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Che il nostro grido  venga ascoltato

Che il nostro grido venga ascoltato

Tratto da: Adista Documenti n° 18 del 13/05/2017

(Per l'introduzione a questo intervento clicca qui)

Sono qui per raccontarvi cosa avviene ai miei compagni guarani kaiowá. Sono venuto qui in Europa a portare il grido di un popolo, di una nazione. Da quando, nel 1953, siamo stati espulsi, all’epoca del presidente Vargas, dalla nostra grande area, viviamo confinati in otto piccole riserve. Il popolo Guarani Kaiowá ha subìto grandi violenze e sofferenze, che sono continuate durante la dittatura militare, ma che non gli hanno impedito di realizzare, nel 1983, la sua prima assemblea generale - Aty Guaçú –, organizzata dal nostro grande leader Marçal de Souza, Tupã-Y, che poco dopo sarebbe stato ucciso. Da quel momento non abbiamo mai smesso di lottare per la nostra terra. Nel 1983 avevo undici anni, ma già accompagnavo mio padre nel processo di riconquista delle terre. Le terre che abbiamo proceduto a occupare sono state identificate come aree indigene, demarcate e addirittura, in alcuni casi, omologate, eppure non ci sono state ancora restituite. La Costituzione del 1988 stabiliva chiaramente che il governo avrebbe dovuto consegnare ai popoli indigene le loro terre – comprese quindi quelle che stiamo rivendicando a partire dal 1983 – entro cinque anni dalla promulgazione della Costituzione, vale a dire entro il 1993. A 24 anni da quella scadenza, e dopo 35 anni di lotta, stiamo ancora aspettando. E in questa lunga attesa stiamo oggi soffrendo l'impatto dell'agribusiness, che mira a distruggere una volta per tutte le nostre terre, le nostre foreste, le nostre sorgenti d'acqua, i nostri fiumi. Così, nella nostra area, si sono stabilite 18 aziende legate alla coltivazione della canna da zucchero, della soia e dell'eucalipto come pure alla produzione di transgenici. E malgrado il fatto che il mio popolo rivendichi oggi un'area molto più piccola di quella che un tempo era nostra, neppure questa superficie così ridotta, per di più già demarcata e omologata, ci viene restituita. Durante questa lunga attesa, abbiamo già perso 385 dei nostri leader, uccisi da gruppi paramilitari al soldo della Federação da Agricultura e Pecuária do Estado de Mato Grosso do Sul (Famasul): cinque milizie, ciascuna delle quali composta da 10mila soldati, che controllano quotidianamente i nostri movimenti e ci aggrediscono in vari modi, per esempio gettando veleno sulle nostre capanne. Non so fino a che punto riusciremo a sopportare, nelle condizioni in cui siamo: viviamo accampati ai margini delle strade, sotto teloni di plastica nera, mangiando polvere, soffrendo il sole cocente, il freddo, il maltempo, senz'acqua potabile, senza legna, senza alcuna assistenza. Il governo sta calpestando i nostri diritti: la Costituzione afferma chiaramente che abbiamo diritto alla terra. Il governo ci deve questa terra. Basta massacri. Basta distruzione delle nostre foreste e delle nostre sorgenti. I nostri leader vengono assassinati, i nostri bambini muoiono di fame, i nostri giovani si tolgono la vita per l'assenza di prospettive e la nostra terra è ormai nuda. Ogni 15 giorni si registrano due-tre suicidi. Siamo riusciti a salvare uno di questi ragazzi che aveva tentato di togliersi la vita e gli abbiamo chiesto perché lo avesse fatto. Ci ha risposto che aveva paura: «La polizia – ha detto – viene e spara. Non ho nulla da offrire a mio figlio. E finché resteremo qui accampati non avremo niente». Ma c'è anche da dire che molti casi che appaiono come suicidi in realtà sono omicidi. Mio nipote lo abbiamo trovato impiccato con il filo spinato in posizione seduta. La polizia ha detto che si era suicidato in questo modo perché era ubriaco. In realtà è stato assassinato dai pistoleiros.

Poco tempo fa, durante l'occupazione di una fazenda che abbiamo realizzato su una terra che ci appartiene, i pistoleiros hanno ucciso tre persone: un operatore sanitario bianco, un bambino e un'anziana. Ma la polizia ha registrato solo la morte del bianco. 

E, dunque, o ci assassinano i latifondisti, facendolo risultare come un suicidio, o alcuni di noi si tolgono la vita perché sentono di non avere più alcuna prospettiva, come mio fratello, che era stato aggredito innumerevoli volte e non ce l'ha fatta più. Ho già perso quattro fratelli, un nipote, uno zio e mio padre. Perché dobbiamo morire per una terra che è nostra? Una terra che pure la legge dice che è nostra, che pure il governo ha riconosciuto come nostra?

