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Poche idee ma confuse

- Scandalo abusi: nel corso dei decenni il dicastero guidato da Ratzinger avrebbe potuto agire in modo molto più efficace

Tratto da: Adista Contesti n° 63 del 24/07/2010

Tratto dal quotidiano statunitense “The New York Times” (1/7/2010). Titolo originale: “Church Office failed to act on abuse scandal”

Nella sua lunga lotta con l’abuso sessuale, il Vaticano spesso cita come massimo punto di svolta la decisione, nel 2001, di conferire al dicastero guidato dal card. Joseph Ratzinger l’autorità di bonificare una palude di burocrazia e di gestire direttamente i casi di abuso.

La decisione, in una lettera apostolica di papa Giovanni Paolo II, guadagnò al card. Ratzinger, ora papa Benedetto XVI, la reputazione dell’autorità vaticana capace di riconoscere nel modo più chiaro la minaccia che lo scandalo degli abusi sessuali, che si stava diffondendo, poneva alla Chiesa cattolica.

I documenti ecclesiali e le interviste con canonisti e vescovi, però, hanno posto quella decisione del 2001 e l’operato del futuro papa in una luce meno splendente.

È stato solo dopo che i vescovi anglofoni hanno espresso preoccupazione sulla resistenza da parte di alte autorità della Chiesa che il Vaticano ha convocato una riunione segreta per ascoltare le loro rimostranze: un esempio straordinario di prelati di tutto il mondo che fanno collettivamente pressione sui loro superiori per ottenere delle riforme, di cui non si conosceva l’esistenza.

La linea emersa da quell’incontro, al contrario di quanto il  Vaticano ha voluto far credere, non era quella di una brusca rottura con il passato. Era piuttosto una riaffermazione tardiva di vecchie procedure della Chiesa che almeno un vescovo tra quelli partecipanti all’incontro riteneva fossero state ignorate per troppo tempo.

Il dicastero guidato dal card. Ratzinger, la Congregazione per la Dottrina della Fede, aveva ricevuto  in realtà un mandato sui casi degli abusi sessuali quasi 80 anni prima, nel 1922, come mostrato dai documenti e confermato dai canonisti. Ma per i due decenni in cui ha ricoperto quell’incarico, il futuro papa non ha fatto leva su quell’autorità, restando inattivo anche se i casi minavano la credibilità della Chiesa negli Stati Uniti, in Australia, in Irlanda e altrove.

Il vescovo ausiliare emerito di Sydney Geoffrey Robinson, che presenziò all’incontro segreto nel 2000, ha detto molto esplicitamente che nonostante numerosi avvertimenti, le massime autorità vaticane, tra cui il papa, ci hanno messo molto più tempo a rendersi conto dei problemi degli abusi di quanto ci abbiano messo molti vescovi locali.

“Perché il Vaticano è rimasto così indietro rispetto ai vescovi che si trovavano in prima linea, con tutte le loro responsabilità, e che hanno prodotto un cambiamento, uno sviluppo?”, ha chiesto. “Perché il Vaticano è rimasto indietro di così tanti anni?”

Il card. Ratzinger non era ancora diventato papa, incarico preordinato divinamente senza l’abituale concorso di orientamenti dal basso. Giovanni Paolo, il suo superiore da lungo tempo, lasciò spesso cadere accuse di pedofilia contro preti ritenendole attacchi alla Chiesa da parte dei suoi nemici. I suoi sostenitori affermano che il card. Ratzinger avrebbe preferito fare qualche  passo prima per evitare in certi casi il danno.

Ma il futuro papa, ora è evidente, era anche parte di una cultura fatta di mancata assunzione delle responsabilità, di negazione, insabbiamento legale ed ostruzionismo puro e semplice. Più di qualsiasi altro vertice vaticano eccetto Giovanni Paolo II, era il card. Ratzinger che avrebbe potuto intraprendere un’azione decisiva negli anni ’90 per evitare la metastasi dello scandalo in un Paese dopo l’altro, in proporzioni tali da arrivare a minacciare, ora, lo stesso papato.

