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LA VITA RINASCE TRA LE MACERIE DI HAITI. MA È UN NUOVO PAESE QUELLO CHE VA COSTRUITO

Tratto da: Adista Documenti n° 33 del 24/04/2010

DOC-2257. PORT-AU-PRINCE-ADISTA. Agli haitiani non piace sentir parlare di “ricostruzione”: se si può ricostruire solo qualcosa che prima esisteva, è assai discutibile che ad Haiti, prima del terremoto del 12 gennaio, esistesse qualcosa di simile a una nazione. È una “costruzione”, dunque, ciò a cui aspira veramente la popolazione haitiana. Un compito a cui la comunità internazionale contribuirà con 9.9 miliardi di dollari, di cui 5,3 da utilizzare nel periodo 2010-2011: a tanto ammontano, infatti, le risorse finanziarie stanziate da circa 50 Paesi alla Conferenza Internazionale dei donatori per l'emergenza terremoto ad Haiti, promossa a New York il 31 marzo scorso dalle Nazioni Unite e dagli Stati Uniti in cooperazione con il governo haitiano.

“I numeri non mentono, ma ingannano”, ha commentato il membro del Movimento dei Senza Terra del Brasile José Luis Patrona, coordinatore della brigata di cooperazione tra Via Campesina Brasile e le organizzazioni contadine haitiane. “La maggior parte dei partecipanti alla riunione di New York – scrive sull’agenzia Alai – ha dimenticato che l’occupazione militare di Haiti in atto dal 2004 è costata oltre 3,6 miliardi di dollari”; che solo per gli stipendi dei 13mila soldati nordamericani inviati ad Haiti dopo il terremoto si spendono più di 468 milioni di dollari all’anno, a cui vanno aggiunti altri 126 milioni di dollari per gli stipendi di 3.500 nuovi membri del personale della Minustah (la Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite ad Haiti) giunti all’indomani del sisma (un soldato impegnato ad Haiti guadagna in un mese l’equivalente di 4 anni di lavoro di un haitiano); che Haiti ha un debito estero superiore a 1,3 miliardi di dollari, riscosso ogni mese, da decenni, dagli stessi organismi che coordineranno gli aiuti, gli stessi organismi che hanno imposto al Paese i grandi piani di aggiustamento strutturale che hanno smantellato i servizi pubblici e permesso la devastazione del suolo, la deforestazione e la costruzione di abitazioni precarie: sono loro, sottolinea Patrona, “che hanno portato ad Haiti la povertà”, prima che il terremoto si abbattesse sul Paese, stroncando la vita di oltre 222mila persone. 

In prima fila tra i Paesi donatori figurano sicuramente i Paesi dell’Alba, che contribuiranno con 2 miliardi e 420 milioni di dollari nel periodo dal 2010 al 2016 (gli Stati Uniti hanno offerto 1 miliardo e 150 milioni di dollari fino al 2013 e l’Unione Europea 1 miliardo e 600 milioni, sempre nello stesso periodo). Gli aiuti dell’Alba, provenienti in gran parte dal Venezuela, saranno destinati a progetti – diversi dei quali già in corso prima del terremoto – relativi ad educazione, salute, agricoltura, alimentazione, energia, infrastrutture, oltre a un progetto di costruzione di case nato già nel 2007, durante la visita di Hugo Chávez ad Haiti, e affidato all’impresa di costruzione dell’Alba, un organismo misto cubano-venezuelano (nessuna delle case già costruite, progettate secondo criteri antisismici, ha sofferto danni durante il terremoto) che tuttavia utilizza operai e tecnici haitiani, contribuendo così alla creazione di posti di lavoro, uno dei problemi più gravi che si trova ad affrontare il governo del presidente René Preval, giudicato peraltro dai movimenti sociali haitiani del tutto incapace di far fronte alla situazione.

Nel frattempo, in mezzo a difficoltà di ogni tipo, la vita, lentamente e faticosamente, riprende, con i venditori e soprattutto le venditrici che tornano a ripopolare le strade esponendo le loro povere merci. Ma, come riferisce a Catalunya Religió il gesuita Ramiro Pàmpols, prete operaio in pensione e vicedirettore della rete Fe y Alegría ad Haiti, “quello che più caratterizza Port-au-Prince è la grande quantità di accampamenti che si estendono per tutta la città”, nell’assenza pressoché totale di servizi anche minimi: luce, acqua, latrine, servizi medici. E il trauma subito dalla popolazione è così forte che, sottolinea il gesuita, “quasi tutti gli haitiani preferiscono dormire fuori dalle loro case, anche quelle in buono stato”. Conclude il gesuita: “Per quanto non sia affatto facile identificarsi con tanta sofferenza, ora preferisco mettermi al servizio di un popolo resuscitato, diverso da quello di prima del terremoto, unito dai lacci di una nuova fraternità, in cui i poveri, che sono l’immensa maggioranza del Paese, siano messi al primo posto”. Di seguito, in una nostra traduzione dallo spagnolo, alcuni stralci di una lettera (pubblicata da Redes Cristianas il 15/3) di un’altra religiosa, Matilde Moreno, della Congregazione delle Religiose del Sacro Cuore, che traccia un quadro del Paese dopo il terremoto del 12 gennaio. (claudia fanti)

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