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MINATORI INTRAPPOLATI, MAPUCHE IN SCIOPERO DELLA FAME. E IL CILE NEOLIBERISTA FESTEGGIA L’INDIPENDENZA

Tratto da: Adista Notizie n° 68 del 18/09/2010

35760. SANTIAGO-ADISTA. Nel Cile in festa per il bicentenario dell’indipendenza dalla Spagna (18 settembre) due diversi drammi, o, meglio, due diverse espressioni di un unico dramma, ricordano quanto poco ci sia da celebrare: uno – quello dei 33 minatori intrappolati sotto terra nel deserto di Atacama – sotto i riflettori nazionali e internazionali; l’altro – quello dei 32 mapuche in sciopero della fame da 60 giorni – nell’implacabile indifferenza del mondo. 


Come un reality

La notizia che i minatori erano sopravvissuti al crollo della miniera San José, dopo 17 giorni di vane ricerche, ha, naturalmente e giustamente, emozionato tutto il Cile. Ed è un intero Paese (e non solo) che sta seguendo con il fiato sospeso la vicenda dei 33 uomini, le cui condizioni sono fortunatamente un po’ migliorate da quando, attraverso tre sonde di sette centimetri di diametro che li raggiungono a settecento metri di profondità, hanno ricevuto lettini pieghevoli, grazie a cui non sono più costretti a dormire a contatto con il suolo, abiti, scarpe adatte al fango e pasti caldi. E, naturalmente, da quando possono comunicare in maniera sistematica con i propri familiari. Potranno, ora, contare anche sui consigli di un team di esperti della Nasa, giunti in Cile per aiutarli nel compito di sopravvivere in spazi ristretti per un lungo periodo di tempo, e in più ad una temperatura che oscilla tra i 35 e i 38 gradi con un’umidità superiore al novanta per cento. Un tempo infinito, si può dire, giacché le operazioni di salvataggio proseguiranno almeno per altri due mesi in mezzo al terrore di ulteriori smottamenti e crolli. Ma se la partecipazione dell’intera comunità nazionale al dramma dei minatori è sicuramente una bella notizia, lo è di meno, come evidenzia il Comitato Oscar Romero del Cile della rete mondiale Sicsal, “l’utilizzo politico del dolore delle famiglie da parte delle autorità, attraverso i canali della televisione, come se si trattasse di un reality”. Come afferma Carlos Iaquinandi Castro del Serpal (Servicio de prensa alternativo, 31/8), il presidente Sebastián Piñera “aveva ordinato che di fronte a un eventuale ritrovamento di sopravvissuti si attendesse il suo arrivo sul posto prima di comunicare la notizia ai familiari e ai cittadini”, ottenendo così di veder “moltiplicato su migliaia di prime pagine il proprio volto sorridente nell’atto di mostrare il laconico ma preciso messaggio” - “Stiamo bene. Nel rifugio siamo 33” - inviato dalle viscere della terra dai minatori intrappolati. E così la tragedia dei minatori è diventata per il presidente l’occasione per dar lustro all’immagine del suo governo: “formula dichiarazioni, destituisce funzionari, promuove atti di preghiera, convoca la Nasa e occupa ogni fessura mediatica con promesse e impegni”.

Più grave ancora, però, è il fatto che nulla si sia fatto e si stia facendo contro i proprietari della miniera San José, Alejandro Bohn e Marcelo Kemeny, malgrado in questa siano morti, a partire dal 2003, tre lavoratori all’anno (l’ultimo incidente si è verificato lo scorso luglio e in quell’occasione un lavoratore ha perso una gamba). Come ricorda il Comitato Oscar Romero, la miniera era stata chiusa nel 2007 per le ripetute trasgressioni alle norme di sicurezza, ma era stata riaperta già l’anno successivo. Secondo l’ex deputato Antonio Leal (radio.uchile.cl, 11/8), Alejandro Bohn “minacciò il direttore regionale di Sernageomin (Servicio Nacional de Geología y Minería), Anton Hraste, di fargli perdere il posto se non avesse provveduto alla sua riapertura”. E “oggi - prosegue il Comitato – i proprietari hanno annunciato che si dichiareranno in bancarotta, per non finanziare i costi del salvataggio dei minatori”.

Già il 30 luglio scorso, il segretario del sindacato dei lavoratori della miniera Javier Castillo aveva parlato di una “situazione catastrofica”. “In qualsiasi momento – aveva denunciato – potrebbe verificarsi un crollo: il governo deve intervenire”. Ma il governo non è intervenuto. Così, i familiari dei minatori hanno fatto causa tanto ai proprietari quanto allo Stato cileno: “La miniera - ha affermato Moisés Labraña, vicepresidente della Confederación Minera de Chile e leader storico del settore - non avrebbe mai dovuto essere riaperta, perché presenta falle strutturali”.

