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Cristiani in ricerca Giovani e Chiesa: smarrimento e speranza

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 58 del 10/07/2010

“Oh! Assiria, verga del mio furore, bastone del mio sdegno. Contro una nazione empia io la mando e la comando contro un popolo con cui sono in collera perché lo saccheggi, lo depredi e lo calpesti come fango di strada” (Is 10, 5-6).

Le parole di Isaia sembrano in qualche modo lo specchio della quotidianità della Chiesa in queste ultime settimane. Lo “scandalo” suscitato da molte e diverse vicende ha bruscamente posto la comunità dei credenti di fronte alla rinnovata coscienza di una fragilità e di una permeabilità al male e al peccato di cui si era fatto oblio. Quasi inevitabili, di fronte agli eventi, sono così riemerse le polemiche. Come leggere i tempi e il loro portato? Come una chiamata alla difesa della fede e della Chiesa “senza se e senza ma” o come la necessaria e radicale messa in questione della forma “istituzionale” dell’odierno cattolicesimo romano?

Certamente gli eventi che viviamo e che ci parlano di una comunità smarrita e incerta affondano le proprie radici in anni passati e in scelte compiute o mancate di cui oggi emerge tutta la problematicità. Tuttavia è lecito chiedersi se di fronte a tutto questo sia necessario sposare uno dei due “partiti”. Rispetto ad un dibattito che, da entrambe le parti e per motivi opposti, sembra convenire sulla esistenza di una serie di “fratture”, fra gerarchia e laicato, fra il religioso e il secolarizzato, fra lo spirituale e il materiale, si fa imperante il bisogno di non fuggire e di lasciarsi permeare dalla crisi, attraversarla con coraggio, e vedere nel corpo “dilacerato” della Chiesa il “Cristo dilacerato” suggerito da Jean Guitton.

Questa esigenza è all’origine dell’incontro “Cristiani in Ricerca. Interrogarsi sulla fede e sulla Chiesa”, ospitato dalla comunità monastica di Camaldoli e a cui ha partecipato un piccolo gruppo di giovani, provenienti da esperienze ecclesiali diverse. Come annunciato su queste pagine a fine maggio (v. Adista Segni nuovi n. 45/10), l’incontro ha inteso creare un’opportunità e un’occasione di sosta e discernimento a quanti appartengono alla “generazione incredula”, coloro che sono lontani dal Concilio, dal post-Concilio e dai problemi di una ricezione dell’esperienza del Vaticano II. Una generazione, la nostra, che se da un lato sente tutta l’estraneità e il distacco da una serie di approcci “consolidati” ai problemi della vita della Chiesa, dall’altro coglie tutta la profondità e la criticità di una domanda di senso che si fa sempre più radicale. Il bisogno di lasciarsi permeare in profondità da tutto questo ha dettato la scelta del luogo e delle modalità con cui si è svolto l’incontro: cercare di ritrovarsi nella libertà di una discussione quanto più priva di un “canone” prefissato e al tempo stesso la volontà di condividere un ritmo di riflessione e di vita scandito dalla preghiera della comunità di Camaldoli. Un movimento di uscita dal quotidiano della Chiesa per poi rientrarvi, una sorta di “sistole e diastole” dello spirito. Una ricerca che si fa immagine nella vicenda dei discepoli di Emmaus sulla quale abbiamo meditato e pregato in una veglia guidata dal monaco Matteo Ferrari che ha aperto il nostro incontro e ha quasi voluto disporre i cuori a lasciarsi pervadere dalla Parola e gli occhi a lasciarsi schiudere nell’incontro con il cuore del nostro credere.

Se in questione è il credere e l’essere cristiani, allora le domande da cui partire non possono che essere: in quale Dio crediamo? Quale Chiesa siamo chiamati ad essere? Il nostro timore e il nostro essere incerti, lo smarrimento di molti, ci richiamano ad un bisogno di prossimità e familiarità con Dio, ad un confidare in un Dio che è Padre. Questa paternità di Dio, come ci ha suggerito il teologo gesuita Paolo Gamberini, si fa ad un tempo messaggio di prossimità di Dio ai propri figli e chiamata ad essere, di quella stessa paternità, immagine. Ed è il Cristo, nella sua figliolanza, nel suo renderci figli ed eredi del regno, che porta i credenti a riscoprire il volto di un Padre piuttosto che quello di un sovrano.

