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RIO+20 E IL VERTICE DEI POPOLI

Tratto da: Adista Documenti n° 8 del 03/03/2012

ll modo in cui i grandi mezzi di comunicazione hanno affrontato due eventi svoltisi recentemente – il Forum Economico Mondiale di Davos e il Forum Sociale Tematico di Porto Alegre – è rivelatore degli interessi che oggi controllano l’opinione pubblica mondiale. Il primo ha meritato ampia attenzione malgrado in quella sede non si sia discusso nulla di nuovo: solo trite analisi sulla crisi europea, con l’insistenza di sempre a ruminare sui sintomi della crisi, occultandone le vere cause. Il secondo è stato passato completamente sotto silenzio, malgrado abbia discusso di problemi che condizionano in maniera decisiva il nostro futuro: il cambiamento climatico; l’accesso all’acqua; la qualità e la quantità degli alimenti disponibili di fronte alla piaga della fame e della denutrizione; la giustizia ambientale; i beni comuni dell’umanità e l’importanza dei saperi popolari, non eurocentrici, relativi alla ricerca di giustizia ambientale. La selettività dei mezzi di comunicazione rivela con chiarezza i pericoli che corriamo quando l’opinione pubblica si riduce all’opinione che si pubblica.

Il Forum tematico di Porto Alegre si proponeva di discutere la questione di Rio+20, la Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile che si realizzerà il prossimo giugno a Rio de Janeiro, venti anni dopo la prima Conferenza Onu sul tema, svoltasi anch’essa a Rio, evento che per primo ha lanciato l’allarme sui problemi ambientali che abbiamo di fronte e sulle nuove dimensioni di ingiustizia sociale che portano con sé. I dibattiti hanno seguito essenzialmente due versanti: da un lato l’analisi critica degli ultimi vent’anni e dei documenti preparatori della Conferenza; dall’altro la discussione delle proposte che verranno presentate al Vertice dei popoli, un incontro delle organizzazioni della società civile che si svolgerà parallelamente alla Conferenza intergovernativa delle Nazioni Unite.

RIO+20: LE CRITICHE

Vent’anni fa, le Nazioni Unite svolsero un ruolo importante nel lanciare l’allarme sui pericoli a cui è esposta la vita umana e non umana nel caso il mito della crescita economica indefinita continui a dominare le politiche economiche e non si ponga un argine al consumismo irresponsabile: il pianeta è limitato, i cicli vitali di rinnovamento si stanno esaurendo e la natura si “vendicherà” con cambiamenti climatici che diventeranno presto irreversibili e colpiranno in maniera speciale i più poveri, aggiungendo nuove dimensioni di ingiustizia sociale alle molte già esistenti. Sembrò, all’epoca, che gli Stati prendessero nota di tali avvertimenti, impegnandosi in molte promesse sotto forma di convenzioni e protocolli. E sembrò che le multinazionali, le grandi responsabili della devastazione ambientale, finissero sotto sorveglianza.

Purtroppo, questo momento di riflessione e di speranza è svanito assai presto. E il risultato si riflette sui documenti preparati dall’Onu per la Conferenza Rio+20, nei quali si raccolgono informazioni importanti sulle innovazioni legate al rispetto dell’ambiente, ma si formulano proposte - riassunte nel concetto di “economia verde” - scandalosamente inefficaci e persino controproducenti: convincere i mercati (sempre liberi, senza restrizioni) riguardo alle opportunità di lucro offerte dagli investimenti nel settore ambientale, calcolando i costi ambientali (esternalità) e attribuendo valore di merce alla natura. Nel mondo immaginario in cui si muovono questi documenti, le “falle del mercato” dipendono solo da una mancanza di informazione, cosicché, una volta superata questa, non mancheranno investimenti e innovazioni “verdi”. Il che significa che non esiste altro modo di relazionarci tra esseri umani e con la natura che non sia attraverso il mercato e la ricerca del profitto individuale. Un’orgia neoliberista che, partendo dal Nord, sembra propagarsi ora ai Paesi emergenti.

VERTICE DEI POPOLI: LE PROPOSTE

Parallelamente alla Conferenza delle Nazioni Unite, la società civile organizza a Rio il Vertice dei popoli ed è su questo che possiamo depositare qualche speranza. I dibattiti preparatori a Porto Alegre hanno permesso di individuare i punti forti delle alternative che si presenteranno e rispetto alle quali occorrerà esercitare pressioni affinché entrino nelle agende politiche nazionali e internazionali.

