Nessun articolo nel carrello

SE LA SINISTRA È SEMPRE MENO VERDE. ESPLODONO IN AMERICA LATINA I CONFLITTI AMBIENTALI

Tratto da: Adista Notizie n° 11 del 24/03/2012

36595. ROMA-ADISTA. Se oggi il vero banco di prova della sinistra è dato dalla capacità di conciliare un modello ecocompatibile con la soddisfazione delle necessità di base di tutta la popolazione, i risultati appaiono ad oggi davvero modesti. E di certo non solo a casa nostra, dove, tanto per fare un esempio, Susanna Camusso è giunta a difendere un progetto inutile, costoso ed ecologicamente devastante come quello della nuova linea ferroviaria Torino-Lione, in nome della creazione di posti di lavoro, ma anche nella regione che, negli ultimi vent’anni, più vivacità ha mostrato in termini di resistenza e di lotta per un altro mondo possibile: quell’America Latina in cui il cosiddetto modello estrattivista, basato sull’esportazione di materie prime non lavorate e su ampie concessioni minerarie a società transnazionali, si è rivelato, come ha scritto recentemente il sociologo venezuelano Edgardo Lander, «la fonte principale delle contraddizioni interne e delle disillusioni nei confronti dei governi “progressisti” e di sinistra», i quali sembrano di fatto dare per scontato che non esista altra strada possibile che quella di un sistema fondato sulla crescita economica. Al modello estrattivista, definito dal giornalista e scrittore uruguayano Raúl Zibechi come «appropriazione dei beni comuni, in modo diretto o indiretto, per trasformali in merce», non sfugge peraltro nessun Paese della regione, che sia governato dalla sinistra o dalla destra, Venezuela e Bolivia compresi.

Di una sinistra «sempre meno rossa» e sempre più «marrone» parla non a caso il sociologo uruguayano Eduardo Gudynas (Alai, 2/3), sottolineando come ovunque nel continente i governi “progressisti”, puntando sugli alti prezzi delle materie prime sui mercati globali, sostengano in maniera esplicita l’estrattivismo, appoggiando le imprese (statali, miste o private) che lo promuovono, offrendo facilitazioni agli investimenti o flessibilizzando le norme ambientali, nel momento stesso in cui, nei confronti della protesta sociale, assumono posizioni che giungono fino alla criminalizzazione e alla repressione. Dietro le parole d’ordine della crescita economica, dell’attrazione degli investimenti e della promozione delle esportazioni, tali governi, sostiene Gudynas, operano affinché «lo Stato intercetti parte di questa ricchezza, per mantenere se stesso e finanziare programmi di lotta contro la povertà». In questa ottica, prosegue il sociologo, «la sinistra al governo non sa bene che farsene dei temi ambientali», finendo per vedere in essi, piuttosto, e al di là di vaghi riferimenti alle questione ecologica e persino di invocazioni alla Pacha Mama, degli ostacoli alla crescita economica, e dunque «un freno alla riproduzione dell’apparato statale e all’assistenza economica ai più necessitati». Assistenza che rende i governi sempre più dipendenti dall’esportazione di materie prime.

La protesta sociale, tuttavia, cresce di pari passo con il processo di appropriazione dei beni comuni, come rivela la lunga serie di conflitti in corso in tutto il continente. Risale in realtà al 2002, come evidenzia Zibechi (La Jornada, 9/3), la prima consultazione popolare municipale sull’attività mineraria, a Tambogrande, nel Nord del Perù: più del 90% dei votanti si espresse allora contro il progetto di sfruttamento di un giacimento di oro, argento e zinco da parte dell’impresa canadese Manhattan. È stato quello l’inizio di una serie di consultazioni popolari, tutte con risultati analoghi, diventate la «forma di lotta che le comunità locali hanno individuato per rompere l’isolamento ed evitare che le proprie ragioni annegassero nel silenzio ufficiale. Oggi si può senz’altro dire che abbiano avuto successo», rendendo possibili le innumerevoli mobilitazioni che si registrano ora, secondo un «modello di azione» grazie a cui, sottolinea Zibechi, i movimenti hanno superato largamente la sfera locale, ponendosi come «la principale alternativa al modello basato sull’espropriazione dei beni comuni».

