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Seconda

Seconda "Rilevazione" sugli abusi della CEI: la "via italiana" è un vicolo cieco

Tratto da: Adista Notizie n° 40 del 25/11/2023

41655 ASSISI-ADISTA. Che la “via italiana” di contrasto agli abusi disegnata dalla Cei del card. Matteo Zuppi faccia acqua da tutte le parti è apparso chiaro durante la conferenza stampa di chiusura dell’Assemblea straordinaria della Cei, il 16 novembre ad Assisi (v. notizie precedente e seguente). Delle 5 linee che erano state illustrate nel 2022, ben poco è stato realizzato, e quanto lo è stato si è dimostrato – al netto della retorica istituzionale – evidentemente poco efficace. Oltre al fatto che appare sempre molto carente la comunicazione con i media: il testo integrale della “Seconda rilevazione” (guai a chiamarlo “Report”) della Cei sulla rete territoriale per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili è stato consegnato ai giornalisti soltanto a fine conferenza stampa. Una decisione non casuale, dal momento che la sintesi distribuita qualche minuto prima che l’evento prendesse l’avvio è, nella sua semplificazione, chiaramente orientata a fornire un quadro molto più roseo di quello che il documento riflette: a leggere bene i dati, incrociandoli tra loro e con quelli del Report dello scorso anno (v. Adista Notizie n. 40/22) e a fare le domande giuste, appare chiaro che molte cose non funzionano nella “via italiana” di contrasto agli abusi. Ma andiamo con ordine.

Metodi e obiettivi

La Rilevazione intende aggiornare i dati relativi ai Servizi diocesani /interdiocesani/regionali per la tutela dei minori e ai Centri d’ascolto. Lo fa elaborando gli esiti di un questionario online somministrato ai referenti diocesani di tali servizi e ai referenti delle Regioni ecclesiastiche, riferito alla natura delle strutture attivate e alle attività in essere. I dati sono stati elaborati, come già lo scorso anno, dall’Università Cattolica del Sacro Cuore - sede di Piacenza. La presenza sul territorio Se i servizi sono presenti in tutte le diocesi, i dati ricevuti sono relativi a 186 risposte corrispondenti a 190 diocesi (al netto di quelle accorpate). Qui il dato è positivo: la copertura è aumentata, passando dal 73% dello scorso anno (con oltre ¼ delle diocesi “latitanti”) al 92,2%: è cresciuta la partecipazione soprattutto delle diocesi del Sud. Il numero dei Centri d’ascolto è cresciuto ma non troppo, passando dai 90 del 2021 agli attuali 108; diversi coprono più diocesi raggruppate. Molta attenzione e spazio sono dedicati alla definizione delle figure dei referenti (ancora per lo più sacerdoti) e alla struttura del Servizio, che rivela una massiccia partecipazione dei laici (soprattutto nelle équipe di esperti di supporto – 70,4%), dove la componente femminile è superiore a quella maschile) quanto alle attività svolte dal Servizio diocesano, sono molto cresciute le occasioni di formazione (quasi 90% del totale, con 23mila partecipanti nel 2022, raddoppiati rispetto al 2021). Molto carente appare la collaborazione con le congregazioni religiose (attive solo nel 3,8%, in diminuzione addirittura rispetto al 2021), con organizzazioni non ecclesiali (16,7%) e con tavoli istituzionali civili (14%). In calo le attività di formazione per i membri del Servizio diocesano (dal 58,8% delle diocesi nel 2021 al 47,3% attuale). Tra le iniziative, sono in aumento quelle relative a abusi e maltrattamenti, ad abusi di coscienza e psicologici, stalking, abusi e pedopornografia online; in calo quelle inerenti a normative canoniche e civilistiche e all’ascolto delle vittime.

“Punti di forza e debolezza”: le diocesi si bocciano da sole

Chiamate a fare un’autovalutazione sui servizi svolti con un voto da 1 a 10, sono le stesse diocesi a dare complessivamente voti molto bassi: su 18 voci, la metà risulta insufficiente, nella maggioranza dei casi peggiorata rispetto all’anno passato, soprattutto per ciò che riguarda le attività di formazione, le relazioni con il seminario, con le parrocchie, con le associazioni e movimenti ecclesiali e non, con le congregazioni religiose, con gli enti locali. La voce con il voto più alto (un mediocre 6,6) riguarda la sensibilità da parte di educatori e catechisti.

