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PRIMO PIANO. Una politica per il dopo Covid-19

PRIMO PIANO. Una politica per il dopo Covid-19

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 17 del 02/05/2020

No, non è andato tutto bene come si augurava il mantra naif e sincero agli inizi della pandemia, per dare forza soprattutto ai bambini. Con migliaia e migliaia di morti e una catastrofe economica non lo si può dire. Per questo è difficile scrivere con lucidità qualcosa che non sia già stato detto o scritto, o almeno un po’ sensato, su cosa potrebbe essere la politica nei giorni di faticosa ripresa. Complicato perché l’incertezza regna sovrana, la paura dell’inasprimento dei disastri si accentua di giorno in giorno e lo sconforto viaggia, come un pendolo, tra il “nulla sarà più come prima” e – all’opposto – “vedrai che non cambierà niente, lo stesso schifo di sempre!”. Come in ogni ondeggiamento, se ci si attesta sugli estremi non si è più capaci di giudicare con saggezza la complessità nelle sue sfumature.

Quale compito avrà la politica, quell’attività umana collettiva che cerca di trovare le risposte giuste all’esigenze di singoli e gruppi e collocarle in quadro storico di visione futura?

Avrà senza dubbio a che fare con due ordini di problemi fondamentali: primo, trovare risorse adeguate a dare al più ampio numero di persone la possibilità, concreta, non sulla carta, di vivere una vita dignitosa. Vivere, sì, e magari anche “filosofare”, ossia non solo sopravvivere cibandosi, ma anche pensiero, arte, relazioni umane, spirito, ecc. Il più ampio numero di persone. Quindi non la solita piramide in cui emergano solo i pochi fortunati in cima e sotto, chi più chi meno, a vivere condizioni spesso disumane che (oggi aggravate) non consentono affatto di essere definite degne. Più del 10 per cento della popolazione mondiale vive con meno di due dollari al giorno: 767 milioni di persone, e un numero ancora più grande non sta molto meglio. Dopo la crisi quante in più potrebbero essere? Ecco: da un lato la politica si troverà, come e più di prima, a ragionare sul come far fronte ad una nuova, colossale, emergenza povertà.

Dall’altro, faccia della stessa medaglia, vivrà il problema della gestione di una democrazia in palese difficoltà, in diversa misura un po’ ovunque. Crisi rimarcata da parole e gesti di chi vorrebbe definitivamente ucciderla, ossia da coloro che – nel nome della difesa del popolo – inneggiano a leader che non si fanno specie di sospendere o eliminare quelle garanzie che costituiscono il Dna della democrazia: temporalità degli incarichi, trasparenza delle decisioni, diritti delle opposizioni, funzionalità del Parlamento, diritto di associarsi, separazione dei poteri, libertà d’espressione, ecc. Crisi perché, con la sua naturale, fisiologica lentezza, di fronte a un fenomeno come la pandemia, la democrazia fa fatica a rispondere con velocità e quindi vacilla, mostra le debolezze, palesate dagli avvoltoi che le girano intorno, pronti a saltarle al collo. I nomi fateli voi. Ma sì, sono quelli…

Di fronte a questo scenario, le persone che hanno a cuore i due binari, quelli dell’uguaglianza sostanziale e della difesa della democrazia concreta e non formale, dovrebbero preoccuparsi di capire come esercitare un’azione efficace di resistenza su entrambi i fronti, senza privilegiarne uno.

Senza alcuna pretesa di indicare vie risolutive (chi può averle?), con la consapevolezza che ogni idea, strategia, visione sono fatalmente sottoposte al vaglio della realtà, quanto mai feroce di questi tempi (ricordate Francesco? «La realtà è superiore all’idea», LS). Quindi, una buona dose di umiltà renderebbe già il cammino della futura vita politica più praticabile. Auspicio ingenuo? Va bene: ma non mi stanco di predicarlo e praticarlo.

Immagino la Politica (fatta da soggetti, istituzioni e processi decisionali, e non di gretti politicanti) finalmente capace di assecondare percorsi in controtendenza dell’opinione dominante.

Che, intanto, faccia della polis – a tutti i livelli, piccoli, di vicinato, di quartiere, città e zone; fino ad arrivare, via via passando per regioni, Stati e continenti, al globo intero – la Casa comune. La comunità fatta dalla razza umana, che in molti dimenticano essere, nell’universo immenso, piccola, anzi, piccolissima…

Questa catastrofe mondiale, se un senso può averlo avuto, è chiarire, a mio modesto avviso, che le comunità che verranno, dovrebbero necessariamente basarsi su due colonne portanti la Condivisione e la Cooperazione. Sarà una partita ancora più complicata di quella che abbiamo giocato finora, sarà la sfida centrale per la politica, non dei mesi, ma degli anni che ci aspettano. «Senza una visione d’insieme non ci sarà futuro per nessuno», ha ammonito il papa nella omelia della domenica in Albis.

