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Sulle tracce dell’uomo Gesù: oltre le Scritture, i dogmi, la religione

Tratto da: Adista Documenti n° 28 del 21/07/2012

DOC-2461. ROMA-ADISTA. Nell’ambito dell’ancor giovane ricerca teologica diretta a riformulare radicalmente l’intera fede cristiana in un linguaggio che possa risultare comprensibile al mondo postmoderno, per salvarla così da una altrimenti sicura irrilevanza, il teologo e vescovo episcopaliano John Shelby Spong è sicuramente una figura chiave, proprio come lo il gesuita belga Roger Lenaers. È pertanto un grande merito della Massari editore, piccola casa editrice con sede a Bolsena, aver fatto conoscere in Italia le opere dei due autori, divenute vere pietre miliari in questo nuovo e appassionante viaggio teologico. Dopo la pubblicazione nel 2009 del libro di Lenaers Il sogno di Nabucodonosor o la fine di una Chiesa medievale (v. Adista nn. 44 e 93/09) e nel 2010 di quello di Spong Un cristianesimo nuovo per un mondo nuovo (v. Adista n. 94/10), sono usciti quest’anno altri due importanti libri degli stessi autori: Benché Dio non stia nell’alto dei cieli del teologo belga (di cui è possibile leggere un’ampia recensione su Adista Documenti n. 26/12) e Gesù per i non religiosi. Recuperare il divino al cuore dell’umano di Spong (Massari editore, pp. 430, 17 euro, acquistabile presso Adista, telefonando al 06/6868692, inviando una mail ad abbonamenti@adista.it o collegandosi al sito). Un libro, quest’ultimo, che il vescovo episcopaliano riconduce a due fondamentali motivazioni: un profondo impegno verso Gesù di Nazareth, per scoprire che cosa della sua umanità ha consentito al popolo ebraico di realizzare attraverso la sua vita l’incontro con quel mistero ultimo che noi chiamiamo Dio e che permea tutto ciò che esiste, e un’altrettanto profonda alienazione «dalle forme e dai simboli tradizionali attraverso i quali il significato di questo Gesù è stato comunicato lungo i secoli», quelle formulazioni teologiche, cioè, che lo hanno dipinto «come un visitatore celeste che è venuto dal Dio sopra il cielo attraverso una nascita miracolosa» e che, completato il suo lavoro, quello di portare salvezza a un mondo decaduto, è tornato «a quel Dio attraverso un volo cosmico»: formulazioni rivelatesi, nella migliore delle ipotesi, vuote di senso alle orecchie delle persone del XXI secolo. «Io cerco – scrive Spong – un Gesù oltre le Scritture, oltre i credo, oltre le dottrine, oltre i dogmi e perfino oltre la religione stessa», molto oltre la definizione teista di Dio come un essere che si trova “lassù” o “là fuori”, pronto a ricompensarci o punirci in base alla sua divina volontà. Un Gesù come «porta d’ingresso alla meraviglia di Dio», al mistero della vita, dell’amore e dell’essere.

Non può non produrre sconcerto, in questo senso, il fatto che, per quanto sia oggi impossibile prescindere dallo studio critico della Bibbia, i membri del clero appaiano impegnati a sopprimere ogni conoscenza al riguardo «per paura che il fedele medio, conosciuto il vero contenuto del dibattito, senta la sua fede distrutta e, cosa più importante, non sostenga più il cristianesimo istituzionale». Come se la verità e Dio possano mai risultare incompatibili: «Ogni divinità che ha bisogno di protezione nei confronti della verità, da qualunque fonte provenga, è già morta».