In quanto papa, Benedetto XVI ha incontrato vittime degli abusi sessuali tre volte. Ha tardivamente riaperto un’investigazione su Marcial Maciel Degollado, fondatore dei Legionari di Cristo, – protetto da Giovanni Paolo II – e alla fine lo ha rimosso dal ministero. Ha dato ai vescovi americani un maggiore margine di azione per assumere  una linea dura sugli abusi negli Usa, e recentemente ha accettato le dimissioni di diversi vescovi in altri Paesi. L’11 giugno, in occasione di un evento in piazza san Pietro, ha chiesto “perdono  Dio e alle persone coinvolte” e ha promesso di fare “tutto il possibile” per evitare gli abusi in futuro.

Oggi, però, la crisi degli abusi sta ancora devastando il cuore cattolico dell’Europa; investigatori civili in Belgio hanno preso l’iniziativa inedita di perquisire il quartier generale della Chiesa e l’abitazione di un ex arcivescovo. Il Vaticano, sotto Benedetto XVI, sta ancora reagendo agli abusi del clero con il suo ritmo, ed è assediato da un mondo esterno che esige che esso si muova più velocemente e in modo più radicale. Le autorità vaticane, che hanno rifiutato di rispondere a questioni specifiche sulla vicenda di Benedetto XVI, affermano che la Chiesa annuncerà un’altra serie di cambiamenti al diritto canonico, come ha fatto nel 2001, in modo che la Chiesa possa migliorare la sua risposta al problema degli abusi.

Il suggerimento che più avanti vi saranno riforme, però, è una conferma del fatto che vi è ancora una diffusa confusione tra molti vescovi riguardo al modo in cui gestire le denunce di abuso, e del fatto che il loro approccio varia sensibilmente da Paese a Paese.

Le Conferenze episcopali nazionali di alcuni Paesi hanno adottato proprie norme e standard. Ma diversi decenni dopo che gli abusi sessuali perpetrati dal clero sono diventati un problema, Benedetto XVI non ha ancora stabilito una normativa valida per tutti.

 

Scandalo e confusione

 

Lo scandalo degli abusi sessuali ha suscitato per la prima volta l’attenzione  del mondo nel 2002, con la notizia che l’arcidiocesi di Boston aveva coperto per anni dei molestatori. L’allarme però era già suonato quasi due decenni prima, in molti Paesi. A Lafayette, in Louisiana, nel 1984, il prete Gilbert Gauthé aveva ammesso di aver molestato 37 ragazzini. Nel 1989, un caso sensazionale emerse in un orfanotrofio nella provincia canadese di Terranova. A metà degli anni ’90, circa 40 preti e religiosi in Australia vennero accusati di abuso. Nel 1994, il governo irlandese perse di credibilità quando gestì malamente l’estradizione di un prete notoriamente pedofilo. I vescovi avevano a disposizione una certa varietà di strumenti disciplinari, tra cui la facoltà di allontanare dai bambini i preti accusati e di sospenderli dal ministero: mezzi a cui potevano fare ricorso senza la diretta approvazione del Vaticano.

Alcuni si avvalsero di questa autorità per mettere da parte preti responsabili di abusi, minimizzando il danno inflitto alle loro vittime. Altri vescovi non fecero che peggiorare le cose trasferendo i preti da un incarico all’altro, senza dire mai nulla ai parrocchiani, senza denunciare mai i preti alla polizia.

Ma man mano che i processi in tribunale, gli accordi finanziari e la copertura dei media aumentavano, molti prelati cominciarono a guardare al Vaticano per avere una guida chiara sul modo in cui perseguire i colpevoli in base al diritto canonico e sul momento in cui portare i casi all’attenzione dell’autorità civile. Nei casi più gravi, che riguardavano criminali seriali che negavano la loro colpa e opponevano resistenza alla disciplina imposta, alcuni vescovi cercarono orientamento in Vaticano sul modo in cui allontanarli dal sacerdozio.

Per questo, i vescovi avevano bisogno dell’aiuto del Vaticano. Esonerare un prete non è come radiare dall’albo un avvocato o privare un medico della sua licenza medica. Nella teologia cattolica, l’ordinazione di un prete imprime un marchio indelebile; la dimissione dallo stato clericale richiedeva l’approvazione del papa.