Concretamente ci sono mille esempi che si possono fare. Nei giorni dell’attesa ripartenza, alcuni hanno, per esempio, messo in dubbio la sopravvivenza dello sharing (la modalità, diffusasi velocemente in vari paesi per condividere beni e servizi, conciliando costi e benefici): in epoca di distanza sociale forzata – dicono – dovremo essere necessariamente più guardinghi nel condividere con altri strumenti (a partire dall’auto) a rischio di contagio. Ma se anche fosse vero per alcuni beni (e – perché no – se il risparmio è significativo, in una crisi economica devastante, non sarà il caso di approfondire sistemi di sicurezza pur di farla vivere?), la sharing/condivisione, quando è vera, non nasconde nessuna insidia. Anzi, per una molteplicità di beni e servizi (energia, programmi informatici, beni condominiali, ecc.), genera, inoltre, un indotto di reciproca (pur prudente e graduale) fiducia, che sarà una risorsa fondamentale per ripartire. In più, come accade per la condivisione dei beni comuni che con patti e regolamenti (v. labsus.org), riabilitano e rilanciano il bene alto e forte del sentimento di appartenenza ad una comunità. Condivisione, all’osso, è il principio che chi ha di più mette il suo (e non solo il superfluo) a disposizione di chi ha di meno. Detto per inciso: è il principio dell’impropriamente definita “patrimoniale”, tassa, contributo, chiamiamola come vogliamo, ma che, ridotto a quel che è, per poco più del 2% della popolazione, francamente non mi pareva affatto così scandalosa… Ma tant’è! Ma condivisione è anche il principio basilare della cosiddetta democrazia deliberativa (conoscere, studiare, decidere). Sembra la più grande e ingenua delle utopie, in queste ore. Ma condannare il nostro stare insieme futuro, al semplice portare a casa la pagnotta, implicherebbe, di fatto, la delega totale e insindacabile ai pochi potenti di turno. Ergo a quelle leadership elette solo perché hanno solleticato gli istinti più bassi, ma poi, alla prova dei fatti, si sono rivelate incapaci o peggio. Anche qui, sì, fate voi i nomi, mondiali e sono quelli...

Poi, cooperazione. Lo dico ma ho qualche dubbio sull’esito: si potranno convincere i cosiddetti sovranisti che oggi, più che mai, “da soli non si va da nessuna parte”? Che le frontiere non possono esistere, il virus le ha abbattute tutte, e se esistono non proteggono nessuno e servono solo a condannare chi fugge dalla guerra e dalla fame? Quindi cooperazione tra lavoratori, tra città, tra regioni (ah, quant’enfasi sull’autonomia regionale da quegli stessi soggetti che oggi gridano di essere stati lasciati soli…!), tra aziende, tra associazioni del Terzo settore, tra Stati (del rifare e rilanciare l’Europa, vogliamo parlarne?). E cooperazione mondiale, perché gli organismi creati a fatica dopo la Guerra sono risultati fragili oggi non per il troppo che hanno rappresentato, ma proprio per la poca autorevolezza (e risorse, spesso – diciamolo – pure sprecate…), che i singoli Stati, specie i più potenti, hanno conferito loro. E infine, su tutte, la cooperazione tra Stati più ricchi con quelli più poveri. Oso (a rischio di qualche insulto, ma non dai lettori di questo giornale che immagino d’accordo): non riduciamo i fondi per la cooperazione internazionale, anche in temi di pesante magra. In gran parte si tratta di progetti seri il cui beneficio, dopo, spesso ritorna (medici albanesi e cubani, docet…).

In fondo è, per tutte e tre le chiavi, soprattutto una questione di fiducia. Senza la quale nessuna reale ripresa sarà possibile. Fiducia verso gli altri, verso le istituzioni, verso la politica, verso la comunità nella quale mi realizzo: Città, Stato, Europa essa sia. Un dato: da una ricerca SWG effettuata il 15 aprile su quanto sia ipotizzabile un reale cambiamento della società e degli individui dopo il dramma del Covid, è emerso sostanzialmente che la maggioranza delle persone pensa che in fondo non varieranno molto né persone aziende. Con una differenza: per il 22% le prime saranno peggiori (contro il 17 più ottimista); ma ancor più scettico è il pensiero sulle aziende: peggioreranno per il 33 (miglioreranno solo per il 17 “saranno più etiche e attente alle persone”). E per la scommessa su sé stessi c’è chi risponde (il 33% “io sarò migliore”, contro il 9 che si sente già incattivito).

La Politica saprà dare soddisfazione a chi – come chiamarli – professa ottimismo? 

Vittorio Sammarco è giornalista e membro della redazione di C3dem-Costituzione, Concilio Cittadinanza  

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