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In crisi il processo di cambiamento latinoamericano: cresce in Bolivia la distanza tra il dire e il fare

Tratto da: Adista Documenti n° 61 del 30/07/2011

DOC-2371. LA PAZ-ADISTA. Se l’ultimo decennio, in America Latina, è stato attraversato dalla speranza di uno storico salto “dalla resistenza al potere” da parte delle forze popolari, oggi risulta quanto mai evidente quanto quel salto sia ancora lungi dal compiersi: dalla resistenza, in realtà, si è passati assai più modestamente al governo, per poi, da lì, produrre (o tornare ad essere) nuova resistenza. Nessuno dei tre governi che più avevano alimentato le speranze di una transizione seria a un nuovo modello di civiltà – quelli, cioè, del Venezuela, della Bolivia e dell’Ecuador – è sfuggito, chi più e chi meno, a un ridimensionamento, giungendo magari pure a correggere gli eccessi del neoliberismo, ma non certo a dar vita a un modello post-capitalista. Lo scollamento dei movimenti dal governo è più netto in Ecuador, dove la Conaie, principale pilastro del movimento indigeno, è giunta a ritirare simbolicamente al presidente Rafael Correa il bastone di comando che gli era stato consegnato nel 2007, denunciandone la deriva conservatrice, testimoniata dai conflitti per la terra e contro lo sfruttamento minerario su larga scala nei territori originari, oltre che dalla criminalizzazione della protesta sociale (189 indigeni mobilitati contro le leggi sull’acqua e sull’attività mineraria sono sotto processo per terrorismo e sabotaggio, v. Adista n. 41/11).

Il modello estrattivista, basato sull’esportazione di materie prime non lavorate e su ampie concessioni minerarie a società transnazionali (v. Adista n. 30/11), resta ben saldo anche in Venezuela, dove Hugo Chávez ha dovuto recentemente incassare anche le indignate proteste di tutta la sinistra latinoamericana per la consegna al governo colombiano di presunti guerriglieri catturati in Venezuela (allo scandaloso caso del giornalista Joaquín Pérez Becerra, consegnato alla Colombia malgrado il suo status di rifugiato politico e di cittadino svedese, e malgrado la palese infondatezza delle prove della sua appartenenza alle Farc, v. Adista n. 37/11, è subito seguito quello di Julián Conrado, membro dello stato maggiore delle Farc e autore di decine di canzoni rivoluzionarie, da oltre 40 giorni detenuto in Venezuela, in attesa di essere mandato in Colombia, malgrado le sue critiche condizioni di salute). Proteste che, tuttavia, sembrano oscurate, almeno momentaneamente, dal clamore provocato dall’annuncio di Chávez di avere il cancro: le reazioni allarmate del popolo venezuelano (e di tutti i militanti latinoamericani, consapevoli del ruolo di capitale importanza giocato nel continente dal leader bolivariano, basti pensare all’Alba, a Petrosur, a Petrocaribe, al Banco del Sur e a Telesur) e il calore con cui è stato accolto il suo ritorno in patria stanno a indicare quanto sia ancora alto, malgrado le profonde contraddizioni mostrate dal suo governo, il consenso di cui gode il presidente venezuelano (ma anche quanto sia diventato urgente porre seriamente il problema di una direzione più collettiva del processo rivoluzionario, come ammesso ultimamente dallo stesso Chávez).

