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Negoziati senza pace

- Sono ripresi i colloqui tra Israele e Palestina. Ma è flebile la speranza di una soluzione equa

Tratto da: Adista Contesti n° 70 del 18/09/2010

Tratto dal quotidiano libanese “L’Orient-Le Jour” (4/9/2010). Titolo originale: “Terre et paix”

 

È in condizioni quantomeno poco favorevoli che un’Autorità palestinese autonoma ridotta alla sua più semplice espressione, sostenuta dagli Stati arabi moderati, ha deciso di riprendere dei negoziati diretti con Israele.

Di fronte all’arrogante sicurezza di Benjamin Netanyahu, Mahmoud Abbas crolla sotto il peso degli handicap. In fatto di autorità, quella che presiede non ne ha né ne esercita alcuna su una significativa frazione del suo popolo, guidata dagli irriducibili di Hamas. Per contrastare una feroce concorrenza, non ha da offrire ai suoi che un alleggerimento del blocco di Gaza. Alla vigilia dei colloqui di Washington, lo Stato ebraico ha invece fatto sapere che la moratoria sulla costruzione delle colonie in Cisgiordania - una concessione puramente formale strappata con fatica da Barack Obama - non sarà prolungata oltre il 24 settembre come reclamano invece con insistenza i palestinesi. Che succederà allora? È una disarmante risposta di cinico candore quella che ha dato il presidente statunitense quando ha lanciato questo avvertimento all’indirizzo del solo Mahmoud Abbas: “Non pensate di abbandonare il tavolo di negoziato perché a perdere sarete voi…

Un tale verdetto unilaterale è indegno dell’uomo più potente del Pianeta, un uomo che inoltre ha subito affronti su affronti da parte del suo intrattabile protetto israeliano. Resta ahimé che questo avvertimento illustra effettivamente la vera impasse strategico di cui è prigioniero il popolo palestinese. Il tempo lavora a favore di chi? Sono decenni che le parti si affrontano, auspicando gli uni che lo Stato ebraico, a dispetto della sua schiacciante superiorità militare, finisca per diluirsi sotto l’inesorabile pressione demografica araba, e gli altri che riesca a imporsi irrimediabilmente in un ambiente sistematicamente frammentato. Ciononostante, il presente è allegramente accantonato delle sapienti impalcature degli uni e degli altri, un presente crudele di esodo che non si ferma dalla Nakba del 1948, un presente di dispersione e di sterile violenza che già minaccia di ipotecare il futuro.

Perché è evidente che Israele non cerca la pace, ma terra e pace, o anche terra senza pace. Prestarsi a una negoziazione in un tale stato di squilibrio e di disuguaglianza di forze, è aiutare Netanyahu e compagni a guadagnare tempo e a rosicchiare, lentamente ma inesorabilmente, ciò che resta della Palestina, ma rifiutarsi, come sconsiglia Obama, non è ugualmente permettere a Israele di inglobare tranquillamente i Territori? Questo dilemma avrebbe potuto essere aggirato dall’opzione della lotta armata. Tuttavia non quella praticata, finanziata, manipolata e sfruttata per fini di espansionismo politico e ideologico totalmente estranei alla causa sacra.

Frattura nazionale e dipendenza da terzi, al di là delle frontiere, sono sempre state le due piaghe della Palestina. Ciò che è cambiato è che alla vecchia distinzione tra palestinesi dell’interno e palestinesi della diaspora si è sovrapposta, a volte sotto forma di guerra civile, l’aspra rivalità tra Ramallah e Gaza; e, ancora, non sono più gli Stati arabi che gestiscono l’utopico progetto di una guerra di mille anni, ma una repubblica islamica, l’Iran, ansiosa di estendere la sua influenza all’intera regione tramite Hamas e Hezbollah.

Divisione, dipendenza: un’accoppiata che opprime gli sfortunati palestinesi, ma di cui la sola evocazione dovrebbe spaventare quello che fu il più invidiato dei popoli arabi, i libanesi.

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