 Ciononostante, secondo quanto si ricava da documenti ecclesiali e da interviste con vescovi e canonisti, per tutti gli anni ’80 e ’90 i vescovi che cercarono di punire ed esonerare i preti colpevoli di abusi vennero scoraggiati da una procedura  legale burocratica e canonica sconcertante, con leggi contraddittorie e sovrapposizione di giurisdizioni. Oltre che alla Congregazione per la Dottrina della Fede del card. Ratzinger, i vescovi mandavano i loro dossier sui casi di abuso alla Congregazione per il clero, per i Vescovi, per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, e per l’Evangelizzazione dei Popoli; ma anche alla Segreteria di Stato, alla sua corte d’appello, la Signatura apostolica e al Pontificio Consiglio per i Testi legislativi.

“Vi era confusione ovunque”, ha detto l’arcivescovo Philip Edward Wilson di Adelaide.

Un nuovo codice di diritto canonico pubblicato nel 1983 non fece che confondere ulteriormente le cose, stabilendo, tra l’altro, uno statuto di limitazioni di cinque anni all’interno dei quali i casi andavano perseguiti.

Durante questo periodo, i più di trenta membri dello staff che lavoravano per il card. Ratzinger alla Congregazione per la Dottrina della Fede erano occupati a seguire altri problemi. Tra questi, l’esame di fenomeni sovrannaturali come le apparizioni della Vergine Maria, affinché non vi fossero imbrogli che “cor-rompessero la fede”, secondo Brian Mulcahy, ex membro dello staff. Altre sezioni si occupavano di richieste di cattolici divorziati che volevano risposarsi e controllavano minuziosamente le richieste di ex preti che volevano essere reintegrati. Il nucleo del dicastero, però, era costituito dalla sua sezione dottrinale. Il card. Ratzinger, teologo tedesco nominato prefetto della Congregazione  nel 1981, puntò la sua rinomata potenza di fuoco contro quella che considerava “una minaccia fondamentale alla fede della Chiesa”, il movimento della Teologia della Liberazione che si stava diffondendo in America Latina. Mentre padre Gauthé veniva processato in Louisiana, il card. Ratzinger richiamava all’ordine pubblicamente preti in Brasile e Perù colpevoli di predicare che la Chiesa doveva impegnarsi per la promozione dei poveri e degli oppressi, che il cardinale riteneva una distorsione della dottrina della Chiesa ispirata dal marxismo. Più avanti, mise le briglie anche ad un teologo olandese che affermava che i laici dovevano essere in grado di svolgere funzioni sacerdotali e a un americano che sosteneva che i cattolici avevano il diritto di dissentire dal magistero della Chiesa sull’aborto, la contraccezione, il divorzio e l’omosessualità.

 

Le diverse priorità del cardinale

 

Il card. Ratzinger si dedicò anche a normalizzare le Conferenze episcopali nazionali, molte delle quali, indipendenti da Roma, avevano cominciato ad affrontare la crisi degli abusi sessuali e a stabilire procedure per gestirla nel loro Paese. Dichiarò che tali Conferenze non hanno “fondamento teologico” e “non appartengono alla struttura della Chiesa”. I singoli vescovi, riaffermò, regnavano supremi nelle loro diocesi e dovevano fare riferimento solo all’autorità del papa a Roma.

Un’altra idea delle sue priorità si rivelò chiaramente ad un Sinodo nel 1990, quando un vescovo di Calgary cautamente menzionò la crescita del problema degli abusi sessuali in Canada. Quando il card. Ratzinger si alzò per parlare, però, citò una crisi diversa: la perdita di immagine del sacerdozio dopo il Concilio Vaticano II, e il “consistente calo” del numero dei preti, dal momento che molti davano le dimissioni.

Questa preoccupazione – che l’impegno irrevocabile al sacerdozio fosse minato dall’esodo di preti che lasciavano il ministero per sposarsi o semplicemente per disincanto – aveva già portato il card. Ratzinger a bloccare l’esonero di almeno un prete colpevole di molestie.