Sembra in calo, invece, la popolarità del boliviano Evo Morales, sempre più spesso costretto a fronteggiare le proteste dei movimenti sociali, ultima delle quali riguarda niente di meno che il via libera dato dal governo alle coltivazioni transgeniche, purché non riguardino le sementi importanti originarie della Bolivia. Già da qualche anno, in realtà, la soia transgenica si era diffusa illegalmente nel Paese nell’indifferenza governativa (malgrado il suo minore rendimento e malgrado l’incremento di oltre il 300% dell’uso di erbicidi, fungicidi e insetticidi): come denuncia l’ex governatore di Cochabamba Rafael Puente, «quasi il 100% della soia prodotta a Santa Cruz è transgenico». Ma è con la Ley de la Revolución Productiva, Comunitaria y Agropecuaria - promulgata da Morales lo scorso 26 giugno con il fine di assicurare la sicurezza e la sovranità alimentare, sostenere i piccoli contadini e diversificare la produzione -, che viene ammesso, malgrado il governo lo neghi con decisione, l’uso dei transgenici. La norma, ha spiegato il ministro della presidenza Carlos Romero, combatte apertamente gli ogm, garantendo la protezione del patrimonio genetico del Paese, cioè della ricchezza delle risorse naturali di cui dispone la Bolivia (Paese che occupa l’ottavo posto al mondo per biodiversità). Ma è la lettera della legge a smentirlo: se l’articolo 15 stabilisce che «non verranno introdotti nel Paese pacchetti tecnologici agricoli che contengano sementi geneticamente modificate di specie che hanno origine in Boliva», vuol dire che sarà permessa l’introduzione di quei pacchetti per il resto delle specie, dal caffè al cacao a, soprattutto, la soia, componente essenziale dell’alimentazione delle mucche da latte e dei polli, nonché presente in molti altri prodotti, a cominciare dal cioccolato. E, come sottolinea Puente, non favorisce certamente l’obiettivo dichiarato della sovranità alimentare il fatto che le sementi di queste specie debbano essere acquistate dalle transazionali. Certo, è vero che la legge stabilisce il divieto di introdurre «quei pacchetti che attentino al patrimonio genetico, alla biodiversità, alla salute umana e degli ecosistemi», ma, come sottolinea Puente, se tale divieto fosse stato preso sul serio sarebbe stato sufficiente dire semplicemente no agli ogm, come stabilisce infatti la Costituzione, anziché annunciare «disposizioni per il controllo della produzione, dell’importazione e della commercializzazione di prodotti geneticamente modificati», lasciando così intendere la possibilità di ammetterle in determiante condizioni. Possibilità che stupisce e sconcerta nel caso di un Paese che ha riconosciuto nella sua Costituzione i Diritti della Madre Terra: «Non può un governo sociale come quello di Morales – scrive Gustavo Duch Guillot, coordinatore della rivista Soberanía Alimentaria, Biodiversidad y Culturas (Alai, 16/6) – cedere agli interessi delle transnazionali delle sementi che sono pure proprietarie dei pesticidi necessari». 

Sulla crisi del processo di cambiamento guidato dal presidente aymara è intervenuto anche un gruppo di una quarantina di intellettuali, militanti ed ex funzionari di governo, tra cui Oscar Olivera, leader della “guerra dell’acqua” del 2000 a Cochabamba, Alejandro Almaraz, «il miglior viceministro delle Terre che abbiamo mai avuto», come lo definisce Katu Arkonada (Alai, 4/7), e Raúl Prada, ex viceministro di Planificazione strategica, in un appello «per il recupero di un processo di cambiamento per il popolo e con il popolo». Un documento che rivolge dure critiche all’attuale gestione governativa e che a sua volta è stato criticato, perlomeno su alcuni aspetti, da altri militanti: i problemi segnalati, scrive per esempio Pablo Stefanoni su Página 7 (6/7), erano in realtà presenti già dall’inizio, solo che il «clima epico generale» non permetteva di individuarli; e inoltre nel documento si ritrova la stessa ambivalenza propria del governo tra aspirazioni in termini di sviluppo e tensione verso un vivir bien non precisato ma sostanzialmente antisviluppista. «Mi pare improbabibile – scrive Stefanoni – che i movimenti sociali realmente esistenti rompano con il “loro” governo, per quanto questo possa essersi allontanato dagli eroici orientamenti dell’inizio». Tant’è che, nota Katu Arkonada, il manifesto non può contare sulla firma di movimenti sociali che pure hanno posizioni critiche nei confronti di Evo Morales, ma «senza fare il gioco di quanti stanno operando per trasformarsi in un’alternativa elettorale nel 2014. Alternative elettorali con cui mai, in nessuna circostanza, faremo avanzare il processo di cambiamento».

Di seguito, in una nostra traduzione dallo spagnolo, alcuni stralci del manifesto «per il recupero di un processo di cambiamento per il popolo e con il popolo». (claudia fanti)

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