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Se ne va un pezzo di “Adista”. Anzi, rimane con noi. È morto Giovanni Avena

Se ne va un pezzo di “Adista”. Anzi, rimane con noi. È morto Giovanni Avena

Tratto da: Adista Notizie n° 32 del 18/09/2021

40782? ROMA-ADISTA. Nel momento in cui lo scriviamo ci pare impossibile. Eppure la lunga malattia che ne ha segnato gli ultimi anni di vita ci avrebbe dovuto preparare. Giovanni Avena si è spento serenamente il 4 settembre.

Giovanni Avena non ha fondato Adista, ma è come se lo avesse fatto. Se non l'ha fondata, l'ha rifondata. È stato infatti tra i protagonisti della trasformazione della testata (1979) da agenzia vicina alla Sinista Indipendente a cooperativa di soci impegnati nell'idea di una informazione libera dai condizionamenti del potere economico, ecclesiastico, partitico, profondamente incarnata in una prospettiva evangelica, di sinistra, laica e pluralista. In questi casi si dicono spesso frasi tipo "senza Giovanni Adista perde una parte importante della sua storia". Ma non è così. Adista è Giovanni, nel senso che il suo contributo ha profondamente cambiato il giornale e la vita di ciascuno di noi che lo ha incontrato, conosciuto, stimato. Ciascuno di noi del collettivo di Adista porta dentro qualcosa della sua testimonianza umana, politica ecclesiale. E ogni giorno nel lavoro che facciamo, nelle relazioni che abbiamo, qualcosa di Giovanni vive attraverso di noi. Nulla di lui è perduto, se non la possibilità, che abbiamo avuto anche nel lungo periodo della sua malattia, di confrontarci con lui, di avere il suo punto di vista sulle vicende attuali, sulle questioni della gestione della cooperativa, sulle iniziative da prendere per rilanciare la nostra informazione.

Giovanni era nato a Palermo nel 1938. Entrato in seminario minore, divenne prete e religioso della Congregazione del Boccone del Povero. Nella sua formazione – erano gli anni dell'immediato post Concilio – fu determinante l'incontro e la conoscenza di Carlo Maria Martini (con cui mantenne i contatti sino alla morte del cardinale, avvenuta nel 2012) – che negli anni ‘60 insegnava all'Istituto biblico a Roma. A Palermo, dove divenne parroco della parrocchia del Cuore eucaristico di Gesù in corso Calatafimi (1971), poco dopo che il card. Pappalardo – che inizialmente lo teneva in grande considerazione – era diventato arcivescovo della diocesi, era un prete stimato e di grandi prospettive. Poi le sue posizioni (a livello politico ed ecclesiale, a partire dalla sua posizione a favore del divorzio) gli alienarono progressivamente il favore della Curia. A ciò si aggiungeva la sua posizione intransigente rispetto al malaffare della Democrazia Cristiana e al connubio tra Chiesa, politica, criminalità mafiosa.

Ma soprattutto, la vita di Giovanni cambiò il giorno in cui volle entrare nell'’ospedale psichiatrico che era collocato proprio al centro del territorio parrocchiale, tra via Pindemonte e via Giuseppe Pitrè, che erano esattamente i confini della parrocchia. Divenuto parroco, il suo primo pensiero fu di entrare in quella struttura, con lo stesso spirito con cui voleva entrare nelle case dei parrocchiani per fare amicizia, aprire un dialogo con loro. Si accorse di una situazione ai limiti dell'immaginabile, oltre ogni concetto di dignità umana. Giovanni iniziò così una lunga battaglia per i diritti umani calpestati di quei malati che nemmeno venivano considerati esseri umani. Lì dentro, anche tanti bambini. Bambini dai 7-8 anni in su.

