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“BANCHE ARMATE” SEMPRE PIÙ RICCHE. LA RELAZIONE DEL GOVERNO SULL’EXPORT DI ARMI

Tratto da: Adista Notizie n° 41 del 28/05/2011

36150. ROMA-ADISTA. Calano le esportazioni di armi italiane nel mondo, ma triplicano i guadagni delle “banche armate” – gli istituti che forniscono servizi di appoggio alle industrie armiere –, che nel corso del 2010 hanno incassato compensi di intermediazione per 95 milioni di euro (v. Adista n. 32/11), contro i 36 dell’anno precedente. E in parte si modifica la classifica delle banche più “armate” d’Italia: per quanto riguarda le operazioni di esportazione, scompare dai primi posti il gruppo Ubi – che lo scorso anno aveva raggiunto la vetta (v. Adista n. 41/10) –, invece sale UniCredit, che gestisce anche i due terzi dei movimenti per i «programmi intergovernativi» (ovvero i progetti internazionali di riarmo), conquistando così – se si sommano i due importi – i galloni di prima banca armata italiana. Sono i dati che emergono dalla Relazione sull’export di armi che il governo ha reso pubblici lo scorso 17 maggio, con quasi due mesi di ritardo rispetto a quanto previsto dalla legge (dati che in parte aveva anticipato, nei giorni scorsi, Unimondo)

 

Esportazioni: le banche estere ai primi posti

Per quanto riguarda le esportazioni, gli istituti che hanno movimentato il maggior numero di soldi per conto delle industrie italiane sono due banche estere: Bnp Paribas con 862 milioni di euro – a cui però vanno aggiunti anche i 97 milioni di Banca Nazionale del Lavoro, facente parte dello stesso gruppo – e Deutsche Bank, con poco meno di 836 milioni di euro. Insieme gestiscono quasi il 60% dell’intero volume di movimenti di esportazione, pari a 3 miliardi di euro. «Al di là delle cifre – commenta Giorgio Beretta, caporedattore di Unimondo ed esperto del settore – ciò che solleva più di un interrogativo è la  sostanziale mancanza da parte delle due banche di specifiche direttive in materia di servizi all’industria militare e all’esportazione di armamenti. Mentre la quasi totalità degli istituti di credito italiani, a seguito di puntuali domande di trasparenza sollevate da diverse campagne di pressione animate in particolare dalle riviste Missione Oggi, Mosaico di pace e Nigrizia, già da vari anni ha messo in atto precise direttive per definire e limitare la propria partecipazione nel finanziamento e nell’offerta di servizi all’industria militare, Bnp Paribas e Deutsche Bank paiono mostrare scarsa attenzione al tema».

Al terzo posto, la prima banca italiana, ovvero UniCredit, con un volume di quasi 298 milioni di euro, in costante e progressivo aumento da tre anni a questa parte, del resto in linea con la modifica delle direttive del gruppo, dal «disimpegno» annunciato dieci anni fa ad un rinnovato impegno, nella consapevolezza che «alcuni tipi di armi sono necessarie al perseguimento di obiettivi legittimi, accettati dalla comunità internazionale, quali le missioni di pace e la difesa nazionale». «Nonostante le sostanziali modifiche alle direttive rispetto agli annunci del 2000 e il recente incremento delle operazioni – commenta Beretta – va comunque riconosciuto ad UniCredit di aver mantenuto un atteggiamento di generale prudenza nell’assunzione di operazioni collegate alle esportazioni di armamenti. Va anche detto che la sua rete internazionale, distribuita in circa 50 mercati, e lo stesso ampio sostegno ai programmi intergovernativi di tipo militare stanno ad indicare una possibilità di attività nel settore che, di fatto, non si riflette direttamente nelle operazioni per l’esportazione di armamenti italiani. La presenza internazionale del gruppo dovrebbe, però, portare UniCredit ad una miglior rendicontazione delle attività svolte in altri Paesi soprattutto quelli nell’est europeo dalla Bulgaria alla Russia: riportare sul proprio sito internet, come ha fatto nei giorni scorsi per la prima volta, solo il riepilogo dei valori delle operazioni assunte per le esportazioni di materiali militari italiani, già noti dalle relazioni governative, suscita più di un interrogativo sulle attività svolte in altri Paesi che tra l’altro non offrono, a differenza del nostro, le medesime informazioni sulle esportazioni di armi».

Seguono poi altre banche, sia italiane che estere, con importi inferiori, che gestiscono il restante quarto dei movimenti per conto delle industrie armiere: Natixis (282 milioni), Banco di Brescia (168 milioni, a cui vanno aggiunti i 2 milioni e 561mila del Banco di San Giorgio, poiché entrambi fanno parte del gruppo Ubi), Commerzbank (116 milioni), Crédit Agricole (104 milioni), Société Générale (88 milioni), Banca Ubae (quasi 66 milioni), Cassa di Risparmio della Spezia (38 milioni), Banco Bilbao Vizcaya (20 milioni), Europe Arab Bank (13 milioni), Banca Popolare di Spoleto (12 milioni), Barclays (10 milioni), Cassa di Risparmio di Genova e Imperia (4 milioni e 500mila), Banca Popolare dell’Emilia Romagna e Banco di Sardegna (entrambe del gruppo Bper, 4 milioni) e altre con cifre inferiori ai 2 milioni di euro.

 

La “regina” è UniCredit

Per quanto riguarda i «programmi intergovernativi», ovvero i progetti internazionali di riarmo, a partire dai cacciabombardieri Eurofighter (utilizzati in questi mesi dalla Nato per bombardare la Libia) e F-35, UniCredit ha movimentato 968 milioni di euro, su un volume complessivo di 1 miliardo e 400 milioni. Segue poi Intesa San Paolo, che è uscita quasi del tutto dalle operazioni di esportazione grazie all’adozione di nuove e più stringenti direttive (ha spostato appena 952mila euro, rispetto ai 186 milioni del 2009), ma non dai programmi intergovernativi, che l’hanno impegnata per 180 milioni di euro. «Ci siamo impegnati a portare a termine le operazioni assunte prima della nostra policy restrittiva – spiega ad Adista Valter Serrentino, responsabile dell’Unità Corporate Social Responsibility di Intesa San Paolo – e i programmi intergovernativi durano decenni, per cui prima della nostra definitiva uscita passeranno ancora diversi anni». E poi ancora Deutsche Bank (156 milioni), Barclays (49 milioni), Banca nazionale del lavoro (19 milioni) e Banca popolare dell’Emilia Romagna (14 milioni). Si segnala una nuova entrata, con 22 milioni di euro: Monte dei Paschi di Siena, che fino ad ora aveva scelto di non partecipare alle operazioni di appoggio al commercio di armi. (luca kocci)

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