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LA LINGUA DEI FIGLI DI ABRAMO: QUALE DIALOGO È POSSIBILE?

Tratto da: Adista Documenti n° 2 del 09/01/2010

Preludio

"In te saranno benedette tutte le famiglie della terra" (Genesi 12,3)

Questo versetto che pone Abramo, dopo l'ordine impartitogli dal Signore di lasciare la sua casa e di andare verso un paese ignoto (Genesi 12,1), come inizio di una benedizione di tutte le famiglie della terra" sembra quasi fare da bilancia al gesto di condanna del Signore nei confronti dei costruttori di Babele (Genesi 11.1-9), nella forma della confusione e della dispersione. Qui sembra prefigurata un'armonia di tutti i viventi: la possibilità di una vita comune, di una condivisione di bene e di senso, nel dolore e nella gioia, vissuti insieme, partecipati. Ma la realtà non è questa. Non è mai stata questa nella storia umana. Tutte le famiglie della terra sembrano essere maledette più che benedette. Le famiglie sono il luogo meno “familiare” che esista sulla terra: sia al loro interno - da sempre, l'odio fratricida divide, annienta, uccide -; sia nella loro relazione reciproca - le “famiglie”, le etnie, le comunità, le nazioni, più che essere ospitali, sono ostili, rivali, nemiche.

Ma quella benedizione che tramite Abramo si stende su tutte le famiglie della terra non può essere smentita dalle sue stesse smentite. Cioè, il fatto che tutto stia a indicare che le famiglie sono più luoghi di disaggregazione che di aggregazione, di maledizione che di benedizione, non significa che quella benedizione non riuscirà mai a raggiungerci. Ciò che appare come altamente improbabile non è impossibile. È proprio della vita umana saper accogliere l’impossibile e renderlo possibile. Ma certo dobbiamo preparare la strada alla possibilità dell'impossibile. Dobbiamo scavare a mani nude il terreno roccioso e duro della inattuabilità per provare a far nascere l'improbabile. Quali strumenti abbiamo per fare questo? Non abbiamo grandi strategie, non grandi disegni. Abbiamo pochi, poveri, rudimentali arnesi. I nostri gesti quotidiani, le nostre parole, il nostro modo di intrecciare gesti e parole con quelle degli altri. Questo è il dialogo. Tra esseri umani, tra nazioni, tra religioni.

Ma il "dialogo" è certamente una parola deprezzata. Che risuona ormai quasi priva di senso. Tempo fa, alla domanda su quali fossero le parole o le formule linguistiche che più lo infastidivano, lo scrittore Carlo Fruttero ha risposto: la parola "dialogo". Non gli si può dar torto, perché "dialogo" è una delle tante parole che è stata svilita, per l'uso improprio, vago o strumentale, che ne è stato fatto. Allo stesso modo della parola "libertà", della parola "amore". Tutte parole che dovremmo pronunciare con "timore e tremore", e invece ne abbiamo fatto una "scolastica", una "vulgata", quando addirittura non ne abbiamo capovolto il significato. Usiamo la parola "amore" per indicare un tiepido sentimento di condiscendenza; usiamo la parola "libertà" per imporre sugli altri il nostro arbitrio; usiamo la parola "dialogo" per promuovere accordi nei quali cerchiamo soprattutto di salvaguardare noi stessi.

Ma "dialogo" è - certamente - altro da questo. Molto al-tro. E in primo luogo gli va riconosciuta una priorità nella costituzione dell'umano.

 

Il dialogo: una "casa di parole"

Il dialogo, lo scambiarsi parole - e prima ancora, suoni, gestualità, affetti, espressioni del volto, contatti - è costitutivo della creatura umana. Fin da subito. Fin dall'infanzia. E poi, nel farsi adulti dell'uomo e della donna. Senza dialogicità non vi è sviluppo. Senza parole, il bambino muore. Ma anche la coscienza muore. Anche senza gesti che creino re-lazione il bambino muore, e la coscienza muore. Diciamo, sovente, che la parola è ciò che caratterizza l'essere umano, ciò che lo fa uomo e donna distinto dall'animale, nella sua crescita, nella sua intelligenza, nella sua libertà. nella sua capacità di creare, di essere, di amare. Ma la parola non è nulla, è puro fiato di voce, se non è scambiata. Se non è ascoltata e accolta. Se non è assimilata, trasformata, e di nuovo pensata, pronunciata, offerta. Non è nulla se non è nella dinamica dello scambio. Che può essere anche silenzioso, anche interiore, anche muto. Ma la creatura umana è tale solo perché la sua parola è capace di essere in relazione. Anzi, è relazione. Per questo il dialogo è modalità fondamentale della creatura umana. L’essere umano è una creatura in relazione. Non può sussistere senza relazione.