Attraverso il suo impegno e con molta fatica Giovanni riuscì a far uscire, almeno per qualche ora, alcuni dei malati reclusi, a fargli fare qualche attività, mettendoli in contatto con la parrocchia e il quartiere. Nel frattempo, saldando la sua iniziativa anche con le lotte di Basaglia e di altri psichiatri democratici per la chiusura dei manicomi, denunciava le terribili condizioni in cui versava l'ospedale.

Alla fine riuscì a liberare almeno i bambini da quella realtà. Ma pagò il prezzo dell'allontanamento dalla parrocchia e dalla diocesi. E molti dei malati che aveva liberato furono nuovamente internati nell'ospedale. Fino alla legge che finalmente chiuse i manicomi. Ma per alcuni di loro fu ormai troppo tardi.

Era il 1977 e Giovanni, che riesce a ottenere l'incardinazione nella diocesi di Frascati, trova casa a Roma. Si reca ad Adista, che aveva parlato di lui negli anni delle sue lotte come parroco di punta a Palermo, e inizia a collaborare. Da lì, rapidamente, diventa un punto di riferimento per la redazione e il braccio destro (e pure il sinistro) del presidente della cooperativa e direttore storico di Adista, Franco Leonori. Quando Franco Leonori va in pensione, assume direttamente un incarico – quello di presidente e amministratore – che già nei fatti esercitava da tempo, mentre Eletta Cucuzza prendeva la direzione della testata.

Di esercitare il ministero smise progressivamente, dalla metà degli anni ‘90. Soprattutto dopo l'arrivo nella diocesi di Frascati di mons. Matarrese, succeduto a mons. Luigi Liverzani, che lo aveva accolto benevolmente. Alla Chiesa cattolica non chiese mai nulla. Non voleva la congrua e l'8 per mille. Non volle nemmeno chiedere la dispensa dal ministero, per non sentirsi nell'obbligo di giustificare le sue scelte e di farne giudicare la bontà a una gerarchia a cui non riconosceva questo diritto. Conobbe in quegli anni Ivana Santomo, che sarebbe diventata sua moglie nel 2006, con cui ha vissuto una splendida storia d'amore e che lo ha accudito con enorme dedizione fino alla fine.

Per oltre 40 anni Giovanni è stato il punto di riferimento di una galassia di realtà, personalità, intellettuali del variegato mondo della sinistra cristiana. Sono pochi quelli che non lo hanno chiamato per avere un commento, un parere, un consiglio. Rispondeva a tutti, giornalisti vaticanitsti compresi (che lo chiamavano ogni volta che accadeva qualcosa di rilevante per avere la sua puntuale e radicale lettura dei fatti) con generosità e senza mai pretendere nulla per sé, nemmeno che venisse citato. O che venisse ricordato il suo contributo alla stesura di centinaia di lettere, discorsi, comunicati, articoli, appelli che ha contribuito a promuovere o a far circolare.

Per raccogliere sottoscrizioni per il giornale ha letteralmente girato l'Italia. Spesso in un weekend partecipava a due, tre eventi in città diverse. Viaggiava in treno, dormiva in cuccetta, parlava di Chiesa, attualità, politica. E poi chiedeva a tutti di abbonarsi a Adista, affinché le idee che sentiva circolare negli incontri a cui partecipava avessero in Adista lo strumento per diffondersi.

Per il collettivo di Adista è stato il punto di riferimento fondamentale sia dal punto di vista organizzativo, che da quello intellettuale. Non si chiudeva numero a Adista senza prima portare le bozze del giornale a Giovanni, affinché rivedesse la lunghezza dei pezzi, la loro disposizione, e la loro titolazione. Lui suggeriva, tagliava, trovava sempre titoli fulminanti (i titoli di Adista per moltissimi anni sono stati un suo marchio di fabbrica).

Quando, ormai malato, ha progressivamente lasciato le sue responsabilità, delegandole a altri, si è percepito tutto l'impegno, il peso, l'importanza di ciò che aveva fatto, con dedizione e nell'ombra. Solo facendo ciò che aveva fatto lui ne abbiamo percepito appieno l'importanza e la straordinarietà.