Ancora più severo il giudizio dei Servizi regionali: su 14 voci, soltanto una risulta avere la sufficienza (le relazioni con i referenti diocesani si prendono un 6,7); erano quattro l’anno precedente. Ad avere i voti più bassi sono le relazioni con altre istituzioni, ecclesiali e non, ma persino le attività di formazione – fiore all’occhiello della Cei – si prendono un 5,1.

Centri di ascolto

Presenti ancora solo nel 77,7% delle diocesi (160 su 206), a guida per lo più laica (76%) con competenze soprattutto di carattere psicologico (28,3%), nell’80% supportati da un’équipe di esperti, vedono un calo nella presenza di giuristi e canonisti. Ma che cosa fanno di preciso i centri d’ascolto? Qui c’è la prima grande mistificazione veicolata: viene esaltato dalla Cei il balzo in avanti, nel 2022, dei contatti ricevuti (86 nel periodo 2020-2021, 374 nel 2022), fino ad affermare in conferenza stampa, che «dove non arriva lo Stato c’è la Chiesa», come ha detto enfaticamente la coordinatrice del Servizio nazionale tutela minori Emanuela Vinai. Occorre affiancare due dati: a livello nazionale, quasi due terzi delle diocesi ha avuto in media zero contatti (con il picco dell’85,7% delle diocesi del sud); è la stessa Rilevazione ad ammettere che «l’incremento così importante nel numero di contatti è da ricondurre a due sole diocesi, una in Sicilia e una in Sardegna». Di cosa stiamo parlando, allora?

Per la Cei, il dato potrebbe addirittura essere positivo, indicando «nessuna necessità di rivolgersi al Centro d’Ascolto», mentre l’ipotesi che sia riferibile a una carenza della struttura o alla reticenza delle persone a rivolgersi ad essa è considerata poco attendibile. Sta di fatto che dei 374 contatti, quelli riferibili a “vittime presunte” sono solo 46. Inoltre, ed è il secondo dato da tenere presente, tali contatti (per l’85% telefonici) hanno cambiato radicalmente motivazione, rispetto allo scorso anno: se nel 2021 riguardavano nel 53,1% una denuncia all’autorità ecclesiastica, ora questa percentuale è scesa al 18,1%, mentre è aumentata la richiesta generica di informazioni (81,9%). Perché? Ancora la Cei: forse è diminuito il fenomeno degli abusi…

I casi segnalati

Sta di fatto – ed è il dato forse più eclatante della Rilevazione, preso a sé – che il dispiegamento di forze della Cei sul territorio non produce l’effetto sperato di raccogliere segnalazioni: se nel biennio 2020-2021 (peraltro condizionato dalla pandemia) le presunte vittime erano 89 e 68 gli abusatori, nel 2022 sono registrate 54 vittime e 32 abusatori. Anche dimezzando i valori registrati nei due anni di pandemia, l’aumento non si vede: anzi, il numero di casi del 2022 è inferiore alla metà rispetto alla rilevazione precedente. Di questi 32 casi, ben 14 sono riferiti al 2022; gli altri sono raggruppati nella generica categoria «passato» («per noi non esiste prescrizione», ha pontificato il presidente Cei card. Matteo Zuppi in conferenza stampa, omettendo di precisare che, quando i casi di abuso sessuale atterrano al Dicastero per la Dottrina della Fede, la prescrizione di 20 anni c’è eccome; dunque, la mancanza di prescrizione della Chiesa sembra giocarsi su un piano morale e non giudiziario). «La Chiesa ascolta, accoglie, accompagna», gli ha fatto eco Vinai. Ma non risarcisce: nessun cenno infatti è stato fatto in tal senso dopo che nel maggio 2022 l’argomento era stato rapidamente cestinato da Zuppi.

A parte il fatto che nel report, erroneamente, si fa un pasticcio, mettendo a confronto i dati delle vittime dello scorso biennio con quello degli abusatori del 2022 (p. 59; e non è l’unico strafalcione), appare immediatamente chiaro che le denunce sono in netta diminuzione. Un dato che il report recepisce, compensandolo con il numero (aleatorio, come abbiamo visto) di contatti, e che Vinai in conferenza stampa ha attribuito «ai diversi tempi di maturazione» dell’abuso.

