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DUBITO ERGO CREDO. LA “FEDE INCERTA” DI ANTONIO THELLUNG

Tratto da: Adista Notizie n° 41 del 28/05/2011

36161. ROMA-ADISTA.“Tu che cosa credi?”. Per rispondere alla domanda di un suo interlocutore virtuale, Antonio Thellung trasferisce le pagine del suo itinerario esistenziale nei capitoli di questo libro (Una saldissima fede incerta Edizioni Paoline, pp. 316, € 16). La domanda lo insegue da una vita, e da una vita Thellung, cercando una risposta semplice ad una domanda ardita, ha sprigionato dall’archivio dei suoi pensieri “una reazione a catena, che da piccole esplosioni iniziali somiglia sempre più a fantasmagorici giochi d’artificio”. Come i mestieri più disparati della sua vita (pilota d’auto da corsa, pittore, scrittore, assistente di malati terminali, fondatore di comunità). Come i suoi pensieri quotidiani, le domande, le certezze e le incertezze, le inquietudini e le apparenti sicurezze: appunto, giochi d’artificio. Nelle pagine di questo libro Thellung scandaglia il suo percorso, gli attriti con il suo credo e la sua fede man mano che si confronta con tutto il sistema della teologia tradizionale che ha per “oggetto” Dio, la sua incarnazione in Gesù e la sua “presenza” in ogni umana creatura.

Le animate pagine di Thellung, in certi passaggi troppo cariche di argomentazioni e deduzioni non del tutto e non sempre consequenziali, hanno tuttavia il potere di animare “inerti” professioni di fede e quotidiane recite di Credo, oltreché accendere utili dibattiti.

A Thellung abbiamo rivolto qualche domanda sul suo libro.

 

Un libro sulla fede può avere un concreto interesse d’attualità?

Credo sia urgente interrogarsi su che cosa si può realmente credere oggi, perché le abbondantissime violenze quotidiane dipendono, almeno in gran parte, dal persistere di tante, troppe immagini divine violente, che dividono anziché pacificare. Per questo è così importante rivisitare le immagini e i concetti divini (o i punti di riferimento) tuttora proposti.

 

Ma non se n’è già parlato, e da sempre?

Forse. Però credo che ciascuno sia tenuto a render conto dei risultati della propria ricerca. Come dato iniziale, per esempio, a me pare che abitualmente si usino i termini “credere” e “avere fede” come sinonimi, mentre tra loro c’è una differenza sostanziale: fede è sentirsi attratti irresistibilmente da qualcosa, mentre credere appartiene alla sfera razionale. I due aspetti possono coincidere, ma possono anche entrare in contraddizione. Cioè si può credere senza aver fede, o aver fede con molti dubbi su che cosa credere. Per esempio, dogmatismi e anatemi fanno parte del credere (o non credere), mentre di solito incidono pochissimo sul versante fede. Tenerne conto può aiutare a capire meglio il perché di tante contraddizioni presenti nella storia del cristianesimo.

 

Per uscire dal generico, quali tipi d’immagine divina ti sembrano proponibili oggi?

Dio esiste, Dio non esiste, si sente ripetere frequentemente in vari modi, e tuttavia senza la preoccupazione di precisarne i contorni. Si va dalle immagini più indefinite fino a quelle più antropomorfiche. Le differenze convivono anche tra i frequentatori abituali delle parrocchie, e basta fare qualche domanda per accorgersene. Per questo mi pare necessario identificare qualche punto preciso.

Innanzi tutto, mi dico, se Dio esiste, il primo a saperlo sarà lui. Perciò la prima caratteristica divina mi pare sia la coscienza di essere se stesso. Il che significa che la differenza tra un credente e un ateo sta tra credere o non credere che oltre le nostre coscienze limitate e relative esista anche una coscienza a livello assoluto (trascendente). E poi, se si prende sul serio che Dio sia tutto in tutti (come dice san Paolo) allora mi sembra che l’unico rapporto immaginabile sia di totale immersione in lui, nel suo insieme.