Giovanni era stato sul punto di morire molte volte. E tutte quante si era ripreso. Il suo testamento lo aveva già scritto nel 2015, durante una delle crisi che aveva attraversato. Non lo aveva mai voluto cambiare. Lo pubblichiamo qui di seguito 

LE MIE VOLONTÀ POST MORTEM

IL MIO GRAZIE A DIO, ALLA VITA E A QUANTI MI HANNO AMATO

Ho creduto ardentemente nel Dio di Gesù Cristo che ho sentito costantemente presente nella mia vita e nella vita di quelli che mi hanno accompagnato con affetto e stima; ma anche di quelli che non hanno avuto da me quanto era loro diritto avere o si aspettavano da me. Ciascuna e ciascuno di essi mi hanno beneficato con generosità, amicizia e sinceri rimproveri. Per questo li saluto e li ringrazio.

Ho creduto anche nella Chiesa come comunità di padri, madri, fratelli, sorelle, amici e avversari. Non ho più creduto, invece, nella Chiesa dal volto e dalle azioni istituzionali: questa non mi è stata madre, ma neppure matrigna. Fin da ragazzo le avevo dedicato i miei ideali e il mio entusiasmo giovanile, ma quando, adulto, ho voluto realizzare con la pochezza delle mie capacità intellettuali ma con la generosità della mia esistenza, per e con le persone incontrate nel mio servizio umano e spirituale, sono stato prudentemente demotivato e pesantemente angariato fino all'emarginazione e al ripudio. Penso ancora con dolore ai miei amici piccoli e adulti dell'Ospedale psichiatrico di Palermo, luogo di torture e sofferenze inaudite, dimenticati da tutti, Chiesa compresa, perché soggetti inutili alla società, e pericolosi per la convivenza civile. I miei superiori ecclesiastici mi impedirono, destituendomi dal servizio parrocchiale, di condividere con le donne e gli uomini del quartiere, la lotta per la dignità e i diritti umani, dei reclusi entro l'Ospedale psichiatrico. Il dolore di quella obbedienza mi ha trafitto e ha interrotto la mia comunione con i gestori istituzionali della Chiesa. Quella ferita non si è mai cicatrizzata e ancora sanguina. Per questo, alla mia morte, non voglio essere oggetto di alcuna pratica religiosa e funerale liturgico "somministrati e concessi" da una struttura di Chiesa ipocrita, povera di misericordia e ricca solo di potere e arroganza.

Pertanto, non voglio alcun funerale ecclesiastico e sarò felice solo di un sobrio momento laico di memoria e preghiera, nell'ambito della Comunità cristiana di base di S. Paolo dove, negli anni ottanta, appena cacciato dalla Chiesa di Palermo e dalla Congregazione del Boccone del Povero, ho potuto ritrovare la pace e la dignità che mi erano state sottratte. Desidero anche che il mio corpo non venga "depositato" in un qualsiasi cimitero. Dispongo, invece, che venga cremato e che le ceneri siano disperse. Grazie di cuore a tutte e a tutti che comprenderanno queste mie volontà e mi perdoneranno se non le condividono.

Desidero salutare con grandissimo affetto i miei compagni e compagne di lavoro di Adista. Non mi bastano le parole per ringraziarli del bene che mi hanno voluto, della generosità con cui mi hanno sopportato quando non sono stato all'altezza delle loro attese: per questo chiedo scusa a tutte e a tutti, e confido, come sempre ho confidato nella benevolenza. Saluto e ringrazio tutte tutte, tutti tutti ho incontrato negli ambienti nei quali ho militato, lavorato e condiviso fatiche, speranze, sconfitte e risultati. Abbraccio e bacio tutte e tutti.

(Giovanni Avena - Roma, 13 gennaio 2015)

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