Una marcia dopo l’altra

Ultima in ordine di tempo è la mobilitazione in corso in Ecuador, dove l’8 marzo è partita dal cantone di Pangui, in una regione di sfruttamento minerario, la Marcia Plurinazionale per la vita, per l’acqua e per la dignità dei popoli, che giungerà a Quito il 22 marzo. Appena tre giorni prima, il 5 marzo, il presidente Rafael Correa aveva salutato con toni trionfalistici la firma del contratto con l’impresa Ecsa, di proprietà del consorzio cinese Crcc-Tongguanper, per lo sfruttamento di un giacimento minerario nella Cordigliera del Cóndor, alla frontiera con il Perù, una delle aree più ricche di biodiversità del Paese. Si tratta di uno dei cinque progetti minerari ritenuti prioritari dal governo Correa, il quale – come sottolinea Decio Machado (Rebelión, 12/3) – «è il primo governo ad aver trasformato i mega progetti minerari in un’attività strategica destinata a lasciare un’impronta sul futuro modello di sviluppo ecuadoriano». «Non vogliamo rassegnarci – dichiarano i partecipanti alla marcia (Adital, 13/3) – a sopravvivere in un Paese devastato in balia della paura o dell’indifferenza, un Paese con realtà parallele di fiumi morti e di autostrade idilliache, di gente “felice” con la sua manciata di dollari dati dallo Stato e di gente malata per la contaminazione mineraria e petrolifera, di gente che si consuma nel consumismo e di gente morta in vita, senza memoria né identità, privata delle sue foreste e della sua condizione umana, tra alberi e animali massacrati».

Un’altra marcia nazionale per il diritto all’acqua – «la mobilitazione popolare più importante dall’epoca di Fujimori», l’ha definita Hugo Blanco – si è svolta dall’1 al 9 febbraio in Perù, contro il grande progetto minerario di Conga, a Cajamarca, promosso dalla Yanacocha, la prima impresa di estrazione dell’oro in Sudamerica e la seconda nel mondo: sul suo curriculum risalta, durante gli ultimi mesi del governo Fujimori, il devastante sversamento di mercurio a Choropampa, costato la vita di oltre 70 persone, e rimasto impunito. Bocciato dallo stesso governo regionale di Cajamarca, il progetto Conga, che può contare su un investimento di quasi 5 miliardi di dollari, minaccia di distruggere le riserve d’acqua dolce della regione, producendo, secondo gli studi di impatto ambientale del Ministero dell’Ambiente, danni irreversibili all’ecosistema e contaminando il bacino del fiume Marañón, un importante affluente del Rio delle Amazzoni. «È un progetto devastante  che stride con forza – ha affermato Gregorio Santos, presidente regionale di Cajamarca (Alai, 2/6) – con quanto promesso dal presidente Ollanta Humala», quando, dopo averci chiesto: «Che cosa volete, l’oro o l’acqua?» e aver ricevuto la netta risposta del popolo: «Vogliamo l’acqua», si impegnò «a difendere le risorse idriche di Cajamarca». Un voltafaccia, quello di Humala, che si spiega facilmente con il peso assunto, nell’economia peruviana, dalle esportazioni minerarie (in massima parte di oro, di cui il Perù è il primo produttore latinoamericano e il sesto mondiale, e di rame), le quali, come ricorda Javier Diez Canseco (Sin Permiso, 4/3), hanno rappresentato nel 2011 quasi il 60% del valore totale delle esportazioni. E ciò in un Paese in cui l’attività mineraria è concentrata nelle mani di neppure venti imprese (addirittura di due nel caso del rame e di tre nel caso dell’oro), le quali riescono in media a raddoppiare tutto il loro patrimonio in un periodo che va dai due ai quattro anni.   

