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IL PRETE E L’ANTROPOLOGO: LA TESTIMONIANZA DI P. SABATINI TRA GLI INDIOS DELL’AMAZZONIA BRASILIANA

Tratto da: Adista Notizie n° 7 del 25/02/2012

36555. ROMA-ADISTA. All’età di 90 anni, il missionario della Consolata Silvano Sabatini, impegnato per 40 anni tra gli indios dell’Amazzonia brasiliana, ha davvero molto da raccontare: sulla sua «vita “ribelle” vissuta sul filo del rasoio», sul suo coraggioso, sofferto, stimolante, destabilizzante «soggiorno presso l’Altro», sul senso della missione, con tutte le sue tensioni, contraddizioni e complessità (in un momento, peraltro, in cui la riconsiderazione dell’attività missionaria della Chiesa appare quanto mai attuale ed urgente). È dunque con il più vivo interesse che si legge il suo libro-testimonianza Il prete e l’antropologo. Tra gli indios dell’Amazzonia (Ediesse, 2011, pp. 153, 12 euro; per ordinare una copia, tel. 06/44870283, e-mail: ediesse@cgil.it), scritto in collaborazione con l’antropologa Silvia Zaccaria, impegnata da anni a condurre ricerche sul campo tra gli indigeni dell’Amazzonia brasiliana (e autrice della Postfazione “Missionari, antropologi e gli dèi degli altri”). Un libro che, già nel titolo, come sottolinea il superiore generale dei Missionari della Consolata Stefano Camerlengo, «coniuga e armonizza i due spazi di ricerca, imprescindibili e inseparabili, a cui ogni missionario deve sempre e comunque fare riferimento: l’uomo e Dio», così da «poter incontrare l’uomo cercando Dio» e da «cercare l’uomo per poter incontrare Dio». Un libro che, come evidenzia nell’introduzione Antonino Colajanni, professore di Antropologia sociale all’università La Sapienza di Roma, «racconta una magnifica storia di vita», quella di un missionario «che si pone alla prova, che si trasforma con l’esperienza del contatto interculturale, che ha coraggio, tenacia e forza di lottare per ciò che ritiene giusto». E non è, quella di Sabatini, una trasformazione di poco conto, dal concetto, proprio dell’educazione ricevuta, di un Dio «che salva solo i piccoli grappoli d’uva rimasti dopo la vendemmia», grappoli da cui erano esclusi quegli indios senza battesimo, passando per il «forte sdegno» contro quel «Dio giustiziere» che aveva creato l’essere umano a sua immagine per poi condannarlo, fino alla definitiva riconciliazione con il Padre: «L’ansia di scorgerlo nelle sue molteplici declinazioni culturali – scrive Sabatini a conclusione della sua testimonianza – mi spinse ad immergermi con più profondità nella dimensione sacrale indigena, alla luce della quale potevo interpretare la loro storia collettiva e il mio personale percorso di salvezza». Un percorso in cui la pretesa di essere «padrone della verità» lascia il posto alla consapevolezza di possedere appena «alcuni valori fondamentali, cui ne mancavano degli altri, complementari, che con sorpresa – spiega Sabatini – scoprivo in quegli indios». Ed è una relazione che, evidenzia Zaccaria nella Postfazione, «innesca, in entrambe le parti, uno slancio vitale, una spinta al cambiamento che significa, per gli uni, la riacquisizione della propria memoria storica, per l’altro una trasformazione che cura e salva, perché permette la piena realizzazione del proprio essere uomo (e quindi, per Sabatini, del proprio essere prete)».

Si spiega così, in contrasto con «il disastro culturale» causato dall’orientamento assimilazionista di missionari poco illuminati, la novità di un’azione come quella del gruppo dei missionari del Catrimani (area all’interno della foresta amazzonica nello Stato di Roraima), centrata sull’elaborazione di un «progetto politico-teologico di emancipazione», attraverso la salvaguardia della maloca, la casa comune, «come luogo storico-sociale, ma anche mitico-teologico della realtà indigena», la totale accettazione del mito e del suo valore oggettivo (in quanto, spiega Silvia Zaccaria, «valido di per sé come dimensione fondamentale e insostituibile nella ricerca di significato, per l’individuo e per il gruppo, della propria ragione d’essere nel mondo») e il riconoscimento della piena dignità del ruolo dello sciamano, come pure la necessità di «dar voce» direttamente all’indigeno, perché racconti la sua verità senza mediazioni e senza interpretazioni. Un progetto che porta con sé una visione radicalmente diversa dell’evangelizzazione: «Non abbiamo mai battezzato uno yanomami – dichiara Sabatini – perché eravamo convinti che non avesse senso battezzare la persona fuori della comunità e che è la cultura che deve essere evangelizzata: l’uomo ha diritto alla sua cultura e deve trovare in essa la forma per esprimersi in modo cristiano. Battezzare fuori dalla comunità avrebbe significato creare nel battezzato una doppia personalità». Motivo per cui, racconta Zaccaria, «Sabatini replicava così a quel monsignore ansioso di sapere da lui quanti yanomami avesse battezzato: “Per grazia del Buon Dio neanche uno”». (claudia fanti)

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