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Stragi a Gaza. L’esercito più «morale del mondo»

Stragi a Gaza. L’esercito più «morale del mondo»

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 14 del 21/04/2018

Due ininterrotte file parallele delle più svariate e insormontabili barriere separano, poste a debita distanza l’una dall’altra, il territorio posseduto da Israele da quello lasciato ai Gazawi. Dalla parte di Gaza è proibito avvicinarsi alla barriera a meno di 300 metri.

In vista della “Marcia per il diritto al ritorno”, vengono appostati dal lato israeliano carri armati, armi pesanti, uno schieramento di ben addestrati cecchini, soldati e poliziotti; nell’altro Israele al-larga la proibizione di altri 700 metri. Così ci si ferma a un chilometro dalla barriera.

I manifestanti, circa 20.000 fra uomini, donne, giovani, vecchi, bambine e bambini, assolutamente senza armi, entrano dimostrativamente nella “zona proibita” che è costituita peraltro da campi agricoli palestinesi. Le truppe sparano, i cecchini prendono di mira alcuni bersagli ben identificati, i poliziotti lanciano lacrimogeni. Per ostacolare la mira dei cecchini i Gazawi adoperano il riflesso di specchi e provano a nascondersi dietro il fumo denso di copertoni bruciati e per difendersi dai gas lacrimogeni usano come mascherine i fondi di bottiglie di plastica.

Così il 30 Marzo, “Giornata della Terra”, così il 6 Aprile. Risultato: 17 morti e 1.400 feriti il primo venerdì e 10 morti e 1.354 feriti il secondo, di cui 33 in gravi condizioni e una ventina di donne  e 80 minori, in base a un primo bilancio. Tra i feriti della prima giornata alcune ragazze e ragazzi erano stati colpiti, evidentemente da cecchini, ai genitali, alcuni riportando mutilazioni permanenti. Come dire: la castrazione per spopolare la Palestina dai palestinesi. Tra le vittime della seconda giornata un bambino e Yaser Murtaja, noto giornalista palestinese di 30 anni, benché indossasse un corpetto con ben visibile la scritta “press” che secondo la Risoluzione 222 dell’Onu avrebbe dovuto proteggerlo. Il totale delle vittime è di 31, essendosi avuti tra le due giornate altri 4 morti.

Due venerdì di sangue, dunque; due stragi, raccontatemi pressoché in diretta da due testimoni oculari, una cooperante internazionale che vive abitualmente a Gaza e una volontaria che vi si reca periodicamente. Ne ometto i nomi per non esporle a rischi maggiori. Si sono improvvisate corrispondenti di guerra. Perché a Gaza, come in tutta la Palestina, è in atto una guerra; sbilenca ed asimmetrica per l’enorme sproporzione delle forze e perché ormai da anni si spara quasi sempre da una parte sola, ma guerra. Di uno Stato che occupa un intero popolo e la sua terra, reprimendone spesso nel sangue le manifestazioni di protesta, anche se pacifiche.

La stampa italiana però non parla di guerra, benché non sempre sia a bassa intensità. Non usa tale termine nemmeno in queste occasioni. Scrive di “scontri”. Ma Paola Caridi nota sul suo blog Invisiblearabs che è sufficiente guardare le foto per rendersi conto che non si tratta di scontri. E può mai esservi uno scontro in cui morti e feriti sono tutti da una parte e dall’altra neppure una scalfittura?

Fonti israeliane addossano la responsabilità ad Hamas per avere indetto le manifestazioni; ma ambedue le corrispondenti citate testimoniano che Hamas sostiene la “Marcia” così come tutte le organizzazioni politiche, sociali, religiose (comprese le cristiane) laiche, perché la manifestazione è «nata dalla volontà di una popolazione sotto assedio». Si inventano anche impossibili tentativi di scavalcare le barriere.

Comunque si cerchi di occultarla, la verità è che quello che si autoproclama «l’esercito più morale del mondo» ha la tremenda responsabilità di due deliberate stragi di civili disarmati. Solo l’ennesimo veto USA ha risparmiato ad Israele una condanna del Consiglio di Sicurezza dell’Onu ed è solo per l’appoggio di Trump che Netanyahu può rifiutare un’indagine internazionale. C’è almeno da sperare che l’indignazione suscitata nel mondo da queste stragi sconsigli Israele a ripeterne nei prossimi venerdì.

Ma fino a quando varrà la legge del più forte? 

* Nino Lisi è membro della Rete Romana di solidarietà con il Popolo Palestinese e membro della CdB di San Paolo 

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