E mentre in Bolivia si annuncia una nuova mobilitazione in difesa del Tipnis, in Argentina, dove i conflitti legati all’attività mineraria interessano almeno 12 province, la vittoriosa lotta degli abitanti di Famatina, che ha portato alla sospensione di un progetto minerario a cielo aperto (metodo che richiede, per l’estrazione di un chilo d’oro, la rimozione dalle 130 alle 150 tonnellate di terra e l’uso di quantità massicce di cianuro, arsenico e mercurio), ha alimentato le proteste delle popolazioni di Catamarca e Tucumán contro il maggiore giacimento minerario dell’Argentina, in Bajo de la Alumbrera e di quella de La Rioja contro l’impresa mineraria canadese Osisko.

I conflitti ambientali abbondano, ovviamente, anche nei Paesi governati dalle destre. In Colombia, una grande mobilitazione popolare ha indotto il Ministero dell’Ambiente a negare alla compagnia canadese Eco Oro Minarals l’autorizzazione per un progetto di sfruttamento minerario a cielo aperto nel Páramo de Santurbán, a Santander, un complesso lagunare che fornisce l’acqua a una popolazione di 2 milioni e 200mila persone. A Panama, in seguito alla mobilitazione dei popoli originari Ngäbe-Buglé, che dal 31 gennaio al 7 febbraio hanno bloccato la Panamericana ricevendo un convinto sostegno da parte della popolazione, il governo di Ricardo Martinelli ha dovuto piegarsi alle rivendicazioni indigene, accettando di avviare le trattative sulla legge relativa all’attività mineraria e alla costruzione di centrali idroelettriche. Critica la situazione in America Centrale, dove centinaia di progetti minerari sono in attesa di approvazione. In Honduras, in particolare, dove già erano state rilasciate oltre 370 concessioni, sono state presentate, dopo il golpe del 2009, altre 300 richieste di sfruttamento mineario, anche a cielo aperto. Ma neppure in Centroamerica mancano proteste e mobilitazioni: in Guatemala, per esempio, grazie alle pressioni popolari, 56 municipi si sono proclamati «liberi dall’attività mineraria». (claudia fanti)

Adista rende disponibile per tutti i suoi lettori l'articolo del sito che hai appena letto.

Adista è una piccola coop. di giornalisti che dal 1967 vive solo del sostegno di chi la legge e ne apprezza la libertà da ogni potere - ecclesiastico, politico o economico-finanziario - e l'autonomia informativa.
Un contributo, anche solo di un euro, può aiutare a mantenere viva questa originale e pressoché unica finestra di informazione, dialogo, democrazia, partecipazione.
Puoi pagare con paypal o carta di credito, in modo rapido e facilissimo. Basta cliccare qui!

Condividi questo articolo:
  • Chi Siamo

    Adista è un settimanale di informazione indipendente su mondo cattolico e realtà religioso. Ogni settimana pubblica due fascicoli: uno di notizie ed un secondo di documentazione che si alterna ad uno di approfondimento e di riflessione. All'offerta cartacea è affiancato un servizio di informazione quotidiana con il sito Adista.it.

    leggi tutto...

  • Contattaci

  • Seguici

  • Sito conforme a WCAG 2.0 livello A

    Level A conformance,
			     W3C WAI Web Content Accessibility Guidelines 2.0

50 anni e oltre

Adista è... ancora più Adista!

A partire dal 2018 Adista ha implementato la sua informazione online. Da allora, ogni giorno sul nostro sito vengono infatti pubblicate nuove notizie e adista.it è ormai diventato a tutti gli effetti un giornale online con tanti contenuti in più oltre alle notizie, ai documenti, agli approfondimenti presenti nelle edizioni cartacee.

Tutto questo... gratis e totalmente disponibile sia per i lettori della rivista che per i visitatori del sito.