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Balducci e Buonaiuti. Le radici teologiche ed ecclesiali del post-teismo

Balducci e Buonaiuti. Le radici teologiche ed ecclesiali del post-teismo

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 28 del 05/08/2023

In un suo recente articolo (“La profezia di Ernesto Balducci: superare le religioni per far nascere l’‘uomo planetario’”, Adista Documenti n. 23 del 1 luglio 2023) Claudia Fanti sottolinea il carattere profetico delle intuizioni dell’ultimo Balducci e mette in evidenza come nell’attuale riflessione teologica – in particolare in quel paradigma post-religionale sviluppato da teologi quali Josè Maria Vigil, Roger Lenaers e John Shelby Spong – sia possibile rinvenire echi significativi del suo pensiero: lo spunto è offerto da una conferenza tenuta da Marco Beconi, insegnante presso l’Istituto Conestabile-Piastrelli di Perugia il 30 maggio scorso, sulla svolta antropologica che caratterizza una delle ultime e più significative opere di Balducci, L’uomo planetario (1985).

L’occasione mi sembra favorevole per evidenziare l’assonanza degli esiti finali della riflessione di Ernesto Balducci con quelli di un altro grande profeta del nostro recente passato, Ernesto Buonaiuti, del quale per le edizioni Gabrielli è stato recentemente ripubblicato un testo del 1932, La chiesa romana (Adista Segni Nuovi n. 24 del 8 luglio 2023).

Nell’articolo di Claudia Fanti si riprendono alcuni elementi fondamentali della riflessione di Balducci: la sua esigenza di ritornare a un Vangelo non deformato dall’incontro con la filosofia greca («Quando sento ripetere che il messaggio di Gesù è universale perché egli è il Logos nel quale, dal quale e per il quale tutte le cose sono state create, una specie di immenso sbadiglio mi sale dal profondo, come dinanzi a una verità resa vacua dall’abuso»), il suo rifiuto del dogmatismo e del suo legame con il potere («Tra me e Gesù ci sono sette pareti di ideologia, perché io ho imparato il suo nome con la spada in mano, come voleva la pedagogia dell’intransigenza»), il ruolo positivo che assegna alla scienza nel processo di demitizzazione del cristianesimo («La critica scientifica distrugge la religione in quanto superstizione, e cioè in quanto cintura di salvataggio che garantisce privilegi e sopraffazioni»). Elementi, questi, che portano Balducci a postulare il superamento delle religioni istituite e ad auspicare la nascita di un “uomo planetario” («L’uomo vero a cui dobbiamo convertirci non sta lungo il perimetro delle culture esistenti, sta più in alto, ci trascende, con un trascendimento che è già inscritto nelle possibilità storiche, anzi già prende forma, qua o là»); un uomo che può ormai definirsi post-cristiano, non perché ha voltato le spalle a Gesù di Nazareth, ma perché è riuscito a decifrare l’universalità del suo messaggio («È vicino il giorno in cui si comprenderà che Gesù di Nazareth non intese aggiungere una nuova religione a quelle esistenti, ma, al contrario, volle abbattere tutte le barriere che impediscono all’uomo di essere fratello dell’uomo e specialmente all’uomo più diverso, più disprezzato»). È questa una svolta antropologica che non comporta una eclissi della fede ma che costituisce il presupposto per una fede più adulta, aperta a una vera fratellanza universale al di là delle differenze religiose, etiche e culturali («Il vero culto di Dio è nell’essere di aiuto all’uomo, sempre più libero dalla necessità, ma proprio per questo sempre più fragile e precario negli spazi dell’universo»).

Ebbene, tutti questi temi sono già presenti nella riflessione dell’ultimo Buonaiuti. Il testo del 1932 cui abbiamo fatto riferimento, La Chiesa romana, ne è appunto un esempio. Bastano pochi cenni. Ad esempio, sulla commistione tra filosofia e teologia, Buonaiuti afferma: «La dottrina di Roma può paragonarsi ad una immensa piramide che dalla base della raffigurazione metafisica dei fenomeni cosmici e delle percezioni umane sale, senza la più esigua soluzione di continuità, fino all’apprendimento delle misteriose realtà della vita e dell’azione divine». Oppure, sul legame tra dogmatismo e potere: «La Chiesa di Roma proclama, recisamente ed intransigentemente, di essere da due millenni la depositaria unica dell’insegnamento del Cristo e la amministratrice insurrogabile della sua virtù salvifera». Sul positivo ruolo della scienza nella purificazione della religione: «Tutta impigliata nei teoremi irreformabili della sua teodicea, la Chiesa è imprigionata in una raffigurazione filosofica del reale battuta irrimediabilmente dall’esperienza scientifica. Non si può più schematizzare il divino e il suo operare misterioso sulla traccia di una ricostruzione dell’universo in conflitto con i dati intuitivi della quotidiana esperienza e della tecnica empirica». E, ancora, sulla religione ridotta a cintura di salvataggio: «Immensa compagnia di assicurazione sui rischi dell’oltretomba la Chiesa romana possiede oramai un perfetto armamentario per assicurare ai suoi fedeli il tranquillo passaggio nel mondo, in vista del raggiungimento della beatitudine infinita».