Il 13 gennaio del 2005 è apparso sulla Gazzetta Ufficiale del governo brasiliano il decreto che riconosce Takuara come terra indigena, assegnandoci  9.500 ettari. E nel 2012 è stata realizzata anche l'omologazione dell'area, la tappa finale del procedimento che stabilisce definitivamente e per sempre il nostro diritto su quella terra. Ma anche così non ci è stata ancora restituita. Siamo andati anche a Brasilia a parlare con l'allora presidente del Supremo Tribunale di Giustizia, Joaquim Barbosa, il quale ci ha detto: «Che siete venuti a fare? La terra è già vostra!». Eppure il giudice di El Dorado emette ordini di sgombero, incaricando le forze militari di espellerci dalla terra che è nostra. Di più: denuncia la Funai, che è un organo del governo federale, chiedendo 10mila reais di danni per ogni occupazione realizzata dagli indios, e le occupazioni sono 46 (e per tutte e 46 sono stati emessi ordini di espulsione)!  

Tuttavia, tra i giovani che stanno crescendo ci sono molti nuovi guerrieri, ed è importante che ci siano perché noi non dureremo ancora molto. Non so neppure cosa sarà di me quando tornerò in Brasile. 

È stato molto difficile farmi arrivare qui, abbiamo dovuto organizzare tutto di nascosto, senza dirlo a nessuno, perché, in un altro caso, quando si è saputo che un leader tupinambá era in procinto di partire per l'Europa, hanno provveduto ad arrestarlo in aeroporto. Ma io ce l'ho fatta – Tupã (il Dio dei Guarani, ndt) mi ha dato la forza per intraprendere questo viaggio - e posso farmi portatore del grido di un popolo che sta soffrendo un genocidio. E non si tratta neppure solo del popolo Guarani Kaiowá, ma di tutti i popoli indigeni del Brasile, i cui diritti vengono sistematicamente calpestati dal governo. Nel Mato Grosso do Sul non c'è alcun organismo che sostiene la nostra causa: tutto è nelle mani dei fazendeiros e dei proprietari delle grandi industrie, ciascuno dei quali possiede fino a 86mila ettari di terra. Mi vergogno dei governanti del mio Paese: è assurdo che io debba venire fino a qui a denunciare una situazione che si potrebbe risolvere nella maniera più semplice in Brasile. Ma sono venuto a portare questo grido perché voglio che l'Europa rivolga la sua attenzione a quello che sta avvenendo lì, non solo rispetto alle sofferenze del popolo Guarani Kaiowá, ma anche al modo in cui sta operando l'agribusiness, perché è importante che sappiate che dal Brasile arrivano qui in Europa prodotti avvelenati, come la carne e la soia (basti pensare allo scandalo che ha coinvolto il colosso produttore di carne JBS, che getta un liquido sulla carne per farla sembrare più rossa. E qualcuno doveva venire qui a dirlo. Io non ho paura di denunciare: mio padre è morto per le sue denunce su ciò che veniva fatto al nostro popolo e io intendo portare avanti la sua missione, denunciando a mia volta. 

Quello che ci fa più male è la promessa non mantenuta. Se si fa una promessa, bisogna mantenerla. E Lula, prima di diventare presidente, aveva promesso di restituirci le nostre terre. Aveva persino dormito da noi, mia madre aveva ucciso una gallina per lui, durante la sua campagna elettorale. E, invece, sotto il suo governo, è incredibilmente aumentato il numero dei nostri dirigenti uccisi. E quindi sono venuto qui a raccontare la nostra storia, per sensibilizzare la società europea alla nostra causa, in maniera che promuova una campagna politica a favore del popolo Guarani Kaiowá. E anche se questo giro per l'Europa (Italia, Grecia, Spagna, Inghilterra, Germania) è estremamente stancante, tanto più perché accompagnato da moltissime sollecitazioni provenienti dal Brasile, l'importante per me è che questa denuncia venga espressa, che questo grido venga ascoltato. E sono venuto qui a gridare perché in Brasile non è possibile farlo, con un Parlamento dominato dalla lobby dell'agribusiness e dalla lobby degli evangelici e con un governo costituito da latifondisti che hanno rubato la terra agli indigeni.

E vorrei invitare chiunque ne abbia la possibilità a partecipare alla Aty Guaçú, l'assemblea generale del popolo Guarani Kaiowá, che si terrà l'ultima settimana di agosto a Takuara, la comunità che abbiamo riconquistato nello Stato del Mato Grosso do Sul, con due giorni di preghiere guidate dagli sciamani e l'incontro tra i leader indigeni e i loro sostenitori. 

* Foto di percursodacultura tratta da Flickr, immagine originale e licenza

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