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Il flagello delle grandi dighe in America Latina: la protesta indigena contro l’avidità dell’“uomo bianco”

Tratto da: Adista Documenti n° 63 del 10/09/2011

DOC-2376. ROMA-ADISTA. Dalla Patagonia cilena all’Amazzonia brasiliana, la costruzione di centrali idroelettriche - generalmente in territori indigeni o di comunità povere - è diventata in America Latina una fonte permanente di conflitto sociale. Mentre nel Nord del mondo le dighe sono decisamente passate di moda – in alcuni Paesi si è perfino iniziato a smantellarle, come evidenzia il Caoi, il Coordinamento andino di organizzazioni indigene (Alai, 6/7) -, nel Sud il loro numero non fa che aumentare, rappresentando un ottimo affare per le grandi imprese e i loro soci locali. E sì che, in base ai criteri stabiliti dalla Banca Mondiale per valutare la bontà o meno di un progetto – spostamento di popolazione, conflitti determinati dall’arrivo di nuovi abitanti, perdita di terre agricole, minaccia all’identità culturale, uso dell’acqua per scopi che non siano quelli di soddisfare le esigenze della popolazione – la costruzione di centrali idroelettriche dovrebbe essere sistematicamente bocciata: solo rispetto al primo punto, infatti, sono ben ottanta milioni, nel mondo, le persone costrette a trasferirsi, a cui vanno aggiunte tutte quelle che, a causa delle dighe, hanno perso i loro mezzi di sussistenza. E ciò senza contare l’impatto sul cambiamento climatico, dovuto alle significative emissioni di gas a effetto serra provocate dalla decomposizione di materia organica nei laghi artificiali creati dalle dighe: le emissioni di metano (25 volte più dannoso dell’anidride carbonica per l’effetto serra) derivate dalle centrali idroelettriche rappresentano almeno il 4% dell’impatto delle attività umane sul riscaldamento globale. Ciononostante, la Banca Mondiale continua, imperturbabile, a finanziarle.

Per fortuna, almeno qualche volta, le proteste della popolazione riescono a far centro, scongiurando la devastazione di territori di incalcolabile ricchezza in termini di biodiversità. Così, almeno per il momento, è avvenuto in Patagonia, dove alla fine di giugno la Corte d’Appello di Puerto Montt ha accettato di esaminare tre ricorsi contro il via libera della Commissione di valutazione ambientale dell’Aysén ai lavori di costruzione di cinque mega dighe sui fiumi Pascua e Baker (v. Adista n. 42/11), decidendo la sospensione del contestatissimo progetto: un’opera monumentale, affidata al consorzio HidroAysen guidato dall’Enel (tramite la sua controllata Endesa), che prevede l’inondazione di ben 5.600 ettari di un raro ecosistema forestale e la costruzione di una linea di trasmissione di 2.300 chilometri, composta da 6mila torri alte 70 metri, attraverso nove regioni, sei parchi nazionali e 67 comuni, con il previsto disboscamento di circa 23mila ettari.

E così è avvenuto in Perù, dove il governo, nel giugno scorso, si è visto costretto a cancellare il progetto della centrale idroelettrica di Inambari, previsto nel quadro dell’Iniziativa per l’Integrazione dell’Infrastruttura Regionale Sudamericana (Iirsa), il cui obiettivo è quello di sviluppare e integrare le infrastrutture relative ai trasporti, all’energia e alle telecomunicazioni per vincolare le aree ricche di risorse naturali ai principali mercati del mondo: una sorta di Alca (Area di libero commercio delle Americhe) made in Sud, in cui è il Brasile a fare la parte del leone. E proprio in Brasile procedono invece i lavori per la costruzione della diga di Belo Monte, la terza più grande del mondo (dopo quelle delle Tre Gole in Cina e di Itaipú, al confine tra Brasile e Paraguay), che coprirà 400mila ettari di foresta pluviale con conseguenze disastrose sul sistema di flora e fauna della regione e sulle condizioni di vita di oltre 25.000 indigeni. Neppure la richiesta avanzata dalla Commissione interamericana dei Diritti umani dell’Oea (Organizzazione degli Stati americani) di sospendere immediatamente i lavori in attesa di rispondere alle preoccupazioni delle popolazioni indigene che abitano sulle rive del fiume Xingu ha convinto la presidente Dilma Rousseff a ripensare il faraonico progetto, uno dei “fiori all’occhiello” del famigerato Pac, il Programma di Accelerazione della Crescita di cui non a caso la Rousseff è considerata la madre (v. Adista n. 38/11). E se il governo ha respinto le pressioni dell’Oea, si può facilmente immaginare quanto abbia prestato ascolto alle proteste dei popoli indigeni, di cui la lettera del cacique Mutua, del popolo xavante, che qui di seguito riportiamo in una nostra traduzione dal portoghese, rappresenta una delle versioni più struggenti e poetiche. (claudia fanti)

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