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AIUTARE HAITI, NON OCCUPARLA. PROTESTE IN TUTTO IL MONDO PER L’INVASIONE MILITARE USA

Tratto da: Adista Notizie n° 10 del 06/02/2010

35420. PORT-AU-PRINCE-ADISTA. Se l’intenzione di Obama era realmente quella di offrire al mondo l’immagine di una superpotenza finalmente preoccupata della sorte dei più bisognosi (riscattando la vergogna della catastrofica gestione dell’emergenza provocata a New Orleans dell’uragano Katrina, nel 2005), il minimo che si può dire è che non gli è riuscito. Che l’impegno degli Stati Uniti abbia assunto la forma di un’invasione militare, non lo hanno detto unicamente movimenti tacciabili di antiamericanismo né soltanto governi tradizionalmente ostili alla politica nordamericana nel Continente (Venezuela, Bolivia e Nicaragua hanno persino chiesto la convocazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sul tema dell’invasione di Haiti da parte delle truppe statunitensi). A protestare è stato, per esempio, anche Alain Joynanet, segretario di Stato francese per la cooperazione: “Si tratta di aiutare Haiti, non di occuparla”, ha denunciato di fronte agli impedimenti posti dai militari statunitensi all’atterraggio di due aerei carichi di aiuti umanitari provenienti dalla Francia.

Di certo, il dispiegamento militare degli Stati Uniti non è tale da poter passare inosservato. L’analista politico argentino Gustavo Herren (Argenpress, 26/1) ricorda la partenza, a poche ore dal terremoto, degli aerei militari Hercules C-130, dalla base di Little Rock, in Arkansas, seguiti, nelle ore successive, dai C-17 Globemaster, provenienti dalla base aerea militare di Dover (Delaware), e il simultaneo sbarco sull’isola di 3.500 militari della 82.esima divisione aerotrasportata, la stessa che ha operato nelle invasioni della Repubblica Dominicana, di Granada e di Panama. Successivamente, prosegue Herren, sono giunti altri quattro C-17 dalla base di Elmendorf (Alaska) e altri aerei militari dalle basi di Charleston (Carolina del Sud) e Scott (Illinois). Tre giorni dopo il terremoto è arrivata la portaerei Carl Vinson insieme a una flotta navale di appoggio del Comando Sud, unità anfibie e navi lanciamissili, più diverse navi della Guardia Costiera, impegnate a soccorrere feriti, ma anche, come evidenzia Duarte Pereira sul Correio da Cidadania del 23 gennaio, a “controllare l’avvicinamento di navi di altri Paesi, come quella inviata dal Venezuela con il combustibile, e a impedire l’emigrazione di haitiani diretti alle coste statunitensi”. Con il passare del tempo, poi, i soldati Usa attualmente presenti sull’isola sono diventati addirittura 20mila.

 

Servono medici, non soldati

Che un tale dispiegamento di mezzi e uomini faccia pensare più ad un’occupazione militare che ad un’operazione umanitaria non può dunque sorprendere nessuno, tanto più di fronte all’incapacità mostrata sul fronte dei soccorsi dai militari statunitensi, i quali, in compenso, hanno assunto il controllo dell’aeroporto e del traffico aereo, attirandosi subito un mare di critiche da ogni parte per le mancate autorizzazioni all’atterraggio ad aerei che trasportavano aiuti umanitari. Non contenti, hanno pure occupato il terreno del Palazzo presidenziale in rovina, in quello che è sembrato un gratuito affronto alla sovranità di Haiti. Non a caso, la segretaria di Stato Hillary Clinton è giunta a chiedere il riconoscimento di poteri speciali all’attuale presidente René Préval, contestato dalla popolazione per la sua totale incapacità di gestire l’emergenza, aggiungendo che “nella pratica verrebbero delegati a noi”.

