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PERCHÉ IL BUEN VIVIR NON RESTI SOLO UN SOGNO. LE CONTRADDIZIONI DEL PROCESSO DI CAMBIAMENTO IN BOLIVIA

Tratto da: Adista Notizie n° 73 del 15/10/2011

36339. LA PAZ-ADISTA. Con il conflitto scatenatosi in Bolivia attorno al Tipnis (Territorio Indigeno e Parco Nazionale Isiboro Sécure), il governo di Evo Morales si trova ad affrontare un’altra durissima prova, dopo quella del gasolinazo del dicembre scorso (il tentativo, fallito in seguito al dilagare delle proteste, di elevare addirittura dell’83% il prezzo interno dei carburanti; v. Adista n. 30/11). Tutto è cominciato nell’aprile del 2010, quando il governo ha accettato un prestito della Bndes (Banca nazionale di sviluppo economico e sociale del Brasile) per la costruzione, appaltata all’impresa brasiliana Oas, di una strada di 306 chilometri tra i dipartimenti di Cochabamba e Beni, di grande importanza per il trasferimento di merci brasiliane ai porti del Pacifico: la strada Villa Tunari-San Ignacio de Moxos, il cui secondo tratto taglierebbe in due il Tipnis, sulla cui superficie di 1.2 milioni di ettari vivono 64 comunità indigene. Un progetto che si inserisce nella faraonica Iniziativa di Integrazione dell’Infrastruttura Regionale Sudamericana (Iirsa), concepita allo scopo di sviluppare e integrare le infrastrutture relative ai trasporti, all’energia e alle telecomunicazioni per vincolare le aree ricche di risorse naturali strategiche ai principali mercati del mondo, a tutto vantaggio dunque di quel modello estrattivista, basato sull’esportazione di materie prime non lavorate e su ampie concessioni minerarie a società transnazionali, contro cui si sta drammaticamente scontrando il processo di cambiamento in America Latina.

 

Voci contro e voci a favore

È contro il secondo tratto della strada Villa Tunari-San Ignacio de Moxos che, il 15 agosto scorso, ha preso avvio a Trinidad l’VIII Marcia dei popoli indigeni delle “terre basse” (senz’altro meno favoriti dal governo rispetto a quelli delle “terre alte” andine, come quechua e aymara): organizzata dalla Confederazione dei popoli indigeni dell’Oriente boliviano (Cidob), la marcia ha ricevuto l’appoggio di molte ong boliviane e straniere e anche il sostegno assai interessato delle destre, che, scopertesi all’improvviso ambientaliste, hanno prontamente utilizzato la mobilitazione indigena per attaccare il governo. Un opportunismo, tuttavia, che non rende meno legittime le rivendicazioni dei popoli indigeni, secondo i quali la strada favorirebbe l’invasione dei cocaleros, lo sfruttamento petrolifero e la deforestazione: stando a uno studio finanziato dal governo danese, la costruzione della strada potrebbe addirittura condurre alla distruzione, in 18 anni, del 64,5% della riserva naturale. È vero – scriveva già a luglio, su La Razón, il gesuita Xavier Albó – che «abbiamo bisogno di buone strade: anche la loro assenza ostacola il vivir bien», ma ciò va fatto «ascoltando tutti, rispettando i più deboli e considerando la sostenibilità futura». Governare obbedendo, sì, concludeva Albó, «ma a chi? Emarginando chi? Governare include consultazioni e buona convivenza». E di certo il governo ha dato avvio ai lavori senza procedere previamente a quella consultazione “previa, libera e informata” che pure è prevista dalla Costituzione.

Il progetto, tuttavia, ha anche i suoi sostenitori, e pure all’interno del Tipnis (come i leader del Conisur, il Consiglio Indigeno del Sud, che raggruppa 12 delle 64 comunità del parco nazionale). La strada, considerano i movimenti sociali e le organizzazioni sindacali e indigene favorevoli all’opera, migliorerebbe l’accesso alle cure sanitarie e ad altri servizi di base da parte di comunità locali oggi isolate, e l’accesso ai mercati da parte di produttori agricoli, ora costretti a passare per Santa Cruz, ad est, prima di trasportare i propri prodotti ad ovest, a Cochabamba, percorrendo niente di meno che 848 chilometri (è proprio l’inevitabile ridimensionamento che subirebbe Santa Cruz a indurre la sua élite, notoriamente conservatrice e razzista, a sposare la causa degli indigeni). I sostenitori del progetto – rassicurati inoltre dall’impegno del governo a scongiurare il rischio di insediamenti illegali e disboscamenti con un’apposita legge, fissando pene durissime per i trasgressori – contestano pure alcuni punti della piattaforma rivendicativa della marcia, come, ad esempio, l’appoggio che i manifestanti finiscono per dare al contestatissimo Redd (il Programma di Riduzione delle emissioni causate da deforestazione e degrado sponsorizzato da Banca Mondiale, multinazioni e governi), rivendicando, al punto 3 della piattaforma, il diritto di riscuotere direttamente i fondi di compensazione «per la funzione di mitigazione dei gas serra che svolgono i nostri territori». Né va taciuto che, tra gli aderenti alla marcia, vi siano ong finanziate direttamente dagli Stati Uniti. Il presidente Morales ha addirittura parlato di tabulati telefonici da cui risulterebbero contatti fra alcuni manifestanti e l’ambasciata statunitense.

