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«PROSSIMITÀ E PROFEZIA». CHIESA, MAFIA E ATTUALITÀ IN UN LIBRO DI MONS. BREGANTINI

Tratto da: Adista Notizie n° 82 del 12/11/2011

36386. MILANO-ADISTA. Architetture incompiute e abbandonate che, all’interno, nascondono rifinite abitazioni di lusso; i primi posti della cappella del carcere riservati, per “convenzione”, ai boss mafiosi; i caffè mai pagati in certi locali; le auto parcheggiate in doppia fila, perché “intoccabili”; i padrini di cresima e i “portantini” delle statue dei santi in processione. «Occorre collegare i tasselli di tante situazioni» – spiega l’arcivescovo di Campobasso-Boiano mons. Giancarlo Bregantini nel suo ultimo libro Non possiamo tacere. Le parole e la bellezza per vincere la mafia (ed. Piemme, pp. 193, 19.50 €), redatto con la giornalista Chiara Santomiero – perché i piccoli segni del quotidiano raccontano il brodo di coltura che alimenta la criminalità organizzata. «L’antimafia deve cominciare proprio da qui, dalla consapevolezza di avere di fronte una “cultura altra”» che, prima di essere combattuta, va conosciuta in profondità.

 

Una vita contro la ‘ndrangheta

Il libro consegna l’immagine di un autore pienamente consapevole del fenomeno mafioso, oggi rinvigorito dall’abbandono della “questione meridionale” e cresciuto al punto d’aver ormai inglobato anche parte del Nord.

Bregantini scrive che «il mafioso è violento, arrogante, presuntuoso e senza scrupoli, ma è anche un uomo terribilmente solo, assediato dalla paura, per il quale ogni giorno può essere l’ultimo e quindi, in definitiva, vulnerabile nella sua fragilità». Tanto da “meritare” lo stesso trattamento che Gesù aveva riservato al peccatore Zaccheo: «Si è fermato a casa sua per dargli l’occasione di convertire il cuore». La perfezione del divino è la sua misericordia», chiarisce in un altro capitolo. Dio è perfetto non perché ha creato cose meravigliose, ma perché «fa piovere sui giusti e sugli ingiusti e manda il sole sui buoni e sui cattivi».

Magistrale, poi, quando propone alcune soluzioni per sconfiggere la ‘ndrangheta, evitando un inutile attacco frontale. Enuclea alcune strategie per disarticolarla dall’interno, intervenendo a livello culturale e anche religioso. Ad esempio, per i mafiosi le cerimonie e «le formalità sono tutto». Per questo i religiosi dovrebbero «essere molto accorti nella gestione dei riti, dei gesti e delle forme». Inoltre, dice ancora, bisogna comprendere il legame tra criminalità e patrimonio ambientale, «come se la bruttezza dei luoghi esprimesse tragicamente quel desiderio di violazione che c’è nel cuore mafioso». «La mafia ha orrore della bellezza» e si può quindi esautorare con la riscoperta e promozione del patrimonio locale, con il valore della cura e del rispetto del creato. «Per combattere la mafia non basta denunciare le negatività», ma occorre «seminare il bene e il bello, altrimenti si rischia di rimanere schiacciati dall’orrore (…), senza speranza di redenzione».

Lucida, infine, l’analisi delle faide tra cosche: l’omicidio che segue all’omicidio, l’odio che cresce ed esplode, che colpisce e torna indietro in una spirale di sangue. Le vedove che piangono i mariti uccisi, che insegnano ai figli il “valore” della vendetta, che invecchiano passando il tempo a maledirsi a vicenda. La faida, conclude, è «sfruttata in modo funzionale alla gestione del territorio e degli affari, che resta comunque l’obiettivo principale».

 

Chiese al bivio, tra compromessi e profezia

Centrale nel volume la riflessione su rapporto tra Chiesa e mafia. «A chi gli chiede come si fa a “essere Chiesa” in un ambito ad alta densità mafiosa come quello di Locri – esordisce Bregantini – potrei rispondere: “Come si fa ad essere Chiesa a Verona, dove il 40% delle persone vota Lega?”». In tutta Italia ci sono problemi, prosegue, ma la Chiesa deve continuamente confrontarsi con essi, evitando di «farsi risucchiare dalla logica del male». Per un parroco calabrese, il rischio è sempre in agguato: il potere mafioso cerca di “collaborare” alle esigenze dei parroci con generose donazioni. E con più grandi ritorni di immagine. Di fronte a questa insidia, «la scelta di povertà del prete è una forza di opposizione e di resistenza incredibile». In secondo luogo, il potere mafioso spesso controlla i media, e tenta di screditare il prete che resiste di fronte all’opinione pubblica, accusandolo, ad esempio, di occuparsi troppo di politica e poco di fede. Oppure, infine, il prete potrebbe abdicare alla «strategia della paura», fatta di intimidazioni e minacce. Attaccare un vescovo è più difficile, ammette Bregantini, ma «per i parroci è diverso, sono stato in molti luoghi e molte parrocchie dove avevano sparato contro le loro case».

Alla Chiesa, Bregantini chiede credibilità senza compromessi: una volta, ricorda, alcuni studenti gli domandarono perché la Chiesa ha proibito il funerale di Piergiorgio Welby ma, negli stessi giorni, consentiva il pomposo rito funebre di un boss. Insomma, scrive con lucidità, nonostante i molti segnali di speranza e resistenza («al Sud più che al Nord»), «la Chiesa non sempre è stata capace di affermare con sufficiente nettezza la sua condanna nei confronti della mafia». Una «sfasatura», spiega, tra dettami evangelici e comportamenti attuati. Ma «se non c’è coerenza tra fede e vita, tra la messa della domenica e le scelte personali e collettive del lunedì, la nostra tiepidezza aprirà spazi alla pervicace insidiosità della mafia». (giampaolo petrucci)

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