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UNA NUOVA COLONIZZAZIONE

- Intervista ad Arnoldo Curruchich

Tratto da: Adista Documenti n° 94 del 17/12/2011

 

A che punto è la lotta della comunità maya ixil contro la centrale idroelettrica di Palo Viejo? Dopo la rottura del dialogo da parte dell’Enel, quali passi sono previsti?

Secondo il Consejo de las Juventudes Maya Garifuna y Xinca, la resistenza del popolo maya ixil rappresenta un esempio da seguire. Fin dall’inizio della vicenda, le comunità hanno sempre pensato che la strada migliore fosse quella del dialogo, nella convinzione che potesse tornare a beneficio tanto loro quanto dell’Enel. Tuttavia, ci siamo poi resi conto che l’Enel ha utilizzato lo strumento del dialogo come un diversivo, prendendosi gioco della buona fede delle comunità indigene per portare avanti la costruzione della centrale idroelettrica. Quando le comunità hanno bloccato la strada di accesso a Palo Viejo, l’obiettivo era proprio quello di avviare un dialogo con la compagnia. Gli ixiles non si oppongono per principio alla costruzione della centrale: al contrario, hanno visto nel progetto un’opportunità di accesso all’energia elettrica, di cui sono ancora privi (in pieno XXI secolo!). L’accusa rivolta loro di opporsi allo sviluppo non è quindi fondata. Alle comunità, che si sono prese cura dei fiumi, delle montagne, dei boschi per centinaia di anni, sta a cuore lo sviluppo, ma uno sviluppo nel segno dell’armonia con la madre natura. Invece l’Enel ha preso a tagliare la montagna come fosse una torta, contaminando l’acqua del fiume Cotzal, dove la gente si bagna e si rifornisce d’acqua. Le persone hanno cominciato a soffrire di eruzioni cutanee e i pesci sono scomparsi. La regione ixil in Guatemala è una delle più ricche d’acqua e l’obiettivo principale dell’Enel è proprio quello di appropriarsi di questa ricchezza.

 

Il progetto poteva essere realizzato in un modo più rispettoso della natura?

Sì, tant’è che l’obiettivo delle comunità, inizialmente, era quello di collaborare con l’Enel: la compagnia avrebbe dovuto mettere i soldi, le comunità avrebbero messo a disposizione i loro fiumi, i loro boschi e le loro montagne, provvedendo a riforestare e a salvaguardare l’ambiente in cambio del 20% dell’energia elettrica. Ma l’Enel ha espresso un rifiuto nettissimo. Per la compagnia, infatti, le due uniche opzioni in campo sono queste: o l’energia prodotta viene immessa nella rete nazionale o – ed è il caso più probabile - viene esportata in Messico. L’energia prodotta in Cotzal, dunque, non è destinata a rimanere lì e le comunità si vedono ancora negare l’accesso all’energia elettrica.

 

E adesso cosa intendono fare?

Le comunità della regione ixil, composte da 150mila persone, stanno ora portando avanti un processo di consultazione nel pieno rispetto della tradizione ancestrale: un processo in cui non si tratta di dire solo sì o no, ma si dialoga, si ascolta l’opinione di ciascuno e si mira a raggiungere il consenso tra tutti, sotto la guida delle autorità comunitarie. Al di là del sindaco legalmente eletto dal popolo, il potere reale all’interno delle comunità indigene lo detiene infatti il Consiglio degli anziani.

 

Ed è un potere riconosciuto dalla Costituzione del Guatemala.

Sì, la legge guatemalteca garantisce una protezione speciale ai popoli indigeni, rispettandone le forme di organizzazione tradizionale. E il Guatemala ha anche sottoscritto la Convenzione 169 dell’Oil (Organizzazione Internazionale del Lavoro) e la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui popoli indigeni, due strumenti giuridici che tutelano il nostro processo di lotta e di resistenza. Il processo di consultazione avrà termine prima della fine dell’anno e da questo emergerà la decisione su come procedere ora che Enel ha bloccato il dialogo e respinto le proposte indigene.

 

Quand’è che la centrale diventerà operativa?

Era previsto che i lavori venissero ultimati nel 2011, ma il processo di costruzione, a causa della resistenza pacifica da parte delle comunità - resistenza riconosciuta dalla stessa Costituzione politica della Repubblica - ha subito forti ritardi. Tuttavia, dopo la rottura del dialogo da parte dell’Enel, Osvaldo Smith, amministratore generale dell’Enel Green Power in Guatemala, ha assicurato ai mezzi di comunicazione che la centrale di Palo Viejo diventerà operativa nel marzo del 2012.