Se la paternità dice la figliolanza, essa dice anche l’essere cristiani, l’essere membra vive di una comunità, di un popolo. Pur nell’individualità e singolarità dell’esperienza di fede, vi è infatti una dimensione comunitaria, una espressione “pubblica” dell’essere cristiani che è costitutiva e imprescindibile: l’essere Chiesa. Lo stesso movimento che porta a riscoprire un Dio che sa farsi padre conduce a meditare il nostro essere rapporto con la Chiesa. Aiutati dalla teologa Serena Noceti ci siamo confrontati con quel senso di incompiutezza che appare diffuso nella Chiesa: il senso di un percorso iniziato col Vaticano II e non terminato. Vivendo il proprio tempo, facendosene attenta ascoltatrice e in qualche modo specchio e riflesso, la Chiesa vive certo la fatica delle proprie difficoltà ma sente anche una tensione a dare pienezza all’immagine del popolo sacerdotale che è parte della sua tradizione e che il Vaticano II ha saputo riscoprire.

Non solo gli incontri plenari ma una serie di gruppi di lavoro ci hanno permesso di approfondire ulteriormente il nostro riflettere, il nostro ricercare. La discussione franca e aperta, coordinata da Claudia Milani, don Andrea Decarli e Emanuele Bordello ha permesso di alimentare e far fruttificare un dialogo aperto fra i partecipanti, ha stimolato un’attenzione alle esperienze dell’altro e alla condivisione di preoccupazioni e aspirazioni che si sono intrecciate assieme. Il risultato è stato l’emergere, quasi spontaneo e inatteso, di un punto di vista sulla fede e sull’appartenenza alla Chiesa che, se intende cogliere i problemi e le difficoltà in tutta la loro profondità e gravità, non vuol abbandonarsi a scenari cupi, ad una visione della Chiesa segnata dalla rinuncia all’intelligenza della fede. La speranza è stato il filo conduttore nel nostro cercare, un terreno su cui edificare sul quale tutti ci siamo ritrovati non solo nei gruppi ma anche nella plenaria in cui abbiamo cercato di far sintesi di quanto avevamo meditato e riflettuto.

Credere e appartenere alla Chiesa si sono rivelati così, nel rispetto e nella ricchezza di un confronto sincero e aperto, prima ancora che problemi, le chiavi interpretative di una stagione della comunità dei credenti e dello spirito di una generazione. Sono divenuti una sorta di alfabeto con cui riscrivere e rileggere una questione che tanto centrale è divenuta per chi nella Chiesa oggi intende stare da cristiano: il senso dell’essere laici. Si tratta di una questione che prima che su libri e manuali passa per la concretezza del quotidiano, si esprime nel dare forma al proprio essere cristiani come figli di Dio e cristiani “adulti” nella Chiesa con umiltà. Essa trova sostanza nel dare corpo, spessore e “peso” alla propria fede attraverso un vissuto che può non soddisfare e in cui la fatica dello stare “nella” Chiesa si fa sentire. Prima ancora che obiettivi e mete da raggiungere, queste intendono essere le ragioni di un camminare che vuol continuare con altri incontri e con un percorso da costruire.

Ci muove la convinzione che il cristiano sia chiamato a vivere fino in fondo il proprio tempo e la consapevolezza che, se questo è il tempo in cui il Signore punisce il suo popolo servendosi del “bastone” dell’Assiria, questo è soprattutto tempo di grazia, in cui la fede trova nuova linfa. E questo in virtù di quel paradosso tutto cristiano per cui proprio la fatica e lo scandalo riconducono la Chiesa alle sue ragioni profonde, il peccato la chiama alla libertà che viene dalla verità, le lacerazioni svelano il senso profondo del suo essere popolo orante al quale il profeta annuncia: “Popolo mio, che abiti in Sion, non temere l’Assiria che ti percuote con la verga e alza il bastone contro di te come già l’Egitto. Perché ancora un poco, ben poco, e il mio sdegno avrà fine” (Is, 10, 24-25).

* Gruppo “Cristiani in ricerca” (e-mail: cristiani.in.ricerca@gmail.com)

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