Le vittime

Le segnalazioni arrivano da 54 persone e si riferiscono soprattutto a «comportamenti e linguaggi inappropriati», toccamenti, molestie sessuali; in crescita gli abusi spirituali, di coscienza, psicologici, le violenze psichiche, lo stalking; il contesto più comune è la parrocchia; 25 avevano tra i 15-18 anni all’epoca dei fatti; un terzo era maggiorenne, 4 avevano tra i 5-9 anni e 4 tra 10-14; due sono bambini molto piccoli, tra 0 e 4 anni (categoria assente nel primo report). Questo nella Rilevazione. Nella sintesi offerta ai giornalisti (e in conferenza stampa), invece, nessuna traccia della fascia 0-14 (che insieme somma 10 delle 54 vittime), che configura la vera pedofilia. 44 su 54 vittime sono di sesso femminile, ma manca nella rilevazione un dato interessante, cioè – come è probabile che sia, come generalmente attestato da studi – se i maschi siano le vittime più piccole. Quanto alle azioni di accompagnamento offerte alle vittime, oltre a quello psicoterapeutico (10 casi su 54), solo in nove casi è stata offerta una informazione sull’iter della pratica. Gli autori L’età media del presunto autore (che in 31 casi su 32 è maschio) è di 43 anni; l’età è più alta al Nord (52) e più bassa al sud (38). Solo in 12 casi i Centri d’ascolto conoscono i passi canonici successivi, tra indagine previa (5 casi), archiviazione per vari motivi (3), provvedimenti sanzionatori (2) e solo in due casi il fascicolo è stato inviato al Dicastero per la Dottrina della Fede. Solo in 6 casi è nota la denuncia in sede civile.

Oltre la Rilevazione: e le altre “strategie”?

Un’altra linea di contrasto annunciata era la collaborazione tra CEI e Dicastero per la Dottrina della Fede rispetto ai 613 fascicoli depositati presso quest’ultimo: una indagine la cui elaborazione la Cei avrebbe affidato a due enti indipendenti, l’Istituto degli Innocenti di Firenze e il Centro interdisciplinare sulla vittimologia e sulla sicurezza dell’Università di Bologna. Il condizionale è d’obbligo perché la ricerca, sbandierata dal segretario della Cei mons. Giuseppe Baturi, un anno fa, come “la prima ricerca in programma”, voluta per testare la capacità della Chiesa di far emergere i dati, la cui definizione era imminente, in realtà non è nemmeno partita. «Cei e Dicastero sono in dialogo costante e continuo», è il mantra ripetuto in modo identico dai rappresentanti Cei presenti alla conferenza stampa di Assisi, ma, come ci ha confermato Vinai, un’intesa formale non è ancora stata siglata. E i due istituti scientifici, nel frattempo, possono solo mettere a punto questioni metodologiche: starebbero, viene detto ai giornalisti, «definendo le griglie di lettura». Questa collaborazione con il DDF è cosa ben diversa da quella già siglata con la Pontificia Commissione per la tutela dei minori, che pure fa parte del DDF (la cosiddetta “sesta linea”, messa a punto in tempi recenti).

Lo scorso maggio, poi, la Cei ha dato vista a un Osservatorio di vittime che, a vario titolo «accompagneranno il lavoro del Servizio nazionale per la Tutela dei minori». Si è fatto notare a Vinai che in tale contesto non era stata né informata né consultata, tantomeno invitata l’associazione di vittime Rete l’Abuso, l’unica in possesso di un data base di 13 anni degli abusi clericali (la Cei non ne possiede uno, come ci ha confermato Vincenzo Corrado direttore dell’Ufficio Comunicazioni della Conferenza episcopale), con la quale i vescovi non sembrano interessati a unire le forze. Vinai ha risposto «non entro nel merito dei dati di altri associazioni».

E un’altra linea riguarda un altro Osservatorio, quello contro la pedofilia e la pedopornografia istituito dal Ministero per la Famiglia, al quale la Cei è stata invitata a partecipare. A oggi, nessun riscontro pervenuto in proposito. Un certo nervosismo, comunque, è stato rilevato di fronte a certe domande scomode. Come quella posta da Federica Tourn di Domani (v. edizione del 17 novembre) al card. Zuppi riguardante le sanzioni comminate a vescovi insabbiatori. Zuppi si è riparato dietro al motu proprio di papa Francesco Vos estis lux mundi, che vincola moralmente i vescovi a denunciare casi di abusi e alla rassicurazione che, nel caso, si sarebbe proceduto a punire il vescovo che copre. Il fatto, però, è che un caso già esiste, quello del vescovo di Piazza Armerina mons. Rosario Gisana che ha ammesso, in una intercettazione agli atti, tale circostanza nel caso del prete don Giuseppe Rugolo, accusato di violenza sessuale aggravata, sotto processo a Enna. «Non so nulla di questo caso», ha detto Zuppi, andandosene via.

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