 

Una necessaria rettifica

Il conflitto ha toccato il suo punto più drammatico il 25 settembre, quando mezzo migliaio di poliziotti ha assaltato con sproporzionata violenza l’accampamento dei manifestanti a Yucumo, a circa 320 km da La Paz, senza alcun riguardo neppure per i bambini e le donne incinte. Una repressione brutale che ha provocato enorme sdegno in tutto il Paese («una repressione di un governo indigeno, con un presidente indigeno, contro popoli indigeni», ha commentato Alex Contreras su Alai il 26/09) determinando la rinuncia di ben tre ministri. È insorta anche la Conferenza episcopale, notoriamente ostile al governo, denunciando la morte di un bambino e la scomparsa di altre persone – malgrado sia stato proprio un dirigente dei manifestanti, Rafael Quispe, ad assicurare pubblicamente che «non c’è stato neanche un morto» – ed esigendo «dalle autorità nazionali che rinuncino al cammino della repressione, della persecuzione e della violenza, che non risolve i problemi, e dimostrino, con azioni coerenti, di ascoltare e difendere i diritti dei boliviani, specialmente delle popolazioni più povere e vulnerabili».

Di certo, la violenta repressione dei manifestanti non poteva restare senza conseguenze. All’annuncio da parte del presidente della sospensione del progetto per consentire lo svolgimento del processo di consultazione (annuncio, tuttavia, che non ha dissuaso i manifestanti dal riprendere la marcia verso la Paz), è seguita così anche una richiesta di perdono alle vittime: «Voglio chiedere alle vittime della repressione di scusarci, di perdonarmi, ma voglio anche che sappiano che non c’è stato alcun ordine da parte nostra né avremmo mai pensato che potesse verificarsi una tale aggressione ai fratelli indigeni». Avendo subìto più volte in passato, insieme a tanti compagni, la repressione da parte della forza pubblica, «non avrei mai potuto ordinare una violenza come quella realizzata a Yucumo», ha spiegato Morales annunciando la creazione di una commissione di alto livello per indagare su quanto accaduto. 

Rimane il fatto, tuttavia, ha dichiarato, in un comunicato del 27/9, il Caoi, il Coordinamento andino di organizzazioni indigene, che «non si sarebbe giunti a tali estremi di repressione se si fossero rispettati fin dall’inizio i diritti dei popoli indigeni, accogliendone le legittime richieste di consultazione e partecipazione». Una considerazione, questa, condivisa, tra molti altri, anche dalla sociologa Isabel Rauber (Rebelión, 4/10), secondo cui «tenendo conto del processo di rivoluzione democratica interculturale» avviato in Bolivia, ci si sarebbe aspettati che le comunità interessate dal progetto fossero convocate per definirne i punti centrali e che le decisioni fossero prese collettivamente, «cioè dal basso», perché solo da qui può passare la costruzione del «nuovo tipo di Stato plurinazionale interculturale e decolonizzato».

Un compito impegnativo che la Bolivia è però ancora in grado di realizzare, grazie a quel doppio vantaggio a cui fa riferimento il giornalista e scrittore uruguayano Raúl Zibechi (Alai, 29/9): quello di avere un presidente capace di chiedere pubblicamente perdono («Evo Morales è l’unico presidente che lo abbia fatto negli ultimi anni») e quello di avere movimenti «che sanno quello che non vogliono e sono disposti a dare la vita per evitarlo», anche andando contro «un governo presieduto da qualcuno che viene considerato un fratello». Ecco allora che la Bolivia avrebbe tutte le carte in regola per avviare un approfondito dibattito su quella che, per Zibechi come per Albó come per tanti altri, è la vera questione di fondo, e non certo solo per il Paese andino: è possibile conciliare un modello a bassa crescita economica con la soddisfazione delle necessità di base di tutta la popolazione? È evidente, prosegue Zibechi, «che non abbiamo risposte, perché semplicemente non lo sappiamo; e non lo sappiamo perché diamo per scontato che non vi sia altra possibilità che quella del modello basato sulla crescita economica». Di certo, però, questo dibattito non può che essere guidato «da coloro che sono più in basso, quelli per cui la vita non è qualcosa di scontato, perché sono loro che hanno messo in gioco il proprio corpo contro il neoliberismo e perché sono quelli che più hanno da perdere se i processi di cambiamento falliscono». (claudia fanti)

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