“Guardiamo la questione dal punto di vista dell’impegno sacerdotale”, ha detto p. Joseph Fessio, ex studente di Ratzinger e fondatore della casa editrice conservatrice Ignatius Press. “Vuoi sposarti? Beh, sei ancora un prete. Roma considera la cosa dal punto di vista della realtà oggettiva del sacerdozio”.

Dopo un altro caso di abuso nel 1992 a Fall River, Massachusetts, i vescovi statunitensi fecero pressioni sul Vaticano affinché offrisse un’alternativa al lento ed arcano sistema giudiziario canonico. Senza un pieno processo canonico, i preti accusati di abuso non potevano essere dimessi dallo stato clericale contro la loro volontà (anche se un vescovo poteva imporre alcune restrizioni). Nel 1993, Giovanni Paolo II disse che aveva ascoltato le richieste dei vescovi americani e convocato una commissione congiunta dei canonisti americani e vaticani per proporre migliorie.

Wojtyla rifiutò la proposta di permettere ai vescovi di esonerare i preti con procedure amministrative, senza processi canonici. Ma accettò di aumentare la maggiore età da 16 a 18 anni per i casi di molestie su minori. Cosa più importante, estese lo statuto delle limitazioni di tempo a 10 anni dopo il diciottesimo compleanno della vittima. Non si sa se il card. Ratzinger si sia espresso nelle deliberazioni interne che condussero ai due cambiamenti, che erano applicabili solo negli Stati Uniti.

Questi cambiamenti, però, chiaramente non portarono grandi progressi. E man mano che la crisi si diffondeva rapidamente in altri Paesi, vescovi ed amministratori ecclesiali di tutto il mondo anglofono cominciarono a incontrarsi per confrontarsi sul modo di reagire ad essa. Dopo essersi riuniti per conto loro nel 1996 e nel 1998, chiesero che la Curia si incontrasse con loro nel 2000.

 

Le frustrazioni traboccano

 

I vescovi in visita avevano raggiunto la temperatura di ebollizione. Dopo essersi battuti per vent’anni, con ben poco aiuto da parte di Roma, man mano che casi di preti pedofili invischiavano la Chiesa in processi, vergogna e scandali, erano volati a Roma dall’Australia, dal Canada, dall’Inghilterra e dal Galles, dall’Irlanda, dalla Nuova Zelanda, dalla Scozia, dal Sudafrica, dagli Stati Uniti e dai Caraibi anglofoni.

Molti esternarono la loro frustrazione: il Vaticano aveva più volte soffocato i tentativi dei vescovi di rimuovere i preti pedofili. Eppure conservavano la speranza di riuscire a portare avanti una riforma. Praticamente tutti i più importanti dicasteri vaticani erano rappresentati alla riunione, svoltasi nello stesso hotel vaticano costruito per accogliere i cardinali riuniti in conclave.

 “Il messaggio che volevamo dare era questo: se gli individui devono nascondersi dietro al diritto canonico e usare questa legge per impedire ai vescovi di disciplinare preti, allora dobbiamo trovare un nuovo modo di andare avanti”, ha spiegato Eamonn Walsh, vescovo ausiliare di Dublino, uno dei 17 vescovi che arrivarono da oltremare (è stato uno dei vari vescovi irlandesi che offrirono al papa le loro dimissioni lo scorso anno a causa dello scandalo degli abusi, ma la sua non è stata accettata).

Ciononostante molti, all’incontro, provarono sgomento quando, nel corso di quattro lunghi giorni all’inizio dell’aprile del 2000, sentirono autorità vaticane liquidare l’abuso sessuale del clero come un problema limitato al mondo anglofono, e enfatizzare la necessità di proteggere i diritti degli accusati più di quella di garantire la sicurezza dei bambini, secondo quanto hanno affermato dieci autorità ecclesiali che presero parte all’incontro.

