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A 10 anni dalla morte di Alberigo. Studi storici e riforma della Chiesa

A 10 anni dalla morte di Alberigo. Studi storici e riforma della Chiesa

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 33 del 30/09/2017

Giuseppe Alberigo (1926-2007) è una delle figure più significative del Novecento cattolico. A dieci anni dalla sua morte mi sembra necessario che il contributo che egli ha dato alla storia della Chiesa e soprattutto alla comprensione del cristianesimo e dei suoi rapporti con la società e con la cultura in senso lato continui a esercitare un influsso rilevante nel presente. Del suo vasto “impegno”  vorrei ricordare qui solo ciò di cui fui testimone durante l’esperienza che feci con lui dal 1967 al 1981. Altri potranno mettere in luce i 25 anni successivi della sua vita. 

La natura storica, scientifica e non teologica della disciplina della Storia della Chiesa 

Pino, come lo chiamavano tutti quelli che lo conoscevano da vicino, considerava il suo lavoro di storico della Chiesa come un impegno continuo che aveva per scopo il rinnovamento profondo della Chiesa cattolica e della società del tempo. 

L’aspetto principale del suo lavoro di storico fu l’applicazione rigorosa del metodo storico alle vicende del cristianesimo, in continuità con la grande tradizione storica italiana, rappresentata ad esempio da Delio Cantimori. Il posto principale doveva essere costituito da una lettura diretta delle fonti storiche senza il pregiudizio dettato da un’adesione apologetica a una particolare teologia cattolica (difetto questo che purtroppo domina oggi in alcuni ambienti cattolici italiani soprattutto ecclesiastici). 

Alberigo sosteneva la natura storica, scientifica e non teologica della disciplina della Storia della Chiesa. La difesa alberighiana della non teologicità della storia della Chiesa è di un’attualità, anzi urgenza, estrema. Si pensi solo alle involuzioni (che hanno avuto uno straordinario influsso nelle Facoltà teologiche) di un James Dunn che pretenderebbe che lo storico e l’esegeta partissero dalla fede per poter comprendere i testi dei vangeli che sarebbero stati prodotti all’interno di essa. Un’accurata esposizione del pensiero di Alberigo sarebbe necessaria da questo punto di vista.

Egli sottolineava anche la necessità di un’apertura della storia della Chiesa a tematiche che erano spesso rimaste marginali (ad esempio anche lo studio dei grandi “eretici” su cui il suo maestro Cantimori aveva attirato l’attenzione degli studiosi). 

In ogni caso, il magistero di Alberigo è oggi non solo ancora valido, ma attualissimo. Alberigo può fornire oggi una risposta difficilmente contestabile alle proposte di una diffusa reazione teologico-apologetica. Non posso certo qui analizzare a fondo questa situazione. Accenno solo al fatto che a partire dagli anni Ottanta la teologia cattolica soprattutto italiana ha operato una consapevole, intenzionale opera di contro-riforma per cercare di eliminare alla radice lo stimolo critico che può venire dagli studi storici. La storia della Chiesa e del cristianesimo e l’esegesi storica del Nuovo Testamento sono in grado di mettere in luce le differenze tra il cristianesimo originario e l’attuale struttura della Chiesa indicando possibili riforme. Perciò la teologia neoconservatrice cerca di disattivare la forza riformatrice degli studi storici affermando che bisogna leggere il Nuovo Testamento alla luce della teologia attuale e degli assetti attuali della Chiesa. La trascendenza del Nuovo Testamento rispetto alla Chiesa viene quindi oscurata. La stessa cosa si può dire per gli studi storici dei periodi successivi. Questo è il motivo principale che porta la conservazione a sostenere che l’esegesi biblica e la storia della Chiesa devono essere discipline teologiche e non meramente storiche.