 

Come ha influito in questa vicenda il processo elettorale che ha condotto alla presidenza del Paese l’ex generale Otto Pérez Molina?

L’aspetto negativo è che il responsabile del progetto della centrale è cognato del presidente eletto. Siamo certi che il governo farà di tutto per favorirne la costruzione. L’aspetto positivo è che nell’evento pubblico svoltosi prima delle elezioni con le 28 comunità di Cotzal, Baltazar Cruz, il candidato che poi è stato eletto, che è del Partido Patriota di Pérez Molina, ha firmato un documento pubblico in cui si impegna a sostenere le rivendicazioni delle 28 comunità. Esiste, ovviamente, il timore che verrà meno al suo impegno, ma la pressione delle comunità sarà fortissima.

 

Come si è comportata l’ambasciata italiana?

Ufficialmente tace. Ma, all’inizio, l’ambasciatore Mainardo Benardelli è stato direttamente coivolto, accompagnando i funzionari dell’Enel a visitare le comunità e a intimidire le persone che collaborano con esse, che le assistono, che inviano le informazioni in Italia. Questo all’inizio. Poi il ruolo dell’ambasciatore si è ridimensionato nel momento in cui due delle persone che erano state minacciate hanno presentato denuncia contro di lui.

 

Mons. Álvaro Ramazzini ha cercato di mediare tra la compagnia e le comunità. Ma, al di là del suo impegno a favore dei popoli indigeni, qual è la posizione dell’episcopato nel suo insieme?

Mons. Ramazzini, attualmente vescovo della diocesi di San Marcos, era fino a poco tempo fa il presidente della Conferenza episcopale. La sua posizione però non è condivisa da tutto l’episcopato. C’è una parte della Chiesa che realmente accompagna le lotte della popolazione indigena, ma la parte conservatrice dell’istituzione ecclesiastica si barcamena per non scontentare nessuno.

 

Perché, se la popolazione guatemalteca è maggioritariamente indigena, Rigoberta Menchú ha ricevuto solo il 3% dei voti?

La situazione è molto complicata. Dal 1821, il Guatemala è sempre stato dominato da una ristretta oligarchia creola, costituita da un gruppo di 8 famiglie che a turno governano il Paese, mettendo e togliendo deputati che difendono i loro interessi. Quando è stata elaborata la legge elettorale e dei partiti politici, si è posta ogni attenzione a garantire la permanenza al potere delle 8 famiglie. Inoltre, se in linea teorica tutti hanno diritto a costituire partiti e a presentare la propria candidatura, in Guatemala diventa decisivo il finanziamento delle transnazionali, diretto a salvaguardare i loro interessi nel Paese, senza contare le forme di riciclaggio del denaro da parte delle mafie internazionali. La legge elettorale in Guatemala non pone regole chiare. Il partito politico che dispone di più denaro può arrivare alle comunità più povere, che sono in maggioranza indigene, e distribuire mais, fagioli, zucchero in cambio di voti. È facile condizionare persone che stanno morendo di fame. C’è chi qui in Italia mi ha detto: siete il 70% della popolazione, create un vostro partito politico. Ma non è così facile. Secondo la mia organizzazione, Rigoberta Menchú ha svolto in queste elezioni la funzione storica di aver mostrato la  possibilità di una candidatura indigena, segnando in tal modo il cammino che altri dovranno percorrere. Perché tale possibilità è tutt’altro che scontata nella pratica. Bisogna ricordare che gran parte delle persone che credevano che un indigeno potesse arrivare alla presidenza del Paese è stata spazzata via durante il conflitto armato interno conclusosi 15 anni fa. In questo conflitto sono cadute 250mila persone. E si trattava dei migliori cervelli del Paese, di indigeni che perseguivano il cambiamento e che sono stati eliminati proprio per questo loro impegno. Il compito di formare una nuova generazione di leader prenderà anni.

 

Perché non è bastato a dissuadere la popolazione il fatto che Pérez Molina risulti essere uno dei responsabili delle violazioni commesse durante il conflitto armato? C’è forse un problema di memoria storica?