Se è vero il verso fin troppo citato di F. Hölderlin, "Noi siamo dialogo. E possiamo ascoltarci a vicenda", potremmo arrivare a sostenere per paradosso, ma neppure tanto, che, forse, è addirittura preferibile un dialogo generato dall’odio (non l’odio, ma la rabbia), ma un dialogo vero, cercato, voluto, gridato, piuttosto che un finto dialogo, tiepido, convenzionale, che non produce nessuna relazione, che non opera nessuna trasformazione, che lascia le cose come stanno. È vero che nell'esplosione dell'odio violento molti delitti si compiono troncando ogni possibile relazione. Ma quanti altri delitti maturano all'ombra dell'indifferenza, del-l'esclusione della parola, di uno sguardo che scivola sopra senza vedere, di un mancato ascolto.

Ogni vita, potremmo dire, è una casa di parole, costruita insieme a qualcun altro: alle persone più vicine, all'inizio; poi alle persone incontrate fuori dalla famiglia; poi alle voci ascoltate nei libri, nelle comunità di studio, o religiose, o di lavoro, o di appartenenza politica, sociale. Mattone su mattone, pietra su pietra, parola su parola, non necessariamente la nostra costruzione ha come esito una torre di Babele. Non siamo destinati a Babele. Quella che potremmo costruire è invece una "dimora del linguaggio" - aperta, mobile, dinamica - dentro la quale strutturare il nostro corpo, la nostra persona. Anche noi siamo strutturati come linguaggio. Non soltanto i nostri sogni.

In questo senso la modalità dialogica precede ogni forma comunitaria, ogni "famiglia", ogni polis, ogni ethos. Perché e costitutiva di quel soggetto umano sul quale si fonda ogni possibile comunità, famiglia, polis, ethos. Per questo, però, occorrerebbe che ogni comunità si facesse, in primo luogo, custode della capacità di dialogare - ascoltare, elaborare, rispondere - di ogni singola creatura. Per farla crescere accogliente e non arrogante: consapevolmente agente e non irresponsabilmente passiva; libera e non compiacente. Per questo ogni creatura dovrebbe fare "esercizio" di dialogo ("ascesi", vorrei dire), educandosi ad essere relativa nel pensare e assoluta nel cercare; amante nell'ascoltare e amichevole nel dire; fiduciosa nell’ospitare e esigente nell'espri-mersi. L'educazione al dialogo non andrebbe pensata come una esposizione delle proprie opinioni, ma come un processo di crescita del pensiero, di maturazione, di scambio. In un certo senso, si potrebbe dire, estremizzando, come una educazione alla labilità, se per labilità non si intende una bassa qualità morale del desiderio, ma una disponibilità al mutamento, una passione della trasformazione, una tensione al continuo apprendimento.

È qui che si inscrive, credo, la dimensione del dialogo come modalità della polis, come qualità dell'umano che vive in comunità con altri, che vive in reciprocità, che vive nella collettività, nel mondo. Ecco che il dialogo, premessa necessaria per la crescita della condizione umana, sembrerebbe anche lo strumento perfetto per far cessare ogni conflitto. Ma non è così. O almeno non è automaticamente così. (...).

 

II dialogo dei conflitti

Anzi, a volte, la pratica dell’incontro, dello scambio di gesti e di parole, si tramuta in scontro. Si ergono muri di incomunicabilità, di divisioni, di ostilità. L'ethos, si sa, è il luogo dell’umano abitare. Ma in questo luogo abitano soggetti diversamente pensanti, diversamente presenti sull'ordito della storia. Ciascuno di questi soggetti è depositario di valori diversi, che da sempre hanno accompagnato la storia dell'umanità. Ma non possiamo nasconderci che questi valori non sono affatto assoluti, immobili nel tempo, identici nello spazio. Sono mobilissimi, invece. Fluidi. Discontinui. E, spazialmente, difformi, non riconducibili, talvolta, gli uni agli altri. L'ethos si trasforma nel tempo. È ancorato alla storia. Ma la storia non ha gli stessi tempi ovunque. Qua presenta una accelerazione. Là un ritardo. In qualche luogo una compresenza di ritardi e accelerazioni. Per questo, vi è conflitto. Per questo lo spazio dell'ethos, e del dialogo che lo accompagna, spesso è uno spazio tragico. Apparentemente senza soluzione. Come facciamo a dialogare con chi non vuole saperne di dialogare con noi? Quali parole ci scambieremo? Come facciamo a dialogare con i genitori di Iìna? Come faccio a dialogare con un palestinese se sono un israeliano a cui i palestinesi hanno ucciso il figlio? Come faccio a dialogare con un israeliano se sono un palestinese a cui hanno strappato la casa e tolto l'acqua, e impedito l'accesso al mio luogo di lavoro? Come dialoghiamo con chi sta pervertendo ogni giustizia e democrazia in Italia? Come dialoghiamo con il mafioso convinto della sua arroganza assassina? (...).