L’urgenza del disimpegno politico della Chiesa

Ci sono poi aspetti della personalità di Alberigo che appartengono alla sua figura di cattolico, ma il cui valore è condivisibile anche da chi non appartiene a Chiese cristiane, perché si tratta di valori civili estremamente attuali anche per la vita sociale di oggi. Penso alla sua esigenza di non porre al centro la funzione politica della Chiesa. Anzi egli denunciava la deformazione politica della Chiesa cattolica (critica che continuava un’esigenza fondamentale di Giuseppe Dossetti). Si tratta di una tematica che sta al cuore della riflessione critica dell’età moderna, da Thomas Hobbes (con la sua critica all’idea che la Chiesa rappresenti il regno di Dio in terra) a Thomas Chubb, a John Toland (vedi ad esempio il saggio sulla costituzione primitiva della Chiesa) a John Locke, anche se questi non rappresentavano certo le radici del pensiero di Alberigo e tanto meno di Dossetti. Dossetti riteneva che il male maggiore della Chiesa italiana fosse la politicizzazione e cioè la tendenza a usare il potere politico e l’alleanza con esso come strumento necessario per la sussistenza e la diffusione del cristianesimo. Un’idea che aveva dominato la Chiesa dai tempi dell’ancien régime fino agli ultimi esiti della Democrazia cristiana degli anni Cinquanta, passando per l’opposizione al risorgimento e l’età dei concordati con gli stati nazionali, compreso quello del 1929. L’intuizione religiosa di don Dossetti di un cristianesimo non politico è a mio avviso radicalmente differente da quella essenzialmente politica di Don Giussani e di CL che invece ha finito per essere preponderante nella Chiesa italiana e anche in quei settori e movimenti che con Giussani e CL non hanno un rapporto diretto. Alberigo sviluppava quest’atteggiamento in modo autonomo e libero rispetto a Dossetti ponendo in vista la necessità di una revisione della scelta strategica dei concordati come sistema di rapporti con la società politica.  I sistemi concordatari dovevano essere criticati e sostituiti da sistemi di rapporto con la società che rispettassero la natura essenzialmente religiosa non politica della Chiesa. Il legame della Santa Sede con uno Stato autonomo (con il conseguente sistema internazionale di relazioni diplomatiche con tutti gli Stati) era ed è ritenuto dalla teologia ufficiale come necessario per l’indipendenza della Chiesa, mentre per Alberigo era un altro degli obiettivi critici alla luce della natura religiosa del cristianesimo. Negli anni Sessanta e Settanta era ancora attuale la lotta contro la compromissione politica della Chiesa grazie alla Democrazia cristiana. Ora il partito cattolico non c’è più, ma lo stesso principio di rapporto necessario con la politica permane attraverso un’instancabile attività di lob-bying politica esercitata dal potere ecclesiastico tramite la mediazione di gruppi di pressione di rappresentanti politici cattolici presenti in tutti i diversi partiti e tramite un più o meno velato sostegno alle posizioni politiche più favorevoli alle esigenze volta a volta presentate dalla Conferenza episcopale italiana o dalla Segreteria di Stato. 

L’urgenza di una critica interna nella Chiesa e in ogni religione.

 Un altro aspetto fondamentale dell’azione di Alberigo sta nella sua difesa del diritto di critica all’interno della Chiesa cattolica senza che questo comporti un abbandono della Chiesa stessa. Quest’ultimo aspetto è assolutamente centrale. La Chiesa cattolica, soprattutto italiana, spesso non riesce a sopportare il dissenso interno. È pronta non di rado a un dialogo con non credenti o aderenti a Chiese cristiane non cattoliche, ma non tollera la critica interna. I cattolici critici vengono diffamati, isolati e poi sottoposti alla damnatio memoriae. Qui è in gioco un aspetto essenziale per le nostre società: la possibilità di esercitare a fondo un’analisi critica interna delle religioni, nel senso che parta dalle basi stesse di una religione, senza abbandonarla, per poterla indirizzare in senso più umano, civile e razionale. Quanto sia urgente oggi questo atteggiamento sembra a me chiaro, ma il fatto che stenti tanto a diffondersi significa che così chiaro non è. Credo che una riflessione sul pensiero di Alberigo sarebbe oggi un contributo estremamente utile anche in questo senso.

Il fatto che egli sia sempre stato integralmente cattolico da ogni punto di vista, ma abbia apertamente dissentito da orientamenti teologici, politici ed etici del cattolicesimo del suo tempo (argomentando teologicamente e storicamente il dissenso) è un esempio che ha una valenza universale dal punto di vista della prassi della società civile. Alberigo pagò duramente la sua libertà di critica. La pagò accademicamente per il ritardo della sua vincita di un posto da ordinario nell’Università dello Stato Italiano (vincita per un certo tempo ostacolata da autorità ecclesiastiche) e la pagò per l’ostilità di molta parte degli ambienti cattolici italiani. 

Come ho detto, l’atteggiamento di critica all’autorità ecclesiastica era mosso in Alberigo da un’esigenza di una più pura fede cristiana e non da dubbi dogmatici o da critica alla religione in quanto tale. Per questo motivo egli si sentiva in piena continuità con le molteplici correnti di riforma della Chiesa secolarmente e diversamente manifestate nel corso della storia.

