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UNA RADICALE INVERSIONE DI ROTTA

- Intervista a Luiz Carlos Susin

Tratto da: Adista Documenti n° 20 del 12/03/2011

Qual è il tuo bilancio di questa IV edizione del FMTL? La novità di un Forum più strettamente intrecciato con il FSM ha prodotto risultati positivi?

Il Consiglio permanente del FMTL aveva di fatto strutturato questa edizione del Forum sulla base di tre suggerimenti anteriori: 1. una maggiore integrazione con il Forum Sociale Mondiale; 2. più tempo per l’elaborazione e la discussione di proposte per il lavoro teologico; 3. una maggiore caratterizzazione come forum di discussione piuttosto che come congresso tematico. Ma, tra quanto programmato e quanto realizzato, abbiamo avuto alcune sorprese, di ordine culturale e di ordine politico.

Dal punto di vista culturale, tutta l’organizzazione è stata adattata, al momento della realizzazione del Forum, ai tempi e all’offerta di alternative di Dakar. Abbiamo dovuto apprendere rapidamente come in questa regione dell’Africa, alla domanda “A che ora si comincia?”, si risponda: “All’ora in cui saremo arrivati tutti!”. I tempi, cioè, non seguono in maniera prioritaria l’orologio, bensì i ritmi umani. È stata una lezione che abbiamo appreso in ogni momento e che ha assunto un valore essenzialmente positivo.

Tuttavia, c’è stato un fatto politico che ha bloccato il nostro primo obiettivo: quasi alla vigilia del FSM, all’Università Sheikh Anta Diop, la più grande di Dakar, si è avuto, per ragioni di politica accademica, un cambiamento della direzione universitaria da parte del governo. Il nuovo rettore, sostenitore della visione negativa del presidente della Repubblica riguardo al FSM, non ha sospeso le lezioni come era stato concordato. Di conseguenza, si è avuta una generalizzata crisi di spazi, di mancanza di aule. Tentando di far fronte alla situazione, l’organizzazione tardava a pubblicare le attività con i rispettivi luoghi di realizzazione. E così si è giunti a una situazione disastrosa: l’indicazione delle attività che cominciavano la mattina veniva resa nota solo nel pomeriggio e nessuno trovava più alcuna traccia dei seminari, eccetto che per i tendoni previamente organizzati da alcune ong. In mezzo a questo caos, la nostra intenzione di realizzare seminari negli spazi e nei giorni del FSM è completamente naufragata: abbiamo preso “d’assalto” alcuni spazi, ma siamo rimasti soltanto tra noi, senza la possibilità di pubblicizzare le nostre iniziative come pure di scegliere altri seminari che non fossero i nostri. Siamo rimasti così “tra uguali”! Quest’obiettivo è fallito totalmente, ci sarà bisogno di un nuovo FSM per raggiungerlo!

 

L'obiettivo del FMTL era quello di tracciare un'agenda per la teologia in chiave liberatrice per i prossimi anni. Quali sono le massime priorità? E quali i campi in cui si riscontrano maggiori difficoltà e ritardi?

La parte più positiva del FMTL è stato il seminario realizzato mentre si svolgevano le assemblee di convergenza del FSM. Si è lavorato un giorno intero per gruppi linguistici più un altro giorno di discussione in plenaria. La questione centrale era quella della teologia liberatrice necessaria per rispondere a questioni non soltanto regionali e contestuali, ma anche globali, in un contesto mondiale. Si è discusso di temi come la rivalutazione del linguaggio mitico dei popoli, il canone delle fonti, l’ottica etnica e quella femminista, fino alla politica globale dell’impero chiamato Mercato, tanto seducente anche per i popoli in cerca di alternative. In ultima istanza, per il lavoro dei prossimi anni, al fine di portare avanti una teologia nella prospettiva della liberazione che contribuisca alla trasformazione del nostro mondo globalmente, sono stati evidenziati due elementi, uno di ordine globale e l’altro di ordine locale: la politica globale e la vita quotidiana dei popoli.

In questo forum un significativo gruppo di teologi e teologhe ha insistito sul “ritorno dell’accento sulla politica”, nel riconoscimento del fatto che, senza affrontare le grandi questioni politiche del nostro tempo, qualunque efficacia sarebbe compromessa. Continuiamo a dover fare i conti con una struttura “imperiale” del mercato neoliberista, malgrado le sue ripetute crisi, ed è all’interno di essa, nel ventre del mostro che opera con la sottigliezza della seduzione del desiderio, che dobbiamo mettere a disposizione la parola della teologia. È questo l’appello a una teologia decostruttiva, profetica, che dialoghi con altre discipline e con altre conoscenze.