Ma proprio per questa tragicità nel conflitto di valori - ripeto: l’ethos è uno spazio tragico - "agganciare" i valori stessi, che sono mutevoli e transitori, all'unica cosa che possiamo immaginare come eterna e ferma in se stessa, che è Dio, significa soltanto alimentare equivoci, creare confusione (nel migliore dei casi), promuovere l'arbitrio.

Potremmo fare molti esempi sulla transitorietà dei valori etici. Il comandamento: "Non uccidere", ad esempio, ieri implicava un divieto meno restrittivo rispetto a quello che oggi sentiamo come eticamente vincolante. O il comandamento "Non commettere adulterio" che, quando si afferma, non tiene conto - inevitabilmente - della parità di diritti e doveri tra l' uomo e la donna. Nessun valore, se non considerato astrattamente, è assoluto. Per questo pensare che ci siano "Valori non negoziabili” è una contraddizione in termini. Perché ci sono valori diversi. E dunque dobbiamo "negoziare". I nostri valori sono tutti relativi. Solo Dio, se c'è, è assoluto. Ma Dio è Dio. E noi siamo creature. E nemmeno il nostro modo di pensare Dio è assoluto. Anche le forme della fede sono cambiate nel corso dei secoli e nelle diverse circostanze storiche. Il nostro modo di vivere la fede non è quello di un cristiano di epoca apostolica, ma neppure quella di un cristiano medioevale, e neppure quella di un nostro contemporaneo che vive a Basilea o a Mosca, per non dire in Uganda o in Patagonia. Ciascuno di noi vive diversamente la fede. E dunque che cosa ci può essere di assoluto nelle nostre povere vite se neppure la fede lo è?

Il dialogo è proprio il luogo della negoziabilità dei conflitti. Pratica quanto mai difficile. Non solo perché viviamo in un mondo in cui la relatività delle situazioni pone su uno stesso territorio - in uno stesso Paese, dentro una stessa città - visioni differenti dei valori. Ma anche perché ciascuno di noi fa fatica a trovare un accordo tra le situazioni nuove, a cui ci sottopongono le trasformazioni della tecnica o quelle della storia, e i "valori" che, appunto, consideriamo immodificabili solo perché, per inerzia, non li sottoponiamo allo stesso vaglio della critica cui abbiamo sottoposto i processi della storia, e quelli delle scienze e della tecnologia. Parliamo dei nostri valori come se fossero degli idoli. Dimenticando che siamo chiamati in primo luogo a vivere la nostra condizione di creature in cerca, sempre, di una verità che ci sta davanti, mai a imporre agli altri la nostra verità, come se davvero l’avessimo trovata. Noi non abbiamo la  verità. Noi non siamo la verità. Solo sapendo questo possiamo sperare di fare un po' di verità.

Siamo chiamati a dialogare, cioè a costruire, passo passo, una "casa comune" di parole in cui cercare un accordo il meno doloroso possibile per tutti tra posizioni diverse.  Cercando di convincere, ma non di vincere. Mettendo da parte i grandi principi, anche quelli religiosi, per trovare un'intesa il più rispettosa possibile della vita quotidiana di ciascuno (noi compresi), della sua libertà, della sua crescita, della sua autonomia. Data la grande tensione esistente oggi sul terreno sociale, non possiamo attenderci risultati strepitosi. Ma dobbiamo pur tentare, senza volerci fare legge agli altri, senza lasciare che altri si facciano legge a noi. Cercando di comporre i conflitti inevitabili, di stabilire patti, di stringere convenzioni, sapendo che anche queste saranno provvisorie, non immutabili, non perenni.