Questo è il motivo per il quale, fra i molti saggi di Alberigo, ho scelto di ripubblicare oggi sul secondo numero del 2017 della rivista Annali di Storia dell’Esegesi, uno studio che riassume la vicenda di due riformatori cattolici veneziani del primo Cinquecento: Gasparo Contarini e Tommaso Giustiniani (che fu anche autore con Vincenzo Quirini del celebre Libellus ad Leonem X). Il dialogo di Giustiniani con Contarini fu a lungo oggetto di riflessione da parte di Alberigo. Nella loro storia egli vedeva simboleggiato non solo se stesso (identificato in Contarini), ma anche il suo maestro Giuseppe Dossetti e tutti i membri del gruppo iniziale del “Centro di Documentazione” di Via San Vitale 114 che – a differenza di lui – avevano scelto con Dossetti la vita contemplativa (come aveva fatto Tommaso Giustiniani), ritirandosi in un’esperienza monacale.


L’urgenza oggi di una nuova riforma della Chiesa. 

Il tema della necessità di una Riforma della Chiesa era per Alberigo fondamentale e proprio per questo mi sembra urgente ritornare a ripensare la sua esperienza oggi. La sua dedizione decennale alla raccolta della documentazione relativa alle varie fasi di svolgimento del Concilio Vaticano II e la scrittura di una grande storia del medesimo concilio Vaticano II (in diversi volumi tradotti in molte lingue) sono operazioni culturali imponenti in cui egli ebbe accanto l’ultimo dei suoi migliori allievi, Alberto Melloni che ha proseguito con impegno vasto e conseguente il suo lavoro.

Semplificando. L’opzione ermeneutica che Alberigo proponeva per interpretare i testi fondativi del Concilio Vaticano II era quella di individuare i punti innovativi dei documenti conciliari (non in modo intuitivo o di parte, ma attraverso uno studio analitico e rigoroso dei testi e della storia della loro formazione). Alla luce di questi punti innovativi bisognava interpretare tutto il resto e ispirandosi ad essi bisognava poi procedere alla attuazione delle riforme che questi punti di innovazione additavano. La teologia conservatrice, invece, che prese sempre più il sopravvento a partire dal pontificato di Paolo VI, propose un’ermeneutica opposta: i testi del Vaticano II dovevano essere interpretati come se fossero in piena continuità con le affermazioni del magistero ecclesiastico precedente e perciò se ne attenuava la novità ribadendo la necessità di tornare ad assetti istituzionali e dottrinali pre-conciliari. In questo modo il Concilio Vaticano II è stato attuato in un modo che ha impedito che le sue innovazioni potessero affrontare le urgenze della società internazionale con il nuovo spirito evangelico che era emerso dal Concilio. A cinquant’anni dalla fine del Vaticano II, la necessità di una profonda riforma della Chiesa è di nuovo sulla scena. La riforma della curia romana è urgentissima, ma come sarà possibile senza una critica radicale del rapporto religione-politica e delle sue ricadute statuali? La riforma del sistema di elezione dei vescovi su cui Alberigo tanto aveva insistito, potrebbe portare ad un rovesciamento del loro rapporto con le comunità locali di cui si favorirebbe la creatività. 

A me sembra però essenziale (non so quale sarebbe stata la posizione di Alberigo) un ritorno alle sorgenti del cristianesimo e in particolare alla figura di Gesù e non soltanto alla vecchia e superata idea della Chiesa dei grandi concili, sembra a me essenziale e anche una riforma radicale della teologia delle religioni e del rapporto tra Chiese cristiane e cristianesimo e altre religioni. La riforma del sacerdozio è ancora più urgente. L’esigenza principale è quella di infrangere la sua riduzione a ceto di potere maschile, con apertura del sacerdozio alle donne e agli sposati, rendendo il ministero espressione dal basso e non emanazione gerarchica dall’alto.

Torniamo però alle tematiche che furono più schiettamente di Alberigo (almeno come io le ricordo, forse imperfettamente). Egli aveva insistito sulla necessità di una riforma strutturale che avrebbe avuto, nella sua mente, conseguenze sistemiche vaste: quella del governo collegiale della Chiesa (basato sul principio che centro della Chiesa non è il papa, ma l’eucaristia e l’assemblea liturgica). Alberigo aveva avanzato rilievi critici sulla funzione puramente consultiva del Sinodo dei vescovi, aveva additato l’urgenza di un continuo esercizio collegiale del governo della Chiesa. 

In questo attuale bisogno di riforma il ritorno alle grandi tematiche alberighiane sarebbe opportuno.

Mauro Pesce è biblista, già professore di Storia del Cristianesimo all'Università di Bologna, presidente del CISSR (Centro Italiano di Studi Superiori sulle Religioni), direttore degli Annali di Storia dell’esegesi; autore di numerosi testi di Storia delle origini cristiane, nel 2008 pubblicò, insieme a Corrado Augias, il best seller “Inchiesta su Gesù” 

Foto di Giampaolo Petrucci

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