Ma esiste anche l’altro lato, costruttivo, il cui punto di partenza è la vita quotidiana dei popoli in cui siamo inseriti. In questo secondo aspetto, si è registrata una discussione molto stimolante, in contrasto con la teologia classica che conosciamo, sulla comunità di fede e di appartenenza e sulle fonti, i “luoghi teologici”. Il Forum ha insistito su una chiara inversione di rotta, un’inversione rivoluzionaria, che già veniva operata tramite l’“opzione preferenziale per i poveri”: la vita del popolo è il luogo in cui si dà la comunità di appartenenza primaria di fede, più che l’istituzione confessionale. E il “canone” della vita con i suoi clamori e i suoi segnali di liberazione è il primo canone, anteriore al testo fondante, che nel nostro caso sono le Scritture. È la vita che giudica in primo luogo la Scrittura e tutte le altre fonti orali e scritte delle tradizioni religiose. Ciò vale di per sé, ma permette anche, nel nostro mondo pluralista e ricco di religioni che si stanno bene o male incontrando, che la teologia si apra alle religioni, superi le frontiere della propria tradizione cristiana, diventi una teologia virtualmente aperta a qualunque fonte da cui derivi un segnale di liberazione. Si tratta, è chiaro, di una teologia di frontiere e di alleanze oltre frontiera, che non sostituisce le funzioni classiche della teologia. Pertanto, riassumendo, il contesto globale della politica internazionale e la vita dei popoli come canone primario e primo luogo teologico sono stati i due punti maggiormente discussi. Può sembrare poco, ma se ciò viene preso sul serio darà frutti importanti.

 

Che valutazione dai di questo secondo FSM in terra africana, in particolare rispetto a quello di Nairobi?

L’Africa è un modo di essere, tanto nel continente come nella diaspora. Quando si sta in Africa si riceve sempre l’impatto proprio di questo modo di essere, che obbliga ad entrare in un tempo e in uno spazio e soprattutto in un tipo direlazioni di grande intensità. In tal senso, c’è un valore simbolico molto forte in qualunque realizzazione africana del FSM. Il Forum di Nairobi aveva sofferto molte restrizioni, in termini di sicurezza, che avevano impedito alla popolazione locale una maggiore partecipazione. Quello di Dakar, in questo senso, è stato più libero e ha registrato una maggiore partecipazione locale. Questo è stato il primo Forum in un Paese a maggioranza musulmana, e sotto questo aspetto ha funzionato molto bene. Gli eventi della Tunisia e dell’Egitto e la tendenza che tali eventi sorprendenti indicano hanno molto stimolato le discussioni del FSM di Dakar. Vi sono stati anche obiettivi più definiti, soprattutto di ordine politico, per quanto il protagonismo delle Ong non abbia dato spazio alla novità che proviene dai Paesi arabi: il protagonismo dei giovani e dei nuovi mezzi di comunicazione, le reti sociali. È stata impressionante e decisiva la partecipazione delle donne in questo Forum. Oserei dire che è stato un Forum in cui le donne sono state più importanti degli uomini. E, tra queste, le africane, le senegalesi, hanno esercitato un ruolo di leadership. Per tutto ciò, si è avuta più partecipazione che a Nairobi. È stato un passo avanti. Ma quello di Mumbai, in India, continua ad essere il forum con la migliore partecipazione locale, mentre quello di Belém il forum con la maggiore varietà, per quanto ciò non si traduca necessariamente in efficacia.

 

In continuità con il FSM di Belém, le forze politiche hanno nuovamente ricevuto, in questo Forum, grande visibilità. Ma questa volta si è trattato soprattutto di forze che non hanno di certo brillato in relazione al superamento del modello capitalista. Il grande spazio riservato a Lula e a Gilberto Carvalho (in rappresentanza del governo Rousseff) non introducono un elemento di forte ambiguità nel processo del Forum?

Il ministro Gilberto de Carvalho e il presidente boliviano Evo Morales hanno parlato all’apertura del Forum. Lula è intervenuto a fianco del presidente del Senegal, mettendolo in ombra per la gioia dei suoi oppositori. I lunghi discorsi politici, per quanto i contenuti fossero importanti e meritevoli di considerazione, si sono rivelati inopportuni in una cerimonia di apertura che avrebbe dovuto essere più festiva e con una maggiore varietà di parole d’ordine. Per questo ritengo che siano stati inefficaci e di minore impatto. Non è stato così, però, con Lula. Il grande spazio riservato al Brasile può essere forse spiegato in due maniere: il FSM è nato in Brasile e diversi Paesi africani guardano al Brasile come ad un Paese “parente” che offre alcune alternative di crescita in contrasto con le ricette delle grandi istituzioni economiche del Primo Mondo, come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Ma ci troviamo su un terreno molto ambiguo: una cosa è il “ritorno dell’elemento politico” soprattutto di fronte ai movimenti popolari nei Paesi arabi, e un’altra cosa è una politica come quella espressa dal governo del Brasile che presenta elementi ambigui in relazione al neoliberismo: qui si è registrato un miglioramento delle condizioni sociali, ma, soprattutto, una crescita dei grandi proprietari rurali e dei profitti delle banche. Penso che la fama di cui è circondato il “lulismo”, che tanto piace alla popolazione brasiliana e a quella africana, sia eccessiva rispetto alla realtà dei fatti. 

 

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