monosessuata, non è configurata né in modo patriarcale né in modo fratriarcale, bensì come un’assemblea di “diversamente uguali”. Assemblea in cui non solo le sorelle si confrontano con i fratelli riconoscendo la parzialità del proprio genere, ma anche i fratelli si confrontano con le sorelle riconoscendo la propria differenza sessuale. Detto altrimenti, stiamo rivisitando, rafforzate e rafforzati da anni di elaborazione teologica da parte delle donne, l’idea della “comunità di donne e uomini nella Chiesa” o, per citare un incontro più recente organizzato dall’Associazione Teologica Italiana e dal Coordinamento delle teologhe italiane, di “Una Chiesa di donne e uomini” (Simonelli e Ferrari).

Da dove iniziare un percorso del genere? Anche qui teologhe come Elizabeth A. Johnson e Letty Russell ci vengono in aiuto attraverso l’uso che fanno del concetto di conversione. Pensiamo che lo stesso cristianesimo decostruisca la soggettività tanto maschile quanto femminile inscritta nel rapporto asimmetrico tra i generi. L’apostolo Paolo, per esempio, ri-scrive il proprio itinerario personale modellandolo su quello di Cristo «il quale non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma spogliò se stesso…» (Fil 2,6). Nella stessa lettera egli elenca le cose di cui si era spogliato – «io circonciso l’ottavo giorno, della razza di Israele, della tribù di Beniamino, fariseo» (3,5s.) e via dicendo. Queste cose alla base dell’identità dell’apostolo ora vengono da lui considerate “un danno”, tanta spazzatura di cui liberarsi in modo «da essere trovato in Cristo non con una giustizia» sua (3,9). La giustizia sua, in questo caso, consisterebbe nella sua genealogia impeccabile di cui la maschilità seppur non nominata è fondamentale. In altre parole, mentre abbiamo scoperto come donne che il nostro essere donna non comporta nessuno svantaggio (o danno) davanti a Dio, ora stiamo dicendo che l’essere maschio non comporta nessun vanto (o guadagno).

Forse per gli uomini (e per alcuni più di altri) è giunto il momento di non aggrapparsi più all’idea di essere al centro dell’ordine sociale e simbolico, ecclesiale e teologico.

«Se gli uomini non si ritraggono davanti alla buona novella perché questa comporta la perdita di privilegi e prestigio immeritati o un lungo viaggio in territori inesplorati, possono riuscire a diventare degli esseri umani», scriveva Daly (p. 207). Le Scritture parlano continuamente di uomini che fanno lunghi viaggi in territori inesplorati sorretti dall’amore di Dio e guidati dalla sua luce per diventare degli esseri umani. Esseri umani in grado di risolvere la questione maschile costruendo insieme alle donne relazioni reciproche in quella comunità di sorelle e fratelli che si riunisce intorno al Messia Gesù, la Chiesa.

Note bibliografiche

Marga Bührig, Donne invisibili e Dio patriarcale, Torino (1989)

Giancarla Codrignani, Stiano pure scomode, signore, Roma (2011)

Mary Daly, Al di là di Dio Padre, Roma (1990, l’originale è del 1973)

Maria Teresa Garutti Bellenzier, Orme invisibili, Milano (2000)

Elizabeth E. Green, Dal silenzio alla parola, Torino (1992)

EAD., “Da donna a donna in questione”, “Protestantesimo” 48 (1993), pp. 94-107

Luce Irigaray, Égales a chi? “Critique” 480 (1987), pp. 420-437

Elizabeth A. Johnson, Colei che è, Brescia (1999)

Cettina Militello, Donna in questione, Assisi (1992)

Constance Parvey, The Community of Women and Men in the Church, Ginevra (1983)

Rosemary Radford Ruether, Women-Church, New York (1985)

Letty Russell, Teologia femminista, Brescia (1974)

Elisabeth Schussler Fiorenza, In memoria di lei, Torino (1990)

EAD., Discipleship of Equals, New York (1993)

EAD., Gesù, Figlio di Miriam, Profeta della Sofia, Torino (1996)

Anna Simone, I talenti delle donne, Torino (2014)

Cristina Simonelli e Matteo Ferrari, Una Chiesa di donne e uomini, Camaldoli (2015)

Adriana Valerio, Cristianesimo al femminile, Napoli (1990)

EAD., Donna potere e profezia, Napoli (1995)

Elizabeth Green è teologa femminista, pastora presso le chiese evangeliche battiste di Cagliari e Carbonia. Tra le sue pubblicazioni: Dal silenzio alla parola. Storie di donne nella Bibbia (2007), Il filo tradito. Vent’anni di teologia femminista (2011) e Padre nostro? Dio, genere, genitorialità. Alcune domande (2015).

* Illustrazione di Stefania Anarkikka Spanò

Leggi la presentazione dello speciale da cui questo articolo è tratto

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