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Responsabilità cercasi

- A cinque anni dal suo siluramento come direttore di "America", p. Reese torna a scrivere sul suo ex giornale. Di pedofilia

Tratto da: Adista Contesti n° 34 del 24/04/2010

P. Thomas Reese, gesuita, ex direttore del settimanale dei gesuiti Usa “America”, è docente al Woodstock Theological Center, Georgetown University . Tratto  da “America” ( 12/4/2010). Titolo originale: “Taking responsibility”

 

Quando è esploso lo scandalo degli abusi sessuali perpetrati dal clero negli Stati Uniti, la gran parte dei funzionari vaticani e degli ecclesiastici europei lo considerava un problema americano.

Poi, quando scandali analoghi hanno scosso Canada e Irlanda, è diventato un problema “dei Paesi anglofoni”. Invece di vedere la crisi negli Stati Uniti come un avvertimento a “mettere  ordine in casa propria” , troppi vescovi europei hanno continuato come se niente fosse, convinti che il problema non li avrebbe sfiorati.

Ora che lo scandalo è arrivato in Europa, cosa possono imparare Vaticano e vescovi europei dall’esperienza statunitense?

Il Vaticano deve fare della “tolleranza zero” la legge per la Chiesa universale.

Cominciamo dal contesto. Lo scandalo degli abusi sessuali non è iniziato a Boston;  è venuto alla luce alla metà degli anni ’80 con un processo a Lafayette, Louisiana. Dello scandalo si era occupato il National Catholic Reporter molto prima che il Boston Globe ne desse notizia.

Fu nella metà degli anni ’80 che le compagnie assicurative dissero ai vescovi che casi del genere non sarebbero rientrati nella copertura delle polizze. Cosa che avrebbe messo in allarme qualunque amministratore delegato.

 

Un’esperienza di vecchia data

 

Prima del 1985 pochi vescovi avevano ben gestito questi casi. La tendenza era credere al prete quando diceva che non l’avrebbe più fatto e credere agli psicologi quando affermavano che il prete poteva tornare tranquillamente al ministero. I vescovi erano compassionevoli e paterni verso i loro preti, dimenticando al contempo la loro responsabilità paterna di proteggere il “gregge”. Avevano cercato di tenere tutto segreto così da non scandalizzare i fedeli.

Tra il 1985 e il 1992, i vescovi iniziarono ad acquisire dimestichezza col problema. Tenevano sessioni a porte chiuse con esperti nei meeting semestrali. In una di queste sedute chiuse, almeno un vescovo disse ai confratelli degli sbagli che aveva commesso, esortandoli a non imitarlo. Durante questo periodo, il numero degli abusi diminuì.

Nel 1992, sotto la leadership dell’arcivescovo Daniel Pilarcyzk, la Conferenza episcopale statunitense ha adottato una serie di linee guida per la gestione dei casi di abusi sessuali. I dati raccolti dai ricercatori del John Jay College of Criminal Justice dimostrano che il numero di casi di abusi crollò negli anni ‘90, indicando come la maggior parte dei vescovi all’epoca avesse capito. Le linee guida però furono comunque contrastate dal card. Bernard Law ed ignorate dagli altri vescovi che decisamente non avevano ancora capito. Le linee guida non erano vincolanti per i vescovi e continuarono a lasciare aperta la possibilità che un prete  riconosciuto colpevole tornasse al ministero. Durante una riunione a St. Louis, quello stesso anno, un gruppo di psicologi che aveva alcuni preti in terapia, spinse i vescovi a lasciare aperta ai preti stessi la possibilità di tornare al ministero.

Lo scandalo di Boston ha dimostrato che le linee guida facoltative erano insufficienti. Ha dimostrato inoltre che nessuno aveva fiducia nel parere dei vescovi (o dei loro consiglieri) su chi potesse tornare al ministero in tutta sicurezza. Ne derivò che nel 2002 i vescovi, con il consenso di Roma, imposero regole vincolanti di “tolleranza zero” sugli abusi, denunciando le accuse alla polizia, e prevedendo programmi obbligatori di protezione dei minori in ciascuna diocesi. Secondo la regola della “tolleranza zero”, adottata dopo un meeting a Dallas, qualunque prete coinvolto in casi di abusi non avrebbe fatto ritorno al ministero. Nella maggioranza dei casi, sarebbe stato espulso dal presbiterato, con eccezioni plausibili solo in caso di anzianità o infermità. Le regole di Dallas prevedevano anche in ogni diocesi un comitato di laici che sovrintendesse alle accuse contro i preti sospesi dal ministero durante le indagini. Le regole erano controverse poiché molti preti consideravano la tolleranza zero una legge draconiana. Temevano inoltre di essere accusati ingiustamente e che queste regole ne facessero dei colpevoli fino a prova contraria. Obiettavano sul fatto che Dallas si fosse occupata solo di preti, e non di vescovi accusati di negligenza.

