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Chiesa e omosessualità Cenni di ripensamento

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 18 del 27/02/2010

Al termine di una conferenza sul Concilio promossa all’inizio di febbraio dal gruppo di omosessuali credenti “Il Guado” di Milano (v. Adista n. 14/10, ndr), la discussione è finita ben presto sui temi legati a questi specifici problemi.

La prima domanda riguardava la notizia che un vescovo emerito italiano avrebbe dichiarato che non si può dare la Comunione agli omosessuali. Ho risposto che quella dichiarazione andrebbe inserita nel suo contesto, ma potrebbe anche esprimere l’opinione diffusa che omosessuale sia sempre chi condivide la vita sessuale fisica con una persona dello stesso sesso, e che, se la morale sessuale cristiana non ammette l’uso pieno della sessualità se non nel matrimonio, che consacra l’unione piena – spirituale e fisica – di due persone, ovviamente non l’ammette per due persone dello stesso sesso. Questa immediata identificazione con un’omosessualità attiva sembrerebbe confermata, ad esempio, dalla recente determinazione vaticana che esclude gli omosessuali dai seminari. Anche in questo caso gli uomini della Chiesa danno l’impressione di condividere la mentalità diffusa che, in campo sociale, tende a discriminare ed emarginare chi è giudicato diverso.

Credo, più che mai in questo caso, che si debba tener conto del maturare della conoscenza e della cultura. Nell’antichità si riteneva che l’omosessualità fosse una scelta fatta arbitrariamente per motivi pratici (in tal modo i filosofi – secondo lo stesso Socrate – potevano evitare le complicazioni del matrimonio e della famiglia) o per soddisfare la passionalità (erano noti in alcuni templi, accanto alle prostitute sacre, anche i prostituti sacri), da cui derivavano allora le dure condanne della Bibbia e della Chiesa. Oggi risulta che la radice dell’omosessualità può trovarsi nella stessa struttura fisiologica o in situazioni di fatto che hanno inciso inconsciamente nella costituzione personale.

Ora, se perfino nel matrimonio si è arrivati a sottolineare che il fine primario è l’amore e che la procreazione ne è la conseguenza più significativa, perché non riconoscere ad amicizie omosessuali gradi di affettività e di amore di intensità tali da costituire entità significative nella società umana? Che poi questi legami possano talvolta portare a situazioni riprovevoli (quello che moralmente viene chiamato peccato) sarà un problema per le singole coscienze (come lo è anche per gli eterosessuali nell’esercizio della loro sessualità), ma non potrà portare a riprovare automaticamente la caratteristica di “omosessuale”.

Dobbiamo riconoscere che forse certe manifestazioni organizzate per rivendicare la dignità degli omosessuali contro la diffusa antica “omofobia” (quella che portava il nazismo, ed oggi certi Paesi islamici, a condannare l’omosessualità come reato) possono esprimersi in forme così chiassose e provocatorie (anche contro la Chiesa) da risultare controproducenti, da corroborare cioè l’atteggiamento di diffidenza e di condanna; ma toccherà proprio ai cristiani, pur nella chiarezza delle proprie convinzioni, farsi testimoni di rispetto e di amore.

Ci sono nella Chiesa cenni di ripensamento; penso, ad esempio, alla Diocesi di Torino che ne ha fatto argomento di specifica riflessione, con un volumetto (con prefazione addirittura del cardinale arcivescovo) che suggerisce le modalità di una pastorale concreta.

Credo che dobbiamo abituarci a considerare gli omosessuali come fratelli e sorelle, con i loro problemi (come tutti li abbiamo), aiutandoli a vivere serenamente la loro vita, senza discriminarli a priori, correggendo con prudenza e carità quanto emergesse pubblicamente di meno accettabile, ricordando sempre l’antico detto: “Unità nelle cose necessarie e doverose, libertà e rispetto in quelle opinabili, ma in tutto e sempre carità”.

* Vescovo emerito di Ivrea, già presidente di Pax Christi

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