Il card. Dario Castrillón Hoyos, allora a capo della Congregazione per il Clero, diede il tono, minimizzando l’abuso sessuale come fatto inevitabile della vita, e lamentando l’eccessiva attenzione data ad esso da avvocati e media, secondo quanto si evince da una copia delle annotazioni da lui preparate. Inoltre, si chiedeva, non è una contraddizione che la gente si senta così ferita dall’abuso sessuale quando anche la società promuove la liberazione sessuale?

Un altro partecipante vaticano sottolineò persino che molti preti pedofili avevano cognomi irlandesi, osservazione che offese i delegati irlandesi.

“Sono venuti fuori i pregiudizi”, affermò il vescovo Robinson dall’Australia. “Sono state dette cose veramente assurde”.

Benché sconcertati, i vescovi non furono colti del tutto di sorpresa.

“Non è che ci fosse cattiva volontà a Roma”, ha detto il vescovo Walsh. “Semplicemente non avevano l’esperienza di prima mano che le diocesi avevano maturato in giro per il mondo: quella relativa alle manipolazioni dei responsabili. Se il prete pedofilo avesse detto ‘Non ho fatto niente’, loro avrebbero risposto ‘Non mentirebbe mai, deve dire la verità ed è innocente fino a prova contraria’”.

A fare eccezione, hanno ricordato molti partecipanti, era il card. Ratzinger. Partecipò alle sessioni solo a intermittenza e raramente prese la parola. Ma nei suoi rari interventi più lunghi, chiarì che vedeva le cose diversamente da altri in Curia.

“Il discorso che tenne era un’analisi della situazione, della natura orribile del crimine, e del fatto che bisognava rispondere ad esso rapidamente”, ha ricordato il vescovo australiano Wilson, presente all’incontro nel 2000. “Ho pensato, lui ha capito, ha colto la situazione che stiamo affrontando. Finalmente riusciremo ad andare avanti” .

 

La chiarezza arriva in una lettera

 

L’incontro servì a porre davanti agli occhi di tutti la scarsa attenzione del card. Ratzinger al problema ma anche il suo nuovo atteggiamento.

L’arcivescovo Wilson affermò, in un’intervista, che durante la sessione dovette richiamare l’attenzione delle autorità vaticane sulle istruzioni vaticane a lungo ignorate, risalenti al 1922 e ripubblicate nel 1962, che davano alla Congregazione per la Dottrina della Fede del card. Ratzinger, prima nota come Sant’Uffizio, la responsabilità unica per la decisione su casi di preti accusati di crimini particolarmente gravi: richiesta di sesso durante la confessione, omosessualità, pedofilia e bestialità.

L’arcivescovo Wilson disse di essersi imbattuto in quelle vecchie istruzioni quando era studente di diritto canonico nei primi anni ’90. Alla fine aveva appreso che i canonisti erano profondamente divisi sulla decisione se ad avere autorità  fossero le vecchie istruzioni o il diritto canonico del 1983, che sui punti più importanti erano in disaccordo. Se fossero prevalse le vecchie istruzioni, non ci sarebbe stato motivo di confusione tra i vescovi del globo: tutti i casi di abuso sessuale sarebbero ricaduti sotto la giurisdizione del card. Ratzinger. (Il Vaticano ha recentemente insistito sul fatto che il dicastero del card. Ratzinger era responsabile solo per i casi connessi a preti che sollecitavano sesso nei confessionali, ma le istruzioni del 1922 davano chiaramente al suo ufficio giurisdizione sui casi di abuso sessuale relativi a “minori di ambo i sessi” che non implicavano la violazione del sacramento della confessione).

Come altri partecipanti hanno ricordato, pochi in quella stanza avevano idea di ciò di cui l’arcivescovo Wilson stesse parlando. Ma Wilson ha detto di aver discusso delle vecchie istruzioni papali con l’ufficio di Ratzinger alla fine degli anni ’90 e che gli era stato detto che venivano già applicate nei casi di pedofilia.

Poco più di un anno dopo, nel maggio 2001, Giovanni Paolo II pubblicò una lettera apostolica confidenziale che prescriveva che tutti i casi di abuso sessuale perpetrato da preti fossero da quel momento in poi gestiti dal dicastero del card. Ratzinger. La lettera era intitolata “Sacra-mentorum Sanctitatis Tutela”.

