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Chiesa di frontiera. Casa Rut: strade di liberazione

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 13 del 19/02/2011

Martina è romena, Mary e Sophia sono nigeriane. Hanno una dura storia di violenza e sfruttamento alle spalle, ma da qualche anno lavorano nella sartoria etnica neWhope, a Caserta, cooperativa sociale nata all’interno di Casa Rut, spazio di accoglienza ma soprattutto esperienza di punta nella lotta alla tratta degli esseri umani e nel contrasto alla prostituzione forzata che, secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, in Italia riduce in schiavitù almeno 30mila donne. Insieme ad altre sei ragazze, producono abiti, borse, tovaglie, utilizzando solo stoffe africane – luogo di provenienza di molte di loro – e tessendo pazientemente i loro percorsi di liberazione dalla paura, dalla violenza e dal sopruso per riconquistare e ricostruire una dignità che è stata umiliata e calpestata quotidianamente da uomini, bianchi, talvolta padri di famiglia, spesso cristiani.
La sartoria etnica è un piccolo strumento di «economia solidale dove i percorsi di integrazione si sono rivelati vincenti rispetto a quelli repressivi», spiegano operatori e volontari di neWhope. «Viviamo in una fase storica caratterizzata da una grave crisi dell’economia di mercato e da una ancor più grave crisi che ha aperto varchi paurosi al “non riconoscimento” dell’altro, anzi alla diabolica costruzione dell’altro come “nemico” portando ad elaborare leggi disumane nei confronti degli immigrati, redatte in aperto contrasto con il rispetto della dignità delle persone, del principio di eguaglianza e dei diritti fondamentali. Crediamo che la neWhope, nata attraverso un processo di autorganizzazione dal basso di comunità religiose, donne migranti e laici, sia un piccolo segno di resistenza contro questa deriva».
Se NeWhope nasce nel 2004, Casa Rut apre le porte nel 1997, l’8 marzo, una data scelta non casualmente dalle quattro suore orsoline partite dal profondo e ricco nord-est alla volta di Caserta due anni prima. E non casuale è anche il nome scelto, Rut, la donna moabita che, secondo il racconto biblico, rimasta vedova, sceglie di seguire in terra straniera la suocera, Noemi, vedova anche lei. «Come donne pure noi abbiamo scelto di incontrare altre donne», spiega Rita Giaretta, guida della piccola comunità religiosa, originaria di Quinto Vicentino (il Comune che si oppose con successo alla costruzione del villaggio per militari statunitensi destinati alla nuova base al Dal Molin, v. Adista n.1/08). Cinquantacinquenne, infermiera, militante del sindacato, poi la scelta religiosa e l’impegno per la liberazione delle donne: dopo un anno di lavoro nel carcere femminile, poi chiuso e trasferito fuori città, la scoperta, girando per le strade del casertano, di numerose giovani donne straniere, in maggioranza africane e dell’Europa dell’est, costrette con la violenza a prostituirsi. E così, racconta suor Rita Giaretta, «l’8 marzo del 1997 siamo scese per la prima volta in strada, con la nostra macchina scassata, per incontrare queste donne, con paura e circondate da persone che ci scoraggiavano, che ci mettevano in guardia dai pericoli, dal racket». Incontri sconvolgenti, storie di violenza fisica e psicologica – soprattutto nei confronti delle donne africane soggiogate dai riti woo-doo –, di umiliazioni quotidiane da parte di «maschi in crisi di identità, incapaci di relazioni autentiche e malati di manie di superiorità e onnipotenza, perché quando l’uomo tira fuori il denaro per pagare la prestazione, intende esprimere questo potere: io ti acquisto, tu sei mia, io posso esercitare fino in fondo il mio dominio». E richieste di aiuto, da cui nasce Casa Rut, un «luogo di accoglienza e una possibilità concreta di riscatto per coloro che ci chiedevano di aiutarle a lasciare la strada». Tre appartamenti al piano terra di un condominio nella centralissima corso Trieste, in cui si