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UNA «PERVERSA COSPIRAZIONE» CONTRO LA GIUSTIZIA. NEGATA L’ESTRADIZIONE PER GLI ASSASSINI DELLA UCA

Tratto da: Adista Notizie n° 20 del 26/05/2012

36697. SAN SALVADOR-ADISTA. Per quanti non si rassegnano al trionfo dell’impunità, la mancata estradizione in Spagna dei responsabili del massacro dei sei gesuiti della Uca (l’Università centroamericana di San Salvador), della loro cuoca Julia Elba e di sua figlia Celina, avvenuto il 16 novembre del 1989, rappresenta un’altra battaglia persa. Ed è una ben magra consolazione il fatto che sarà l’intero El Salvador a trasformarsi in un carcere per i 13 militari accusati (tra cui l’allora ministro della Difesa Rafael Humberto Larios e l’ex comandante della Forza Aerea Juan Rafael Bustillo): al di fuori dei confini del Paese, infatti, peserà ancora su di loro l’ordine di cattura internazionale emesso lo scorso agosto dal giudice della Audiencia Nacional di Madrid Eloy Velasco, attraverso un codice rosso dell’Interpol, nell’ambito del processo avviato nel gennaio del 2009 (a seguito della denuncia di due associazioni, una spagnola, l’Associazione per i Diritti Umani, e l’altra statunitense, il Centro di Giustizia e Responsabilità di San Francisco; v. Adista nn. 90/10 e 68/11).

La risposta dello Stato salvadoregno alla domanda di estradizione presentata il 9 gennaio dall’Audiencia Nacional di Madrid è giunta solo l’8 maggio scorso, quando nove dei 15 componenti della Corte Suprema di El Salvador hanno respinto la richiesta, con la motivazione che, al momento del massacro, la legislazione del Paese proibiva l’estradizione di cittadini salvadoregni. Non c’è del resto molto di cui sorprendersi, dal momento che – come ha evidenziato il direttore dell’Idhuca (l’Istituto dei diritti umani dell’Uca) Benjamín Cuéllar – «la decisione di proteggere questi individui è stata adottata anche prima dell’esecuzione sommaria di otto persone indifese»: da allora, ha scritto Cuéllar in un articolo dal titolo “Sono vivi”, quelli che erano intoccabili continuano ad esserlo, «per decisione ufficiale di tutti i poteri», in una «perversa cospirazione nel segno della menzogna, del silenzio e dell’impunità» in cui ha giocato un ruolo importante anche l’Assemblea legislativa, mantenendo in vigore per quasi vent’anni «un’amnistia contraria a tutti gli standard internazionali sui diritti umani».

Quanto alle voci relative all’archiviazione del caso da parte del giudice Eloy Velasco in seguito alla mancata estradizione dei militari (in Spagna il processo in contumacia non è ammesso), esiste, secondo Cuéllar, ancora una speranza: quella riguardo alla possibile estradizione in Spagna da parte degli Stati Uniti dell’ex colonnello Inocente Montano, all’epoca viceministro della Difesa di El Salvador, sotto processo a Boston per frode migratoria e richiesto anche dal giudice Velasco. «Se Montano venisse estradato a Madrid – ha dichiarato Cuéllar –, il processo potrebbe iniziare, malgrado l’assenza degli altri imputati».

La lotta, in ogni caso, non finisce qui. La Compagna di Gesù, ha sottolineato Cuéllar, porterà avanti la sua battaglia a livello di Commissione Interamericana per i diritti umani (Cidh), presso cui, nel novembre del 2003, ha fatto causa allo Stato salvadoregno per la mancata soluzione del caso dei martiri della Uca. Era stata del resto proprio la Cidh, nel 1999, a raccomandare a El Salvador un’indagine completa, imparziale ed effettiva, e in tempi rapidi, al fine di identificare, processare e punire i responsabili, esecutori e mandanti, esigendo al riguardo la revoca della legge di amnistia. Tutti obblighi rimasti perfettamente inevasi.

Già nel 1991, in realtà, sotto la pressione degli Stati Uniti, dove i gesuiti erano noti e ammirati, erano stati processati il colonnello Guillermo Alfredo Benavides, i tenenti René Mendoza Vallecillos e José Ricardo Espinoza, il sottotenente Gonzalo Guevara Cerritos e cinque soldati del Battaglione Atlacatl, ma sette di loro, compresi i rei confessi, erano stati assolti, in un processo viziato da clamorose irregolarità. E gli unici due condannati, Benavides e Mendoza, erano stati rimessi in libertà appena 15 mesi più tardi grazie all’amnistia decretata nel 1993 dall’allora presidente Alfredo Cristiani. (claudia fanti)

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