In una lettera di accompagnamento il card. Ratzinger, ritenuto pesantemente coinvolto nel-l’elaborazione del documento, scriveva che le istruzioni del 1922 e del 1962 che davano al suo ufficio l’autorità sugli abusi sessuali perpetrati dal clero erano stati “già in vigore fino a ora”. Il risultato di quella frase, affermano gli esperti, è che i vescovi cattolici  di tutto il mondo, che erano stati a lungo confusi sul da farsi nei casi di molestie, per tutto quel tempo avrebbero potuto e dovuto semplicemente rivolgersi alla Congregazione per la Dottrina della Fede.

Vescovi ed esperti di diritto canonico hanno affermato in varie interviste che potevano solo speculare sul motivo per cui il futuro papa non aveva chiarito ciò molti anni prima.

“Per me non ha senso che loro stessero seduti su quel documento”, ha detto p. John P. Beal, docente di Diritto canonico alla Catholic University of America. “Perché non hanno detto semplicemente: ‘Ecco le norme, se avete bisogno di una copia ve le mandiamo’?”.

“Quando si è dovuto affrontare l’abuso sessuale perpetrato dal clero, il nostro sistema legale è andato in pezzi”, ha affermato Nicholas P. Cafardi, esperto di diritto canonico e decano emerito nonché docente presso la Duquesne University School of Law.

C’era poi ulteriore confusione riguardo allo statuto delle limitazioni per i casi di abuso sessuale, se ve ne fosse addirittura uno, stando alla riaffermazione vaticana delle istruzioni papali del 1922 e del 1962. Molti vescovi avevano creduto di non poter gestire alcuni casi contro preti perché avevano superato lo statuto di limitazioni di 5 anni in vigore dal 1983, proteggendo efficacemente molti molestatori dal momento che di rado accadeva che vittime di abuso infantile si facessero avanti prima di avere raggiunto l’età adulta.

Cafardi, che è anche l’autore di Before Dallas: The U.S. Bishops’ Response to Clergy Sexual Abuse of Children, ha spiegato che un altro effetto della lettera apostolica del 2001 è stato l’imposizione di uno statuto delle limitazioni di tempo di 10 anni ai casi di pedofilia laddove, in base ad un’attenta lettura del diritto canonico, nessuno l’aveva  in precedenza applicato.

“Quando si pensa a quanto dolore si sarebbe potuto evitare, se solo avessimo avuto una più chiara idea del nostro diritto”, ha detto. “È una terribile ironia. Non sarebbe dovuto accadere”.

Benché la lettera apostolica sia stata elogiata per la sua chiarezza, essa riaffermava anche il requisito secondo cui tali casi dovevano essere gestiti con la massima riservatezza, sotto il “segreto pontificio”, attirando così la critica di molti che ritenevano che la Chiesa continuasse a non voler denunciare i criminali alle autorità civili.

 

Riforme, ma di portata limitata

 

Dopo l’adozione delle nuove procedure, il dicastero del card. Ratzinger è diventato più collaborativo di fronte alle richieste di misure disciplinari contro preti, hanno affermato vescovi che hanno chiesto aiuto al suo ufficio. Ma quando lo scandalo degli abusi è esploso nuovamente, a Boston nel 2002, è stato immediatamente chiaro ai vescovi americani che le nuove procedure erano inadeguate.

In un incontro a Dallas nell’estate del 2002, i vescovi americani adottarono una serie di normative canoniche più dure che imponevano ai vescovi di denunciare qualsiasi accusa criminale alle autorità civili, e di allontanare in modo permanente dal ministero i preti oggetto anche solo di un’accusa credibile di abuso. Chiesero al Vaticano anche una procedura più snella per disciplinare i preti per i quali non era necessario un prolungato processo canonico.

Il Vaticano inizialmente rifiutò le norme proposte dai vescovi americani. Una commissione di vescovi americani e di autorità vaticane, tra cui il vice del card. Ratzinger, annacquarono il requisito della denuncia obbligatoria per dire solo che i vescovi dovevano applicare le leggi civili sulla denuncia di un crimine, che variano di molto a seconda del luogo.