Per fare questo nella maniera più incruenta possibile non abbiamo che le parole: le parole da far scorrere tra noi, da cui farci attraversare, da gettare come ponti, da varcare come porte, da percorrere come strade. Noi. Dialoganti, con parole che diano frutti.

 

Il dialogo oltre il dialogo

Il problema è se e in che modo le cosiddette "religioni" possono contribuire a rendere il dialogo fecondo per una vita condivisa.

Io credo che in primo luogo le religioni dovrebbero aver cura di non essere ingombranti con i loro bagagli dottrinari. Non ne ha bisogno nessuno. Né i fedeli, che si sentono ricacciati indietro rispetto al vissuto della loro fede, rispetto al lavoro critico, fatto in questi anni, di riappropriazione della Bibbia, di messa in questione di dogmi immobili nel tempo. Né i "diversamente fedeli", che di fronte alla dottrina che si erge si sentono invitati a rinchiudersi nelle loro specifiche dottrine, magari scambiando per affermazioni di fede quello che è solo bagaglio ideologico e culturale. E tanto meno gli "infedeli", che si sentono istigati, quasi, a contrapporre la loro semplice umanità senza dogmi alla freddezza siderale di tanto linguaggio ecclesiastico.

In secondo luogo, accettare di avere visioni relative e provvisorie: nessuno ha il monopolio sul modo migliore di affrontare la vita e la morte, di dirimere i conflitti familiari, le questioni sociali, l'educazione dei giovani. C'è chi può avere una maggiore o minore tradizione al riguardo. Ma nessuno ha il diritto esclusivo alla verità. Né sulla vita. Né sulla morte. E neppure su Dio. Nessuno possiede la vera interpretazione e la vera dottrina. Nessuno può dire in quali altri modi Dio si sia rivelato ad altri uomini o abbia preferito non rivelarsi.

Farsi poi luogo in cui anche altri possano abitare. Farsi portatori di un'istanza di laicità - nelle città, nelle case, nelle scuole, anche nelle chiese - perché solo così non si tradirà la vocazione di "cattolicità" che ogni tradizione religiosa rivendica. Accettare la relatività della propria posizione rispetto agli altri non significa affatto, come sa chi ha una fede, ma anche solo una convinzione o una passione, rinunciare alla propria dedizione a quella fede, a quella certezza, a quella passione. Semplicemente, riconoscere che anche altri possono avere - a pari titolo - una fede, una convinzione, una passione.

Si dirà che fin qui il compito delle religioni non è dissimile da quello di ogni persona, cittadino, istituzione, comunità, se non per il fatto che uomini e donne di fede dovrebbero avere più dimestichezza di altri con la pietà per la vita e per la morte, con la compassione per chi è nella colpa, con l’accoglienza che si contrappone al respingimento, con la giustizia nelle questioni sociali, con la pulizia e il nitore del linguaggio. Ma si sa che anche se la fede (quella cristiana ma anche ogni altra fede) ha una inevitabile ricaduta nell'e-tica, nell'etica non si esaurisce, anzi talvolta si svilisce. Perché, appunto, l’etica presuppone compromesso, norme valide per tutti. Mentre chi crede in un Dio che salva, in un uomo che è vissuto nella storia mostrando che un'altra vita è possibile, sa che la sua fede eccede l'etica. Se vogliamo, "mette in crisi" l'etica. L'istanza di giustizia verrà superata dalla misericordia (ma non annullata!), quella della retribuzione dal dono gratuito, la difesa della propria vita dal dono stesso della vita per altri. Vi è una eccedenza - d'amore, di senso - che supera i valori correnti.

Ma questo "eccesso" non sarà, magari, l'unica condizione perché il dialogo sia davvero efficace? Perché ciò che sembrava impossibile divenga  possibile? Non sarà necessario proprio il paradosso di amare il nemico, di perdonare chi è nella colpa perché un diverso ordine si insinui nascostamente nel mondo? Non sarà necessario che il dialogo vada oltre il dialogo e si pronunci una parola dolce in risposta a una aspra, un silenzio in risposta a un insulto, un grido di giustizia là dove tutti tacciono, un gesto di libertà dove tutti acconsentono, un dono dove tutti accumulano, perché una rivoluzione - una conversione - accada, e i sordi comincino a sentire, i ciechi a vedere, e chi non ne vuole sapere di dialogare cominci a ritenerlo necessario? Accogliere anche il mafioso, sì, ma deve essere un gesto talmente significativo che deve prefigurare un mutamento, una conversione, altrimenti non servirà né al mafioso, né alle vittime, né a noi. Non si tratta né di imporre un dialogo con chi non ne vuole sapere, né di patteggiare con l’altro per ottenere un compromesso a tutti i costi. Ma di lavorare sul linguaggio. Ciascuno cercherà all'interno della propria fede (o tradizione) quale possa essere quella parola che possa esprimere più verità in vista dell'altro. Perché questo è poi il senso del dialogo: costruire una casa di parole in cui si possa vivere insieme.