 

I mapuche, desaparecidos mediatici

I riflettori accesi sul dramma dei minatori lasciano invece completamente in ombra quello dei 32 detenuti mapuche in sciopero della fame, a cui si sono aggiunti il primo settembre scorso tre minorenni internati nel carcere minorile di Chol Chol. L’estrema misura di protesta ha avuto inizio il 12 luglio nelle prigioni di Temuco e Concepción per poi estendersi anche alle carceri di Angol, Valdivia e Lebu. I mapuche chiedono l’abolizione della Legge antiterrorista promulgata durante la dittatura di Pinochet, che permette la detenzione illimitata dei sospettati, prevede la possibilità di un doppio processo, civile e militare (in aperta violazione ai trattati internazionali sottoscritti dal Cile) e, nel caso vengano riconosciuti colpevoli, consente di duplicare o addirittura triplicare le pene. Un’arma usata dallo Stato, tanto dai governi della Concertación di centro-sinistra quanto da quelli di destra, per mettere un freno alle rivendicazioni dei mapuche, alla loro lotta per il recupero delle terre ancestrali violentemente usurpate e per il diritto all’autodetermina-zione. Un’arma a cui i mapuche, figli di un popolo guerriero che non si è mai arreso ai colonizzatori, oppongono l’unica carta che è loro rimasta, quella dei loro corpi.

“La situazione è preoccupante e dunque urge un dialogo per cercare, con razionalità e buona volontà, una soluzione al problema”, ha affermato l’arcivescovo di Concepción mons. Ricardo Ezzati, recandosi in visita ad alcuni dei detenuti in sciopero della fame. “Si tenga conto - ha aggiunto - che le cose possono diventare più gravi”.

Fermo nel suo rifiuto di negoziare con i prigionieri politici, il presidente Piñera si è tuttavia limitato a firmare il progetto di legge di modifica della Legge antiterrorista grazie a cui i detenuti verrebbero giudicati soltanto dai tribunali civili. Una riforma, però, ritenuta del tutto insufficiente dai mapuche, i quali esigono la completa abolizione della legge.

“Signor presidente - scrive a Piñera Relmutray Cadin Calfunao, una bambina mapuche di 12 anni in esilio in Svizzera, figlia di una prigioniera politica in carcere da oltre 4 anni per oltraggio a pubblico ufficiale e sorella di uno dei detenuti in sciopero della fame -, io non mi intendo di politica perché sono solo una bambina, ma mi chiedo: perché tanta repressione contro il mio popolo? I mapuche che passano anni in carcere, come mia madre, non hanno ucciso né rubato mentre i poliziotti che negli ultimi anni hanno ucciso cinque giovani e ne hanno fatto sparire un altro si trovano in libertà. Dove sta la giustizia?”. Malgrado tutto, scrive ancora la bambina, “il mio grande desiderio è quello di tornare. Se questa repressione cessasse (…), potrei far ritorno alla mia comunità a godere del paesaggio naturale della mia terra e riunificarmi ai miei genitori e ai miei fratelli. Dipende da lei, signor presidente”.

Ma Sebastián Piñera non si prenderà certo la briga di rispondere alla bambina.

 

Il messaggio di solidarietà dei minatori

L’agenda di rivendicazioni dei mapuche – scrive il sociologo argentino Atilio Borón (www.atilioboron.com, 1/8))– “è estesa e di carattere strutturale, opponendosi al lubrificato ingranaggio dell’accumulazione e dello sfruttamento capitalista im voga nel Cile attuale. Per questo lo sciopero dei mapuche non è notizia e deve passare sotto silenzio”: i mapuche “sono ‘desaparecidos mediatici’ e l’opinione pubblica non sa nulla di loro”. Se fossero cubani, prosegue, “il loro sciopero della fame avrebbe guadagnato le prime pagine della ‘stampa libera’ di tutto il mondo’. Ma i mapuche non sono cubani”. E, si sa, per ottenere l’attenzione dei grandi oligopoli mediatici che controllano l’informazione, “uno sciopero della fame non basta. Si deve farlo nel luogo appropriato”. Ma se i mezzi di comunicazione ignorano i mapuche, non tacciono invece i 33 minatori intrappolati nelle viscere della terra, i quali, volendo esprimere la loro solidarietà ai 32 prigionieri politici in pericolo di vita, hanno fatto giungere in superficie due foglietti subito censurati: su uno c’era scritto “Callate (taci, ndr) Piñera”; sull’altro “Pesquen (salvate, ndr) a los Mapuches”.

“In un'epoca di egoismi sfrenati e di individualismo esasperato - scrive nel “Mininotiziario America Latina dal basso” (n. 89 del 31 agosto 2010) Aldo Zanchetta - il fatto che siano 33 ‘prigionieri della miniera’ a rischio della propria vita a ricordare al mondo il dramma dei loro concittadini indigeni è commovente e portatore di una visione della vita alternativa, quella della solidarietà e dell'impegno fraterno come base di un diverso sentire”. (claudia fanti)

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