La Congregazione per la Dottrina della Fede riservò a se stessa il potere di dimettere un prete dallo stato clericale senza processo canonico pieno: il genere di rimedio amministrativo che i vescovi americani avevano a lungo chiesto al Vaticano di delegare loro.

In ogni caso, i vescovi americani ottennero gran parte di ciò che avevano chiesto, e il card. Ratzinger li difese, ha detto l’arcivescovo Wilton D. Gregory, all’epoca presidente della Conferenza episcopale dei vescovi cattolici Usa.

Gli americani avevano il permesso di applicare le norme di tolleranza zero per i preti responsabili di abusi, rendendo le regole per la Chiesa negli Stati Uniti più stringenti che nel resto del mondo. La Congregazione per la dottrina della Fede disse anche che avrebbe rinunciato allo statuto delle limitazioni caso per caso, qualora i vescovi lo avessero chiesto.

L’arcivescovo Gregory ha detto di aver fatto 13 viaggi a Roma in tre anni, quasi sempre per incontrare il card. Ratzinger. “Ci sosteneva straordinariamente in ciò che stavamo facendo”, ha detto in un’intervista.

Altre riforme applicate dai vescovi americani hanno comportato la richiesta di referenze per il personale ecclesiastico a contatto con i bambini, un miglior controllo dei seminaristi, formazione per il riconoscimento dell’abuso, controlli annuali dell’osservanza delle norme in ogni diocesi e organismi di revisione di laici per consigliare i vescovi sul modo in cui affrontare i casi di abuso. Misure che sembrano avere un impatto positivo. L’anno scorso, secondo la Conferenza episcopale Usa, 513 persone hanno sporto denuncia di abuso sessuale contro 346 preti o altre figure ecclesiastiche, circa un terzo di casi in meno rispetto al 2008. Il Vaticano, però, non ha applicato preventivamente queste misure in altri Paesi, e ora è alle prese con problemi di abuso altrove. Sono emersi in Cile, Brasile, India e Italia casi di vescovi che  hanno tranquillamente mantenuto nel loro ministero preti accusati senza informare i parrocchiani o le autorità locali. Benedetto XVI, che è papa da cinque anni, deve ancora far capire se intende esigere dai vescovi di tutto il mondo - e dalla sua Curia - che tutti i preti che hanno commesso abuso e i vescovi che li hanno coperti debbano essere puniti.

Dal momento che la crisi, quest’anno, è proliferata a livello internazionale, alcuni cardinali in Vaticano hanno continuato a accusare i media e a etichettare la critica come persecuzione anticattolica. Benedetto XVI stesso ha virato dall’atteggiamento difensivo al pentimento, dicendo, a marzo, che i fedeli non devono farsi intimidire dal “basso pettegolezzo dell’opinione dominante” e, a maggio, dicendo ai giornalisti che “la più grave persecuzione della Chiesa non viene dai nemici esterni, ma nasce dal peccato interno alla Chiesa”.

Il Vaticano, inoltre, non ha mai obbligato i vescovi del mondo a denunciare i molestatori alle autorità civili, o ad avvisare le parrocchie e le comunità in cui il prete pedofilo ha lavorato, informazione che spesso spinge più vittime a fare un passo (le autorità vaticane mettono in guardia sul fatto che una denuncia obbligatoria può essere pericolosa nelle dittature o in Paesi dove la Chiesa è già soggetta a persecuzioni).

Solo ad aprile il Vaticano ha postato sul sito web delle “linee guida” dicendo che le autorità della Chiesa devono osservare le leggi civili sulla denuncia di abusi. Ma si tratta di raccomandazioni, non di prescrizioni.

Oggi, un dibattito sta agitando il Vaticano, opponendo coloro che considerano problematica la tolleranza zero americana, perché non consente lo svolgimento di un processo per i preti accusati, a coloro che vogliono cambiare il diritto canonico per facilitare la punizione e la dimissione dei preti dallo stato clericale. In quale punto di questo spettro Benedetto si collochi è ancora una questione aperta, anche dopo tre decenni di gestione di casi di abuso.

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