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GUATEMALA: LA SFIDA DELLA CHIESA ALL’ALLEANZA TRA GOVERNO E IMPRESE

Tratto da: Adista Notizie n° 21 del 02/06/2012

36713. SANTA CRUZ BARILLAS-ADISTA. Dopo 16 giorni di stato d’assedio, la mano dura del presidente guatemalteco Otto Pérez Molina ha allentato la presa su Santa Cruz Barillas, il municipio del dipartimento di Huehuetenango mobilitato contro la costruzione di una centrale idroelettrica sul fiume Cambalá da parte dell’impresa Hidro Santa Cruz (sussidiaria della spagnola Hidralia Energía S.A.). La coraggiosa mobilitazione indigena e le forti pressioni internazionali hanno pesato in maniera decisiva sulla decisione del presidente - eletto alla guida del Paese grazie soprattutto alla sua promessa di una politica del “pugno di ferro” (v. Adista n. 84/11) - di sospendere per un mese lo stato d’assedio decretato il 2 maggio scorso in seguito alle proteste contro l’uccisione a colpi di arma da fuoco di un dirigente contadino, Andrés Francisco Miguel, e il ferimento di altre due persone. E mentre per l’omicidio del leader contadino, che la comunità riconduce alla guardia di sicurezza privata dell’impresa, non si è proceduto ad alcuna cattura, alla violenta reazione di protesta della comunità si è risposto invece con lo stato d’assedio, durante il quale la popolazione ha rivissuto lo stesso orrore sofferto sotto i governi militari negli anni ’80.

Già nel 2007, in realtà, la popolazione si era espressa, attraverso la consultazione comunitaria prevista dal diritto ancestrale, dalla Convenzione 169 dell’Oil (Organizzazione Internazionale del Lavoro) e dalla legislazione nazionale, contro le grandi opere minerarie e idrolettriche, responsabili della devastazione degli ecosistemi naturali e dei luoghi sacri delle comunità indigene. Ciononostante, la compagnia Hidro Santa Cruz ha comunque portato avanti il suo progetto idroelettrico, impegnandosi a creare divisioni all’interno delle comunità, anche ricorrendo a intimidazioni e minacce. Fino all’assassinio del primo maggio scorso. 

Per il bene delle imprese

In appoggio al popolo di Santa Cruz Barillas è intervenuta anche la diocesi di Huehuetenango, attraverso una coraggiosa e lucida lettera pastorale firmata dal vescovo Rodolfo Francisco Bobadilla Mata, il quale denuncia tanto «la prepotenza e il rifiuto del dialogo» da parte dell’impresa, quanto lo sproporzionato utilizzo della forza da parte del governo, al punto da provocare «nella popolazione il timore di un ritorno alla situazione del passato conflitto armato». «È con somma tristezza e preoccupazione – si legge nella lettera pastorale, datata 11 maggio – che prendiamo atto di come il governo abbia agito più a favore della sicurezza di un’impresa privata straniera che a sostegno degli abitanti del municipio di Santa Cruz Barillas. È a tutti noto che, per azioni governative come queste, si tende a pensare che le leggi siano fatte per il bene non dei guatemaltechi ma di coloro che possono manipolarle a proprio piacimento».

Ma la denuncia della diocesi va oltre il caso specifico di Barillas, rivolgendosi alla realtà più generale di Huehuetenango, le cui ricchezze naturali, spiega la lettera pastorale, fanno gola ai settori economicamente forti, i quali, in alleanza con le compagnie transnazionali e in complicità con i governi, mirano a realizzare devastanti progetti di sfruttamento minerario e di costruzione di centrali idrolettriche (16 quelle previste solo a Huehuetenango), senza tenere in alcun conto la volontà espressa dalla popolazione nelle 28 consultazioni comunitarie svoltesi nel dipartimento. E non è tenera, la lettera della diocesi, neppure nei confronti della realtà nazionale, dominata dalla presenza di un’élite che si è saldamente mantenuta al potere, un potere su cui oggi allungano i loro tentacoli il narcotraffico e il crimine organizzato infiltrati nelle strutture del governo. Considerando poi l’evidente «influenza delle compagnie e dei governi stranieri impegnati a proteggere i capitali investiti nel Paese», non può certo sorprendere il fatto «che le leggi vengano applicate a favore degli interessi dei settori potenti, criminalizzando e perseguitando la popolazione», come avvenuto per l’appunto a Barillas.

Chi esulta e chi piange

Con la lettera pastorale dell’11 maggio, mons. Bobadilla Mata ha chiuso decisamente in bellezza il suo ministero episcopale alla guida della diocesi di Huehuetenago: in sostituzione del vescovo, di cui è stata accolta dalla Santa Sede la rinuncia per raggiunti limiti d’età, è stato chiamato il 14 maggio un pastore sicuramente all’altezza delle sfide della regione: mons. Alvaro Ramazzini, per 23 anni vescovo di San Marcos e testimone d’onore per le comunità ixiles nella vertenza con l’Enel riguardo al caso della diga di Palo Viejo (v. Adista nn. 94/11 e 12 e 18/12). Una nomina, questa, che ha rallegrato il popolo di Huehuetenango, ma che ha gettato nello sconforto quello di San Marcos, dove Ramazzini si è distinto per la sua vicinanza ai poveri e ai migranti e per la sua lotta contro le imprese minerarie, attirandosi per questo ogni sorta di attacchi e di calunnie (è del 24 maggio un articolo pubblicato su El Periódico che accusa il vescovo  di comportarsi come un capo tribù e come un despota, lasciando al suo passaggio una scia di miseria e un clima di contrapposizione tra guatemaltechi). Ed è una nomina che non ha affatto gradito neppure il vescovo, il quale, in un’intervista rilasciata il 19 maggio a Prensa Libre, ha spiegato che «è stata una decisione di Benedetto XVI» e che egli la rispetterà «per il giuramento di obbedienza». «Sono dovuto andare a Roma perché mi informassero di questo cambiamento. E ciò dopo 23 anni di ministero episcopale a San Marcos», ha detto Ramazzini, esprimendo tutto il suo rincrescimento: «Avevo ancora alcuni sogni da realizzare nella diocesi, soprattutto riguardo alla proprietà della terra, all’accompagnamento dei giovani sacerdoti delle diverse località e al processo di chiusura della miniera Marlin». Quanto ai progetti di sfruttamento minerario, che il vescovo considera incostituzionali perché portati avanti senza ascoltare «la voce del popolo», egli continuerà comunque ad occuparsene, «perché si tratta di un problema nazionale». «Me ne vado con molto dolore - ha concluso il vescovo - ma devo obbedire al mandato che mi è stato assegnato. Tuttavia, continuerò a lottare perché i diritti di quel popolo vengano rispettati». (claudia fanti)

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