può vivere insieme ma in totale autonomia. Una scelta che «offriva sia a noi sia alle ragazze – spiega suor Giaretta – maggiore protezione e possibilità di relazione con la città, ma che aveva anche un forte significato simbolico: dare una possibilità e riconoscere il diritto a queste giovani donne, relegate ai margini delle strade e delle periferie, di abitare la città e provocarla a farsi spazio di accoglienza». Non come favore, ma come diritto, a cominciare dai servizi, come la sanità e la scuola, e il lavoro. «Avremmo potuto creare una struttura dove fare assistenza, accogliere tante persone, dare da mangiare, da dormire, ma abbiamo scelto di fare altro», prosegue: «Percorsi di integrazione e di liberazione personalizzati che coinvolgano un numero limitato di persone che il territorio sia in grado di sostenere, perché crediamo che sia il territorio a dover dare le risposte. Il medico non deve lavorare dentro Casa Rut dal momento che c’è l’Asl a doversi occupare della salute delle persone, non vogliamo la scuola privata in casa, visto che esiste una scuola statale e pubblica. Cerchiamo di lavorare e di lottare per i diritti delle donne e degli uomini, e io non devo sentirmi obbligata a dire grazie, non devo inchinarmi, perché chiedo il riconoscimento e il rispetto di un diritto. Le logiche dell’assistenza, dell’emergenza, del favore clientelare sono sempre dei cappi al collo che tengono le persone nella dipendenza».
Casa di accoglienza quindi, dove in quasi 14 anni sono passate più di trecento donne, cooperativa sociale di lavoro, che cerca di stare sul mercato, e azione politica di denuncia, senza il timore di essere strumentalizzate e magari chiamate “suore rosse”, nella consapevolezza che un percorso di liberazione integrale non può farne a meno. E allora, qualche anno fa, la presa di posizione pubblica contro le Questure che, in palese violazione della legge, non rilasciavano più il permesso di soggiorno speciale alle donne immigrate che scappavano da situazioni di violenza e di sfruttamento (v. Adista n. 67/06). Poi le forti critiche – insieme ad altre associazioni che lavorano contro lo sfruttamento sessuale – alla legge anti-prostitute voluta dalla ministra per le Pari Opportunità Mara Carfagna, a cui suor Giaretta scrive per ricordarle che «la donna costretta a vendere il proprio corpo e che continua a subire violenza» da parte degli uomini «è una vittima» che «va aiutata e tutelata nei suoi diritti, non condannata» (v. Adista n. 70/08). Ancora la lotta, anche nelle piazze, accanto agli immigrati contro le leggi razziste del pacchetto sicurezza, «la cattiveria trasformata in legge», come si diceva in un documento delle suore di Casa Rut sottoscritto insieme ai comboniani e ai sacramentini di Caserta, Castelvolturno e Napoli (v. Adista n. 41/09). E qualche giorno fa la lettera aperta al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in difesa della dignità delle donne (v. Adista n. 10/11), pubblicata su Repubblica, letta dall’attrice Lunetta Savino all’Infedele di Gad Lerner, che sta continuando a fare il giro della rete: «Sono sconcertata nell’assistere come da ville del potere alcuni rappresentanti del governo, eletti per cercare e fare unicamente il bene per il nostro Paese, soprattutto in un momento di così grave crisi, offendano, umilino e deturpino l’immagine della donna. Inquieta vedere esercitare un potere in maniera così sfacciata e arrogante che riduce la donna a merce e dove fiumi di denaro e di promesse intrecciano corpi trasformati in oggetti di godimento», scrivono suor Rita e le sue consorelle. E davanti a questo “spettacolo” sono poche le voci, «anche dei credenti, che si alzano chiare e forti. Nei loro silenzi c’è ancora troppa omertà, nascosta compiacenza e forse sottile invidia. Credo che dentro questo mondo maschile, dove le relazioni e i rapporti sono spesso esercitati nel segno del potere, c’è un grande bisogno di liberazione».

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