Rimuovendo le incrostazioni del passato

Non è facile, tuttavia, per il credente, scoprire che «così tanto di ciò che è stato detto e scritto su Gesù non è affatto storia». Che, cioè, come Spong analizza in maniera attenta e accurata, Gesù è sì vissuto realmente in un particolare tempo e luogo (il teologo respinge in maniera decisa le argomentazioni di chi ritiene che Gesù stesso sia una creazione leggendaria), ma è nato in modo perfettamente normale a Nazareth, e non c’erano stelle, angeli, magi, pastori e mangiatoie. Che il padre terreno di Gesù non è una persona storica ma un espediente letterario e che Maria non era l’«icona della purezza verginale». Che anche i dodici apostoli sono «più simbolicamente reali di quanto non lo siano effettivamente», che Gesù ebbe anche delle discepole, che erano sempre con lui. Che, stando alle conclusioni del Jesus Seminar (un gruppo di 150 studiosi specializzati nell'ambito degli studi biblici, degli studi religiosi o in campi collegati), l’84% delle parole e una percentuale simile degli atti attribuiti a Gesù non sarebbero storici. Che non comandava alla natura di obbedirgli né restituiva la vista ai ciechi, l’udito ai sordi o la salute agli infermi, essendo i miracoli descritti nel Nuovo Testamento piuttosto dei tentativi per tradurre in parole abbastanza grandi la potente esperienza interiore vissuta dai discepoli, la loro scoperta della presenza di Dio nell’uomo Gesù. Che, sì, è stato giustiziato dai romani sulla croce, ed anche abbandonato dai discepoli, ma che tutta la descrizione della sua agonia non ha niente di storico, perché è stata costruita su narrazioni tratte dalle Scritture ebraiche e non dai racconti di testimoni oculari. E che dunque non c’è stata un’Ultima cena, né alcun atto di tradimento, né corona di spine, né ladroni, né tomba, né pietra fatta rotolare da un angelo, né un corpo risuscitato uscito dal sepolcro il terzo giorno, né ascensione in un paradiso collocato nell’alto dei cieli.

La verità è che, come spiega Spong, non sono stati gli eventi della vita di Gesù a soddisfare miracolosamente le aspettative e le profezie bibliche, ma è stata la sua vita, molto prima che i vangeli venissero scritti, a venire interpretata attraverso le Scritture e modellata sulla base delle immagini ebraiche. Un processo in cui i seguaci, ascoltando in sinagoga le scritture, «elaboravano i loro ricordi attraverso i vari elementi del loro culto comunitario finché l’esperienza di Gesù non si adattava loro e acquisiva un senso». Di modo che la domanda da porre riguardo ai vangeli non è se queste cose siano accadute o meno, ma che cosa ci fosse in Gesù «da portare i suoi primi seguaci a imperniare attorno a lui la storia sacra del loro passato ebraico» e perché  la sua morte sia stata da loro vista come «un preludio a una vita ampliata». Ed è così che, spazzato via il linguaggio teistico con cui è stato comunicato il significato di Gesù, «ciò che emerge è il ritratto di una vita in cui ciò che è umano si apre al divino». Una vita così integra e piena da consentire di abbattere i sistemi di sicurezza tribale, le paure, i pregiudizi, le regole religiose e ogni altra barriera che impedisce e limita la nostra umanità, per aprirci a una nuova dimensione di ciò che significa essere umani. Allora, «Gesù non era divino perché possedeva una vita umana nella quale era penetrato il Dio esterno», ma lo era «perché la sua umanità e la sua coscienza erano così integre e complete che il senso di Dio scorreva attraverso di lui».

Allo stesso modo, se la storia della crocifissione è stata modellata in maniera da rendere la morte di Gesù analoga a quella dell’agnello pasquale, e collegata alla mitologia ebraica sulle origini della colpa umana, è invece assolutamente reale la profonda esperienza interiore vissuta dai discepoli dopo la crocifissione, al punto da tornare sui loro passi, fino a sfidare la persecuzione e il martirio, con una forza di convinzione tale «che nessuna paura o minaccia poteva ora separarli da quel Dio che credevano di aver incontrato in Gesù». Cosicché, «qualunque cosa sia stata quella che i primi cristiani hanno chiamato Pasqua, essa è reale».  

Di seguito, ampi stralci del capitolo sulla croce come «ritratto umano dell’amore di Dio. (claudia fanti)

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