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TRIONFALE RICONFERMA DI ORTEGA IN NICARAGUA. MA IL SANDINISMO DOV’È?

Tratto da: Adista Notizie n° 84 del 19/11/2011

36394. MANAGUA-ADISTA. Quella riconferma elettorale che era mancata a Daniel Ortega nel 1990 (a causa della brutale guerra dei contras sostenuta dagli Stati Uniti) è arrivata invece, e alla grande, alle elezioni nicaraguensi del 6 novembre scorso: il leader storico della rivoluzione sandinista tornato al potere nel 2006, dopo 16 anni di governi di destra, ha visto incrementare i suoi voti dal 38% di cinque anni fa all’attuale 62%, lasciando al secondo classificato Fabio Gadea, candidato del Partito Liberale Indipendente (un’alleanza di cui fanno parte anche i dissidenti sandinisti) non più del 30% delle preferenze e al suo vecchio avversario di un tempo, l’ex presidente Arnoldo Alemán, un misero 6%. Un risultato che - al di là delle denunce di frode da parte dell’opposizione e delle «difficoltà» lamentate dagli osservatori internazionali nella loro missione di sorveglianza - offre ora in ogni caso ad Ortega, su un piatto d’argento (in virtù della maggioranza assoluta conquistata in Parlamento dall’Alianza Nicaragua Unida Triunfa promossa dal Fronte Sandinista), la possibilità di mettere mano a riforme  radicali senza dover scendere a patti con l’opposizione.

Che Ortega si sia meritato tale possibilità lo sostiene gran parte della stampa alternativa latinoamericana, che evidenzia, tra i risultati del suo governo, la gran quantità di programmi sociali, l’aumento del salario minimo, il ritorno a un sistema educativo e sanitario gratuito, l’eliminazione dell’analfabetismo, la creazione di una rete di distribuzione di alimenti di base, il superamento di una crisi energetica quasi permanente. Ma non mancano di certo, a sinistra, le voci critiche, come quella di Dolores Jarquín, del Movimiento Social Nicaragüense Otro Mundo es Posible, la quale, pur riconoscendo i passi avanti in ambito sociale («La gente che vive nella povertà estrema ha difficoltà anche a comprare una lamina di zinco per il tetto. Il Fronte mette a disposizione dieci lamine e la gente è contenta»; Diagonal, 4/11), sottolinea come, al di là dei proclami rivoluzionari, la logica resti quella del modello estrattivista, non a caso portato avanti con l’avallo del Fondo Monetario Internazionale. «In questi cinque anni – afferma  María López Vigil, caporedattrice di Envío (la rivista dell’Università dei gesuiti di Managua), in un’intervista concessa a Popoli.info - Ortega ha stretto alleanze con i ricchi più ricchi del Nicaragua: il grande capitale e il Fondo monetario internazionale sono i suoi principali alleati. Questo è socialismo?».

 

Diritti, non favori

Molto critico nei confronti del governo è anche il domenicano Rafael Aragón, il quale in un articolo dal titolo “È cristiano il progetto del governo di Daniel Ortega? E qual è il progetto della Chiesa?”, pubblicato sulla rivista Envío (n. 349) dello scorso aprile, nega che i progetti sociali promossi dal governo siano espressione dell’opzione per i poveri, come invece sostiene il presidente, almeno intendendo per tale opzione lo sforzo rivolto a fare dei poveri i soggetti della loro storia. «Dalla Teologia della Liberazione – scrive Aragón – abbiamo imparato ad essere critici nei confronti dei progetti assistenzialisti delle Chiese e dei progetti paternalisti dei governi», che non coscientizzano in alcun modo il popolo. Ed è in questa chiave che occorre valutare i programmi promossi dal governo sandinista: «trasformano i poveri in soggetti di un processo di trasformazione delle loro vite, delle loro comunità, del Nicaragua? La logica di questi progetti è quella di democratizzare l’economia del Nicaragua o solamente di mitigare la povertà nel momento stesso in cui l’economia continua a promuovere grandi disuguaglianze?». È vero, continua il domenicano, che, in situazioni di estrema necessità, le persone devono essere soccorse – e in tal senso bisogna riconoscere che «molti poveri sono oggi in condizioni migliori che durante il precedente governo» –, ma è necessario che «ciò che viene dato generi coscienza, partecipazione e organizzazione». Quello che è dato vedere quotidianamente, invece, «sono persone che ringraziano per i favori ricevuti, in un rapporto di dipendenza dal carattere mitico-religioso». E «quando i diritti sono visti come favori concessi dal governante perché è buono, si sta costruendo una mentalità di servi di fronte a un monarca e non di cittadini dinanzi a un’autorità democratica». Ma l’aspetto più scioccante, secondo Aragón, è che anche il Fronte Sandinista, negli anni ’80, la pensava così. Non a caso, secondo María López Vigil, «Daniel Ortega ha snaturato tutti, dal primo all’ultimo, i principi del Fronte sandinista, a cui apparteneva», non avendo «altro progetto se non la sua perpetuazione al potere».