In primo luogo, la centralità e la difesa dei beni comuni dell’umanità come risposta alla mercificazione, alla privatizzazione e alla finanziarizzazione della vita, implicite nel concetto di “economia verde”. I beni comuni dell’umanità sono quei beni prodotti dalla natura o dai gruppi umani a livello locale, nazionale o globale che devono restare di proprietà collettiva, a differenza di ciò che è privato e anche di ciò che è pubblico (statale), per quanto allo Stato spetti di cooperare alla protezione di questi beni.

La prima donna a ricevere il Premio Nobel per l’Economia, Elinor Ostrom, ha dedicato tutta la sua opera all’analisi della diversità dei mezzi di gestione dei beni comuni, sempre salvaguardando il principio che il diritto a tali beni è uguale per tutti. I beni comuni sono il contrappunto allo sviluppo capitalista e non un suo allegato come avviene con il concetto di “sostenibilità”. Al di là dell’uso individuale dei beni comuni teorizzato da Ostrom, bisogna tenere conto degli usi collettivi delle comunità indigene e contadine. Tra i beni comuni bisogna ricordare l’aria e l’atmosfera, l’acqua, le falde acquifere, i fiumi, gli oceani, i laghi, le terre comunali o ancestrali, le sementi, la biodiversità, i parchi e le piazze, il linguaggio, il paesaggio, la memoria, la conoscenza, il calendario, Internet, l’html (il principale linguaggio di pubblicazione di pagine web, ndt), i prodotti copyleft, Wikipedia, l’informazione genetica, ecc. I beni comuni presuppongono diritti comuni e diritti individuali di uso temporaneo. Alcuni di questi beni possono esigere o tollerare alcune restrizioni all’uso comune ed egualitario, ma devono essere eccezionali e temporanee. L’acqua comincia ad essere considerata come il bene comune per eccellenza e le lotte contro la sua privatizzazione in vari Paesi sono quelle che hanno riscosso maggiore successo, soprattutto in presenza di una combinazione di lotte contadine e di lotte urbane.

In secondo luogo, il passaggio graduale da una civiltà antropocentrica a una civiltà biocentrica, passaggio che implica il riconoscimento dei diritti della natura; la ridefinizione del concetto di “vivere bene” e di prosperità in modo che non dipenda da un modello di crescita infinita; la promozione di energie realmente rinnovabili (esclusi quindi gli agrocombustibili) che non comportino l’espulsione di contadini e indigeni dai loro territori; l’elaborazione di politiche di transizione per i Paesi i cui presupposti dipendono eccessivamente dall’estrazione di materie prime, che siano minerali, petrolio o monocolture, con prezzi controllati dai grandi monopoli del Nord.

In terzo luogo, la difesa della sovranità alimentare, il principio secondo cui, nella misura del possibile, ogni comunità deve esercitare il controllo sui beni alimentari che produce e consuma, accorciando al massimo la distanza tra consumatori e produttori, difendendo l’agricoltura contadina, promuovendo l’agricoltura urbana del tempo libero, vietando la speculazione finanziaria sui prodotti alimentari. La sovranità alimentare, insieme all’idea dei beni comuni, esige il divieto dell’accaparramento di terre (soprattutto in Africa) da parte di Paesi stranieri (Cina, Giappone, Arabia Saudita, Kuwait) o di multinazionali (come il progetto della sudcoreana Daewoo di acquistare 1,3 milioni di ettari in Madagascar) in cerca di riserve alimentari.

In quarto luogo, un vasto programma di consumo responsabile che comprenda una nuova etica della cura e una nuova educazione alla condivisione: la responsabilità nei confronti di coloro che non hanno accesso a un consumo minimo che ne garantisca la sopravvivenza; la lotta contro l’invecchiamento artificiale dei prodotti; la preferenza per i beni prodotti dalle economie sociali e solidali centrate sul lavoro e non sul capitale, sulla realizzazione personale e collettiva anziché sull’accumulazione infinita; la scelta di consumi collettivi e condivisi ogni volta che sia possibile; una maggiore conoscenza dei processi di produzione dei beni di consumo in maniera da rifiutare il consumo di prodotti realizzati con il lavoro schiavo, l’espulsione di contadini e indigeni, la contaminazione delle acque, la distruzione di luoghi sacri, la guerra civile o l’occupazione coloniale.

In quinto luogo, l’inclusione, in tutte le lotte e in tutte le proposte alternative, dell’esigenza trasversale di maggiore democrazia e della lotta contro la discriminazione sessuale, razziale, etnica, religiosa e contro la guerra.

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