 

E come sarebbero i rapporti tra gli esseri umani e questo Dio d’insieme?

In senso concettuale, direi equivalenti a quelli tra assoluto e relativo, che sono contrari ma non contrapposti. Anzi, sono contrari e complementari allo stesso tempo, perché non si possono separare. La dispersione dei frammenti, insomma, resta pur sempre compresa nell’unità del grande insieme.

Per fare un esempio d’attualità, immaginiamo un grande computer formato dall’unità centrale e da innumerevoli operatori terminali, i quali agiscono tutti con gli stessi programmi software. Mentre però ciascun terminale vive e lavora nel proprio individualismo, l’unità centrale li conosce personalmente tutti, rielaborandone i dati nella memoria d’insieme. Come dire, in sostanza, che la realtà dell’insieme ha due interfacce diverse e complementari: da un lato quella umana, frazionata, contraddittoria, temporanea (e quindi instabile); e dall’altro lato quella divina, soltanto vagamente intuibile per noi, ma espressione permanente di tutta la realtà nel suo insieme. Penso che gli esseri umani siano da considerare porzioni temporanee di Dio che da punti di vista limitati vivono tutte le esperienze possibili, belle o brutte che siano; mentre dal suo punto di vista Dio dice: «Sono sempre io». Noi non ce ne accorgiamo perché abbiamo i paraocchi, ma i mistici riescono a intuirlo e a vivere di conseguenza.

Ma quali conseguenze a giudicare dall’abbondanza di conflitti a livello planetario?

Non dimentichiamo che ci sono anche tanti avvenimenti positivi e tante persone capaci di uscire dal loro egocentrismo. Tuttavia, tendenzialmente permane purtroppo una mentalità dualistica che non tiene conto dell’esistenza di un unico grande insieme unitario. Una mentalità che tende a dividere tra bene e male, e quindi tra buoni e cattivi. E invece la divisione è tra bene assoluto e bene relativo, che può essere contraddittorio e ambiguo finché si vuole, ma appartiene pur sempre all’unica realtà. L’idea che il bene debba combattere contro il male è un colossale equivoco che ha prodotto gravi danni. Quanto male è stato fatto in nome del bene? Le peggiori atrocità della storia sono state compiute in buona fede. In un cristianesimo dell’insieme il male non va sconfitto, umiliato, distrutto, ucciso, ma trasformato. È difficile? Forse, ma è l’unica via possibile.

 

E la Chiesa che parte ha in tutto questo?

Non si può andare da soli verso l’integrazione con l’insieme. Per questo è indispensabile la comunità ecclesiale. La Chiesa di Gesù Cristo è una barca sulla quale navigano insieme ortodossi ed eretici, prepotenti e mansueti, perseguitati e persecutori, grano e zizzania. È comunione dei consensi e dei dissensi, dell’ortodossia e delle eresie. L’importante, soprattutto, è celebrare insieme. Dove si trova un altro ambiente che offre una liturgia (la messa) durante la quale, al momento della comunione, persone anche diversissime tra loro vanno a fare tutti insieme qualcosa che nessuno di loro capisce? Personalmente, trovo sia un’emblematica spinta verso l’integrazione con il divino. Aggiungo inoltre che un cristianesimo dell’insieme, secondo me, può ricuperare tutti i più importanti concetti teologici tradizionali, riscoprendone il significato in modo comprensibile oggi.

 

Ma tu credi veramente nelle ipotesi che hai descritto in questo libro?

Sono il primo a dire che le descrizioni sono discutibili, e anche probabilmente contestabili. Ma i significati li sento molto convincenti.

(Il libro di Thellung sarà presentato da Maria Caterina Jacobelli e Marco Guzzi coordinati da Elisa Costanzo, presente l’Autore, presso il Centro Russia Ecumenica – Borgo Pio, 141 Roma – mercoledì 8 giugno alle ore 18,30).

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