 

La “conversione” di Obando y Bravo

Se il Fronte non è più quello delle origini, ancora più drastico sembra il cambiamento maturato nell’implacabile avversario di un tempo, il card. Obando y Bravo, oggi arcivescovo emerito di Managua, lo stesso che nel 1996, a tre giorni dalle elezioni (quelle che avrebbero portato alla presidenza Alemán), paragonava  Ortega a una vipera quasi morta che, soccorsa da un contadino compassionevole, uccideva il salvatore con il suo veleno (v. Adista n. 21/97). Un’opposizione frontale durata fino a quando il leader sandinista, dopo aver ceduto a logiche di spartizione di potere (a cominciare dal famigerato Patto del 1999 tra Ortega e Alemán che ha assicurato a sandinisti e liberali il controllo dei poteri dello Stato), non ha piegato il capo anche di fronte al potente cardinale, al punto da sacrificare sull’altare elettorale le donne nicaraguensi, votando a favore dell’eliminazione dell’aborto terapeutico. Per poi passare, finalmente, all’incasso, con la vittoria nel 2006 e il trionfo del 6 novembre scorso, a cui ha di certo contribuito anche l’arcivescovo emerito con le sue lodi sperticate nei confronti di Ortega e di sua moglie Rosario Murillo – ai quali ha assicurato che «il Signore saprà ricompensare abbondantemente tutto il bene» da loro compiuto per i nicaraguensi – e con i suoi inviti alla popolazione a votare per chi difende la vita, è contrario all’aborto e promuove programmi sociali a favore dei più poveri.

Ma dietro a una così apparentemente drastica conversione al sandinismo, sostiene Rafael Aragón nello stesso articolo pubblicato su Envío, persisterebbe, in realtà, il vecchio modello di “Chiesa di cristianità”, di una Chiesa, cioè, «considerata un potere che deve essere riconosciuto e che dialoga a tu per tu con i poteri politici ed economici», «quali che siano»: «Quando arrivai in Nicaragua nel 1978 – scrive Aragón – si celebravano in tutte le parrocchie del Paese 200 messe per la salute di Somoza, perché aveva avuto un infarto». E se la rivoluzione sandinista del 1979 ha mandato in crisi tale modello, esso ha potuto definitivamente imporsi con la sconfitta del Fronte nel 1990, sotto l’attenta regia del card. Obando e durante il governo di Arnoldo Alemán: «La corruzione istituzionalizzata da Alemán durante la sua amministrazione non ha incontrato critiche da parte della gerarchia cattolica, la quale ha deciso di tacere di fronte al cumulo di evidenze». È stato allora, però, che il Fronte Sandinista ha cambiato strategia, prendendo atto della necessità di scendere a patti con i vescovi e con il clero, negoziando con essi e finanziando i loro progetti. Cosicché Obando, sentendosi finalmente omaggiato in maniera adeguata, si è deciso a sposare con piena convinzione la causa di Daniel Ortega. Il quale, poi, è andato anche oltre, strumentalizzando la religiosità tradizionale e utilizzando «in modo programmatico e calcolato il nome di Dio per legittimarsi». 

Ma se con il nemico di un tempo il rapporto non potrebbe essere più idilliaco, all’interno dell’istituzione ecclesiastica Ortega non riceve certamente solo applausi. Il più critico è probabilmente il vescovo ausiliare di Managua, mons. Silvio Báez, che non perdona al presidente la manipolazione di simboli, riti e dogmi religiosi, come avvenuto anche in occasione dell’ultimo anniversario della rivoluzione sandinista, quando Rosario Murillo ha paragonato la cerimonia del 19 luglio a una celebrazione eucaristica, e salutato il card. Obando come «pastore di tutti i nicaraguensi» nonché come «pastore della pace, della riconciliazione e del bene comune». Rosario Murillo, ha commentato al riguardo Silvio Báez, «lo può definire come vuole, è esperta ad inventare slogan, spesso manipolando abusivamente la fede. Ma ogni diocesi ha il suo vescovo e un vescovo emerito non è la voce della Conferenza episcopale».

Neppure mons. Báez, tuttavia, risponde, secondo Aragón, al profilo richiesto per portare avanti la principale missione della Chiesa, quella di «accompagnare il popolo, a partire dalla base e fuori dal potere». Gli manca, infatti, «la radicalità profetica di chi parla a partire dalla sua immersione nella realtà dei poveri», esponendosi così a una possibile strumentalizzazione da parte dell’opposizione». (claudia fanti)

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