La maggioranza della popolazione dei territori indigeni non ha votato per Pérez Molina. La sua vittoria si è costruita soprattutto nella capitale, dove si concentra la maggior parte degli elettori, prevalentemente non indigeni. Inoltre, lo slogan della sua campagna elettorale è stato quello della necessità del pugno di ferro, una necessità che è stata creata ad arte. Da un anno a questa parte, si è stabilito una sorta di regime del terrore, soprattutto nella capitale, diventata una delle città più violente del mondo: vengono continuamente assassinate donne, appaiono corpi smembrati in luoghi pubblici, un braccio da una parte, la testa da un’altra, e da qualche mese è cominciata anche una catena di omicidi di autisti del trasporto pubblico. L’obiettivo è creare il terrore. Di fronte a tanta violenza, infatti, la prima cosa che viene in mente alla gente è quella della necessità di usare il pugno di ferro. Ed ecco che appare il Partito Patriota a promettere “mano dura”.

 

Tanto in El Salvador come in Nicaragua la ex guerriglia, rispettivamente del Fronte Farabundo Martí e del Fronte Sandinista, è alla fine riuscita ad arrivare o a ritornare al governo. Perché in Guatemala questo non è avvenuto?

Nella sua prima esperienza come partito politico, nel 1998, l’Unrg (Unidad Revolucionaria Nacional Guatemalteca) era diventata la terza forza politica. Ma poi ha gradualmente perso voti, diventando come gli altri partiti del sistema, dove le candidature si negoziano come al mercato. Il fatto è che il Guatemala è un Paese razzista, escludente e discriminatorio. Se nel mondo, nella maggior parte dei casi, esiste discriminazione nei confronti di una minoranza, in Guatemala è invece la minoranza ad escludere la maggioranza della popolazione. E questo si riflette anche nel partito dell’ex guerriglia, perché l’Unrg non ha mai dato spazio ai potenziali dirigenti indigeni, dominata da sempre da un’élite urbana non indigena che, nel momento stesso in cui predicava la democrazia, non si è mai preoccupata di democratizzarsi al suo interno, favorendo la partecipazione reale dei popoli indigeni. È stata proprio questa una delle cause per cui il partito ha perso consensi.

 

Vi sono segni di speranza?

La nostra speranza è legata alla costruzione di un potere politico propriamente indigeno, ma non saranno le attuali generazioni a riuscire nell’impresa. Io ho 37 anni e sono cosciente, insieme alle persone della mia generazione, che non saremo noi a raccogliere i frutti di questo sogno, ma che il nostro compito è quello di riprendere il cammino di chi ci ha preceduto ed è stato eliminato proprio per aver sognato un Paese diverso. Nel frattempo si sono registrati piccoli risultati. Attualmente nel Congresso sono presenti 18 indigeni su 158. È una minima parte, ma è già qualcosa. 15 anni fa ve ne erano solo 3. Il nostro compito è quello di aprire brecce, riprendendoci e occupando lo spazio che ci spetta come soggetti attivi di cambiamento.

 

Forse, però, non basta avere tratti indigeni, bisogna che si recuperi anche la cosmovisione, la tradizione ancestrale…

È per questo che le attuali generazioni dovranno farsi da parte, e che bisognerà puntare sulle nuove. Durante la guerra si era proibita ogni pratica indigena, cosicché non è strano che oggi vi siano indigeni che pensano e agiscono come se non lo fossero. Certe cose si sono perdute, anche se non per colpa nostra. Il nostro compito è quello di preparare le generazioni future.

 

E questo processo è già in corso?

Sì, ed è per noi il più grande segno di speranza.

E dalla solidarietà italiana cosa vi aspettate?

Quando, nel 1992, Rigoberta Menchú ha ricevuto il Nobel per la Pace, le comunità indigene hanno visto nell’assegnazione del premio non un riconoscimento individuale, ma un riconoscimento da parte della comunità internazionale alla resistenza condotta dai nostri popoli per 500 anni. E con ciò si è aperta una breccia. Da allora, l’accompagnamento della comunità internazionale è stato per noi molto importante. È per questo che stiamo creando una rete internazionale tramite cui diffondere le informazioni che riguardano i popoli indigeni del Guatemala in relazione alla nuova forma di colonizzazione oggi in atto. Lo stiamo facendo con l’Italia perché l’Enel è italiana. E in Canada mons. Ramazzini e altri compagni di altre organizzazioni fanno lo stesso lavoro rispetto all’attività mineraria. Ed è in questo modo che stiamo globalizzando la solidarietà tra i popoli.

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