In ogni caso ci sono voluti 17 anni perché i vescovi americani capissero come procedere, a partire dalla causa del 1985 contro l’arcidiocesi di Lafayette, fino alla carta di Dallas per la Protezione dei Bambini e dei Giovani nel 2002. I vescovi europei dovranno agire agli stessi livelli molto presto e il Vaticano dovrà fare della tolleranza zero una legge per la Chiesa universale.

 

Cosa non fare

 

Se gli europei possono imparare dalle azioni positive dei vescovi americani a Dallas, essi possono tuttavia imparare anche dagli errori che gli americani hanno compiuto durante la crisi. Fin dall’inizio, i vescovi americani hanno sottostimato la portata e la gravità del problema. Prima del 1993 solo un terzo delle vittime era venuto allo scoperto per denunciare l’abuso alle diocesi, quindi neanche la Chiesa sapeva quanto la crisi fosse profonda. La maggior parte delle vittime non vuole che altri sappiano degli abusi subiti, specialmente i genitori, il coniuge, i figli e gli amici. La copertura mediatica degli abusi clericali ha dato forza e coraggio alle vittime per uscire allo scoperto, rendendosi conto di non essere sole.

Oggi gli europei sono scioccati dalle migliaia di casi denunciati e dovrebbero prepararsi ad altrettante migliaia. Negli Stati Uniti oltre 5mila preti, il 4% del clero, è stato riconosciuto responsabile di 13mila abusi nell’arco di 50 anni. Non c’è ragione di ritenere che in Europa sia diverso. Sperate per il meglio, ma fate i conti e state all’erta. Il calcolo più sbagliato che hanno fatto i vescovi americani è stato quello di pensare che la crisi sarebbe passata nel giro di pochi mesi.

Abbassarsi ed aspettare che la tempesta passi è una strategia perdente. A meno che non vogliano che questo scandalo duri per anni, come è stato negli Stati Uniti, i vescovi europei devono essere trasparenti ed incoraggiare le vittime a venire allo scoperto ora. Meglio sapere tutto il peggio al più presto che dare l’impressione di aver voluto nascondere.

Una scuola a Berlino, una scuola gesuita, ha fatto la cosa giusta. Sapeva di sette casi di abusi, li ha resi pubblici, ha incaricato una avvocata di occuparsi dei casi e gestire le vittime, e poi ha scritto agli ex-alunni chiedendo di denunciare eventuali abusi. Quando sono uscite allo scoperto almeno 120 vittime che affermavano di aver subito abusi nella scuola tedesca retta dai gesuiti, alcuni folli hanno dichiarato che era stato da pazzi invitare alla denuncia. Ma questa non era soltanto la cosa più cristiana da fare, era quella migliore come ritorno d’immagine. Nessuno può accusare l’amministrazione scolastica attuale di aver coperto i fatti. Inoltre, invece di subire fra i 3 e i 5 anni di cattiva pubblicità, mentre una alla volta le vittime uscivano fuori, ne avranno solo per alcuni mesi, quando i media poi si dedicheranno a qualcosa d’altro.

Anche i vescovi americani hanno fatto l’errore di accusare i media o la cultura permissiva, tentando di sminuire l’abuso clericale con l’affermazione che esistono nei soli Stati Uniti tra le 90mila e le 150mila denunce per abusi sessuali su minori. Sebbene ci sia del vero, è controproducente che i vescovi facciano appello a queste argomentazioni, che suonano come scuse. Piuttosto i vescovi dovrebbero condannare l’abuso, chiedere scusa e mettere in atto procedure per garantire la sicurezza dei bambini. E neanche è sufficiente scusarsi una sola volta. Come un marito che è stato infedele alla moglie, deve scusarsi, e scusarsi, e scusarsi.

Infine, i vescovi americani si sono giustificati dicendo di aver commesso degli errori ma di non essere colpevoli poiché non sapevano. Eh no, scusate, questo non regge. I cattolici americani avrebbero voluto che i vescovi si alzassero e dicessero: “Ho sbagliato, ho trasferito il prete in un’altra parrocchia, non pensavo potesse commettere altri abusi, sono stato mal consigliato, ma mi assumo la piena responsabilità. Mi dispiace, mi dimetto”.

 Se 30 vescovi negli Stati Uniti avessero fatto questo, lo scandalo non sarebbe durato così a lungo. La gente avrebbe detto: “Bene, è questo che fa un leader. Hanno capito. Con un nuovo vescovo si può sanare la ferita e possiamo andare avanti”.

I vescovi devono essere in grado di sacrificarsi per il bene dell’intera Chiesa. È uno scandalo che il card. Law sia stato il solo vescovo statunitense dimesso a causa della crisi. È incoraggiante che quattro vescovi irlandesi abbiano presentato le proprie dimissioni. A meno che la Chiesa non voglia che questa crisi duri per anni in Europa, come è stato per gli Stati Uniti, alcuni vescovi devono dimettersi per il bene della Chiesa.

I vescovi europei impareranno dall’espe-rienza americana? Lo spero.

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