Se poi Obama voleva far dimenticare al mondo la disastrosa gestione della tragedia di New Orleans, non depone sicuramente a suo favore il fatto che il compito di gestire gli aiuti dell’America per la ricostruzione di Haiti sia stato affidato non solo a Bill Clinton ma anche a George W. Bush, rivelatosi, tra molte altre cose, totalmente incapace di far fronte all’uragano Katrina (senza contare che è sotto il suo governo che il presidente Jean-Bertrand Aristide è stato virtualmente sequestrato dalle forze speciali Usa ed esiliato in Africa, nel 2004). E proprio di “Katrina di Obama” parla il Wall Street Journal, e non solo.

Ma c’è davvero bisogno di una presenza così massiccia di militari per garantire la sicurezza ad Haiti? “La sicurezza è un pretesto”, afferma Kim Ives di Haití Liberté in un’intervista rilasciata a Democracy Now (25/1): “Vediamo in ogni parte che la popolazione si organizza in comitati popolari per ripulire, tirar fuori i cadaveri dalle macerie, costruire accampamenti di rifugiati, garantirne la sicurezza. Questa è una popolazione autosufficiente”. La gente, secondo Kim Ives, non ha bisogno dei marines, che “creano ancora più caos”, ma di medicine. È quanto ha dichiarato anche Fidel Castro – “Inviamo medici e non soldati!” – evidenziando l’importanza del contributo cubano negli aiuti ad Haiti (sono attualmente presenti nel Paese circa 400 medici e paramedici cubani, impegnati a fianco di altri 400 giovani haitiani laureatisi in medicina a Cuba) e la disponibilità dei cubani a collaborare “con qualunque altro Stato desideri salvare vite e curare feriti” (fino all’autorizzazione data agli aerei militari statunitensi ad attraversare lo spazio aereo di Cuba).

 

Chi deve a chi?

Si moltiplicano nel frattempo in tutto il mondo le voci a favore dell’annullamento del debito estero di Haiti, perché non si tolga con una mano quello che si dà con l’altra. Come denunciano Eric Toussaint e Sophie Perchellet (Counterpunch, 19/1), tutto l’aiuto finanziario annunciato dopo il terremoto, nella maggior parte dei casi proprio dai Paesi creditori, non servirà ad altro che a pagare un debito illegittimo, già responsabile dell’applicazione di piani implacabili di aggiustamento strutturale. Anziché fare donazioni, sottolineano, sarebbe allora preferibile che i Paesi creditori annullassero il debito che Haiti ha contratto con loro: “Totalmente, senza condizioni e subito”. Da qui l’appello internazionale lanciato dalla rete internazionale Jubilee (sottoscritto, in Italia, anche dalla Campagna per la Riforma della Banca Mondiale e dall’Osservatorio sull’America Latina Selvas), che esige dai governi e dalle organizzazioni internazionali “l’annullamento urgente dell’illegittimo debito che ad oggi Haiti è costretta a pagare”. Sottolineando la necessità “che le risorse destinate agli aiuti e alla ricostruzione non generino un nuovo indebitamento” né che si accompagnino ad alcuna imposizione esterna, Jubilee chiede alla comunità internazionale, e in particolare ai “Paesi che si sono arricchiti sulle spalle del popolo haitiano”, di compiere “il loro dovere di saldare i debiti storici, sociali, ecologici e climatici che si sono venuti accumulando nei confronti del Paese”, già all’indomani della conquista dell’indipendenza, quando la Francia obbligò Haiti a pagare un indennizzo di 150 milioni di franchi (v. Adista il numero di documenti allegato). Ma non è certo un buon segno che il Fondo Monetario Internazionale abbia concesso un nuovo finanziamento di 100 milioni di dollari sotto forma di prestito e non di dono: “Un’evidente contraddizione - sottolinea la Campagna per la Riforma della Banca Mondiale - con quanto dichiarato dallo stesso Fmi, secondo cui Haiti non si può permettere nuovi prestiti, perché questi non farebbero altro che aggravare l’attuale peso del suo debito”. (claudia fanti)

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