Infine, nelle pagine conclusive del volume, Buonaiuti traccia quella che a suo parere è l’unica traiettoria possibile per la Chiesa romana: «È completamente inutile ormai ch’essa si attardi su posizioni astratte e su rivendicazioni disciplinari che lasciano indifferente e gelato il cuore degli uomini. Un solo assioma essa deve ricordare e proclamare: che l’uomo è una miserevole creatura, impastata di peccato, di dolore e di morte. Una sola visuale essa deve dischiudere all’occhio appannato e semispento delle generazioni contemporanee: la visuale di un Regno di pace e di giustizia, per essere ammessi nel quale non si richiede che una tessera, quella dell’avvenuta iniziazione alla palingenesi della dedizione e dell’amore. Che cosa più importa ormai all’umanità delle vecchie discrepanze dogmatiche, anzi, che cosa importa ormai ad essa delle stesse trascrizioni dogmatiche dei primordiali valori evangelici, svuotate di ogni significato normativo, di ogni efficienza pragmatica? Di principi elementari essa ha bisogno; di speranze ardenti ha fame; di stimoli rinnovatori sente più pungente la brama. E invece Roma si inaridisce, ribadendo, con uniformità monotona, le sue stilizzate formulazioni teologali; si incenerisce nel pulviscolo della sua casistica burocratica. Troverà mai il coraggio di guardare in fondo alla sua anima e di scoprirvi le energie che l’hanno creata e sorretta nei secoli? Qualora questo coraggio dovesse definitivamente e irreparabilmente mancarle, il suo destino sarebbe, né più né meno, quello tragico della sinagoga».

Un passaggio, quest’ultimo, dal quale si intravede già chiara una svolta antropologica che raggiungerà la sua più completa espressione in uno scritto posteriore – “Il bisogno mondiale della religiosità”, discorso tenuto al World Congress of Faith di Oxford nel luglio del 1937 e pubblicato l’anno seguente sulla rivista Religio – nella quale la sua riflessione, in dialogo con i migliori sviluppi della filosofia a lui contemporanea, da Spencer a Bergson, abbandona la Chiesa romana per estendersi a tutte le religioni e al fenomeno religioso in generale. «Le vecchie fedi sono logorate dal millenario consumo. Le tradizioni costituite sono impoverite e rese inefficaci dal loro stesso processo di troppo minuta e casistica determinazione. Perché esse possano riguadagnare la loro capacità edificativa occorre evidentemente riportarle alle loro fonti originarie, risaggiarle su quelle pietre di paragone che sono i valori centrali della religiosità umana. Per usare il linguaggio del Bergson, mai come oggi la religiosità e la morale statiche debbono sboccare nella religiosità e nella morale dinamiche, che non si sottopongono alla delimitazione rigida delle formule dogmatiche e delle discipline burocratiche, ma cercano la libera via della comunicazione universale nei misteri di Dio». Secondo Buonaiuti per salvarsi da questo universale naufragio delle fedi «occorre riscoprire nelle fedi, la Fede», una Fede che sappia svincolarsi da ogni tradizione metafisica e recuperare il senso sacrale della vita in tutte le sue manifestazioni. «Dio – continua Buonaiuti – non lo dobbiamo andare a cercare lontano nella produzione inconsueta di fatti miracolosi, perché la vita è tutta un miracolo e l'universo è tutto un'odissea di prodigi; la convinzione profonda che Dio non è al termine di una serie constatabile di cause, come causa prima e motore immobile; la convinzione profonda che Dio è piuttosto in ogni incontro di anima, che Dio è nella pupilla del fratello sofferente, come nelle vibrazioni di un cuore esacerbato: ecco la fede, ecco l'unica fede salutare. La fede, una fede degna di questo nome, deve oggi più che mai sforzarsi di riempire l'abisso che la nostra presuntuosa metafisica e le nostre aride dogmatiche hanno scavato fra noi e il Padre che è nei Cieli».

Sia Balducci che Buonaiuti, quindi, approdano all'idea di un superamento delle religioni costituite, viste oramai come un ostacolo allo sviluppo della spiritualità individuale e come un fattore di divisione tra i popoli; e i loro percorsi speculativi, pur seguendo strade differenti, trovano nell'antropologia e nell'etica un terreno comune. L’analisi dei punti di contatto tra questi due grandi testimoni necessita sicuramente di maggior spazio e maggior approfondimento; tuttavia, queste poche citazioni sono quantomeno sufficienti a dimostrare come le intuizioni profetiche di Buonaiuti abbiano attraversato, sia pur sotto traccia, la miglior teologia post-conciliare e stiano tuttora innervando l'attuale ricerca teologica. Motivi, questi, più che sufficienti per restituire al prete romano lo spazio che merita e rimuovere quella damnatio memoriae che ancora incombe su di lui.

Pietro Urciuoli è socio del Gruppo SAE di Avellino/Salerno. Laureato in filosofia, ha pubblicato “Francesco d’Assisi. Giullare, non trovatore” (EMP, Padova 2009) e vari contributi per periodici di rilevanza nazionale. Con Vittorio Bellavite ha curato la riedizione del volume di Ernesto Buonaiuti “La Chiesa romana”, Gabrielli editore

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