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IL SENSO BIBLICO DELL’IMMIGRAZIONE: ECUMENISMO UMANO

Tratto da: Adista Documenti n° 91 del 19/09/2009

Un nuovo paradigma per i credenti: “Il tuo Dio è il mio Dio”

Per noi credenti cristiani, l'immigrazione si presenta come un autentico kairos, un tempo di grazia, una situazione a partire dalla quale Dio vuole dirci qualcosa, ci sta chiedendo qualcosa, ci si sta rivelando in qualche modo. L'immigra-zione è oggi una parabola in atto scritta sulle righe secolari dei processi sociali ed economici mondiali attraversati da un'ingiustizia strutturale.

L'immigrazione è un fenomeno di dispersione e rottura: separazione dal proprio mondo e dai propri cari. Quando una persona emigra, perde la sua patria e molte altre cose, e corre il rischio di perdere persino il suo Dio o, al contrario, di afferrarsi alla propria fede come forte nucleo identitario da opporre al nuovo ambiente sociale. Dall'altro lato, i credenti nati qui possono sentirsi minacciati dalla presenza di "altri dei", cioè dalla vicinanza obbligata a persone di religioni diverse. Di modo che gli uni e gli altri sono sollecitati a riformulare la fede e le pratiche religiose per dare loro nuovo fondamento e senso.

L'immigrazione pone in contatto quotidiano su uno stesso territorio genti che prima non si conoscevano. Gli stereotipi e i pregiudizi condizionano tutti ed emergono con maggiore forza quando si deve vivere fianco e fianco. Gli immigrati sono l'"altro", quello che rompe i nostri schemi e le nostre barriere culturali, la nostra sicurezza, la nostra comodità acquisita. Avvicinarci reciprocamente e vivere insieme la diversità umana, culturale e religiosa è un'occasione propizia per renderci più universali, più ecumenici. Possiamo vivere la mescolanza con piacere e vedere negli altri nuovi compagni di strada, membri dispersi della famiglia umana che si vanno riunendo a poco a poco. È un'opportunità per disfare il mito‑condanna della torre di Babele e ricostruire la casa comune, la oikoumene.

Un senso biblico per tutto questo lo troviamo nel libro di Rut, una bella storia di emigranti, di accoglienza e di mescolanza culturale‑religiosa. Elimelec e Noemi con i loro due figli devono emigrare e lasciare le terre di Betlemme (pare che in quei giorni il paese non facesse onore al suo nome, "casa del pane") per insediarsi nella regione pagana di Moab, sull'altro lato del Giordano. Presto muore Elimelec e allora i suoi figli, liberi dal potere paterno, si sposano con due donne moabite, Orfa e Rut, contro la volontà di Yahvé, che aveva proibito agli israeliti di far questo. Più tardi muoiono anche i due figli e Noemi si trova ora in un'amara situazione: in un Paese straniero, anziana, vedova, senza figli né nipoti, sola, senza risorse, con due nuore non israelite...

Noemi decide di ritornare in Israele e chiede a Orfa e Rut di andare con le rispettive famiglie e di lasciarla tornare sola a Betlemme. In lacrime, Orfa fa così. Rut, invece, decide fermamente di restare accanto a sua suocera, dicendole: "Non insistere con me perché ti abbandoni e torni indietro senza di te; perché dove andrai tu andrò anch'io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu, morirò anch'io e vi sarò sepolta. Il Signore mi punisca come vuole, se altra cosa che la morte mi separerà da te" (Rut 1, 16‑17). Trascorso il tempo, Dio premierà la fedeltà di Rut con il matrimonio con il ricco Booz, dalla cui discendenza proverrà il Messia, Gesù.

"Se è valida questa parola di Rut la moabita ‑ ‘il tuo Dio è il mio Dio’ ‑, vuol dire che l'incontro diretto tra persone è l'unico luogo effettivo e decisivo della rivelazione di Dio; allora l'amore tra le persone è il fondamento e la misura della fede in Dio. Ciò significa che non esiste alcun Dio che possa o debba ostacolare o distruggere l'amore tra le persone, limitarlo o delimitarlo, impedirlo o proibirlo. Ciò significa che Dio è la meta finale di un cammino che si può percorrere solo nella comunione dell'amore. Ciò significa che la 'dottrina' relativa a questo Dio non è altro che ciò che è necessario realizzare per stare vicino all'altro. Ciò significa che tutte le parole scritte in nome di Dio o degli dei di ogni popolo, di ogni religione e di ogni cultura, si estinguono a poco a poco nel gesto silenzioso dell'amore che esiste tra le persone fino alla morte e che riconcilia gli esseri umani tra di loro al di sopra delle barriere confessionali" (E. Drewermann).

 

Buone pratiche come semi

Nella nostra Fundación Sevilla Acoge, già dalle sue origini nel 1985, l'interculturalità ha assunto una funzione chiave della nostra identità. Non volevamo essere un'associazione per gli immigrati, ma con gli immigrati. Per quanto "loro" siano diversi da "noi" e viceversa. Si dice: "Ma molti sono musulmani"... E allora il nostro organismo non sia confessionale per non chiudere la partecipazione attiva ad alcuno... "Ma hanno uno stile di lavoro, una formazione, un ritmo e obiettivi di vita diversi"... Allora che si riceva tutti, noi e loro, una stessa formazione in interculturalità...

Ciò che viene più apprezzato tra noi è la relazione interpersonale, in cui la conoscenza reciproca, l'affettività e l'ef-ficacia nell'azione hanno la priorità sulla differenza di credo, etnia o cultura. È in questo clima umano fondamentale che sgorga il rispetto per la fede religiosa degli uni e degli altri.

"Vivendo insieme, riceviamo riconoscimento nella differenza. In Sevilla Acoge non mi sento 'musulmano', mi sento a mio agio, poiché nessuno, con nessun gesto, mi ricorda la mia differenza di religione. Così è più facile la relazione. Senza dover nascondere l'appartenenza, non ho nessuno di fronte a me che mi dica 'che strano che sei'". (Ousseynou Dieng, senegalese e mediatore interculturale).

Nella convivenza quotidiana va producendosi tra noi una specie di osmosi, un travaso silenzioso di rispetto per la fede dell'altro e di conoscenza del suo credo. Perché gli uni e gli altri, per quanto con diversa fede religiosa, condividiamo una stessa fede sociale, valori simili: questo mondo non ci piace e vogliamo cambiarlo attraverso il nostro impegno con gli immigrati.

"Se si sente nel più profondo di te stesso che ciò che ti muove al bene è il tuo amore per Dio e il tuo amore per gli uomini che Dio ama... Se pensi che il male consiste nel-l'allontanarti dagli uomini, poiché Dio li ama come ama te stesso, e che perderai il tuo amore per Dio se fai danno a quelli che Egli ama, cioè a tutti gli uomini... allora tu sei discepolo di Gesù ('isawî), qualunque sia la religione che professi". (Dr. Mohammed Kâmil Husany).

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