Forse, la parola che vuole farsi eco della parola di Gesù sarà una parola che non ha timore, che si confronta con la verità, che si sa esporre, che sa rischiare. Certamente chi voglia vivere secondo la parola annunciata da Gesù di Nazareth, chi voglia seguire ciò che egli ha mostrato, nella sua vita e nella sua morte, proverà a estrarre la parola "dialogo" dal contesto di trattativa e intesa ("concordato") in cui ordinariamente si sviluppa, e proverà a declinarla biblicamente. Nella Bibbia, a rigore, la parola "dialogo" non c'è. Abramo "intercede" presso Dio. Giobbe "disputa" con Dio. Chi canta un Salmo "chiede", "invoca", "loda", "esulta", "geme". Ma non "dialoga". Gesù annuncia, interroga, risponde, prega, tace. Non viene detto che "dialoga". Eppure, la dialogicità che pervade tutta la Bibbia, quel principio duale che inaugura la creazione del mondo sempre di nuovo ribadito - e poi quel mettere parole in uno spazio comune, che attendono di essere raccolte, rielaborate, risposte - trova in Gesù un perfetto interprete. Ma la parola di Gesù, intrecciata con quella dei suoi interlocutori - siano essi i bisognosi che chiedono aiuto, i discepoli che vorrebbero comprendere, i nemici che lo vogliono allontanare e uccidere - ha dei caratteri ben precisi.

In primo luogo, è una parola netta e non ambigua: sì sì, no no. Una parola che sta dalla parte della verità e non della menzogna, e neppure dei compromessi: ma una parola che non impone a nessuno la verità, che non agisce per fare leggi che stiano dalla parte della sua verità. La verità la testimonia, semplicemente, con le sue parole, la mostra con la sua vita e con la sua morte.

In secondo luogo, la parola di Gesù è essa stessa relazione, perché è detta per gli altri, si dona agli altri, si spreca, si spande, non attende ricompensa, non chiede benefici in cambio, non si fa comprare, non scende sul mercato. Si offre agli altri. Si spande nel vento della libertà.

È una parola che sa ascoltare, anche. Che sa meditare, dubitare, accogliere la parola dell’altro: la parola che chiede aiuto e quella che lo invita a ragionare diversamente. È una parola che sa anche trasformarsi, cambiare di tono, cambiare di contenuto. È una parola che sa essere impaziente, quando avverte l'urgenza di dire; ma anche paziente, quando capisce che l'altro ha bisogno di tempo per fare un percorso dentro di sé. Una parola che sa portare crisi, severa nel giudizio, acuta nell'analisi. Radicale nella misericordia.

È una parola che sa darsi in pura perdita. Che si espone. Che sa osare. Anche rischiare. Che non si costruisce in un "accumulo" di sé, ma sa il momento in cui "rendersi", in cui "arrendersi" anche al silenzio. Lontano dall'essere una sinfonia perfetta in quattro movimenti - l'ascolto; la rielaborazione; la risposta; un nuovo ascolto - il dialogo assume qui la sua vera valenza: che è quella di un insieme di dissonanze: di rischio nell'esporsi; di avventura nell’incontrarsi; di modificazione profonda nel confronto, in una dimenticanza di sé che ha a cuore, primariamente, il senso dell'umano.

Non è una cosa scontata che il cristiano sappia dialogare nello spazio della polis. Può farlo, forse, se riesce a tenere in continua tensione dialettica la dimensione del dialogo nella città - che è una dimensione intermedia, mediana, di relazione, di compromesso - con quella della parola di Gesù, processo ininterrotto di ascolto, di critica del sapere, di tensione verso l'altro, di desiderio di pacificazione fino al sacrificio di sé. Il dialogante dovrà, talvolta, saper tacere, dovrà arrendersi di fronte al silenzio dell'altro, di fronte al suo rifiuto. Tenendo vivo, ardente, dentro di sé il desiderio di costruire un paesaggio comune di parole, di gesti, di umanità condivisa.

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