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Uno spaccato dei sentimenti di un prete qualsiasi

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 40 del 10/11/2012

Credo che Adista sia una delle poche testate italiane che con libertà osa mettere gli occhi su aspetti della vita ecclesiale ordinariamente ben celati ai comuni fedeli. So che questo non è odium ecclesiae, ma amor ecclesiae. Si vorrebbe vivesse nella chiarezza più cristallina quella Chiesa a cui, nonostante tutto, dobbiamo il dono del Vangelo.
Vi trasmetto queste pagine passate a me, quasi come una confessione, da un amico sacerdote. C’è di tutto. C’è raccontato l’irraccontabile, il non-dicibile. Per tanti fedeli, forse, ciò che in un uomo di Dio non dovrebbe mai accadere. Ritengo che possano aiutare a far pensare chi oggi nella Chiesa decide l’identità di un prete, e quei fedeli che guardano il proprio sacerdote come una sorta di creatura disincarnata, quasi angelicata. Che almeno questi sappiano a quale prezzo vengono “serviti” nel loro bisogno di cercare e trovare il Signore.
Cari saluti,
Felice Scalia sj

Sono stato abituato ad essere un uomo che raccoglie confidenze degli altri ma non ne fa, che controlla i sentimenti personali in vista del suo ruolo ufficiale di uomo di Dio, saldo nella sua fede e nelle sue scelte. Io non posso avere tentennamenti, dubbi, disperazioni. Per lo meno, se ci sono, nessuno se ne deve accorgere. Così è strano che io, prete, mi ponga, con cuore stanco, la domanda di Isaia: «Sentinella, quanto resta della notte?». Domanda più attuale di questa per descrivere il momento di sconcerto nella Chiesa, sembra quasi impossibile trovare. Potrebbe sembrare provocatorio sviscerare l’inquietudine che assilla il profeta declinando la domanda a partire dal mondo presbiterale. Eppure voglio farlo, non attraverso assunti polemici o prese di posizioni dottrinali, ma raccontandomi.

Come prete ed uomo di fede ho tentato di essere sempre generosamente attivo tra la mia gente. Ho avuto gioia in questo ministero. Ma in un dato momento, anche in me scese la notte. Il tempo in cui Dio si fa nostalgia, il tempo del terrore e del dubbio, della disperazione e della solitudine avvelenata. Ogni giorno di più sprofondavo nei meandri delle paure, delle sabbie mobili ammorbanti. Non mi accorgevo, nonostante i miei amici mi avessero avvertito dell’ineluttabilità di questo passaggio, che stavo per sanare la ferita iniziale cercando e vivendo un tempo di tregua. Senza saperlo vivevo la mia rinascita. Essa coincideva con il momento in cui le foschie si diradavano, perché stava iniziando un dolce inverno. Ecco come avvenne.

Un giorno, all’improvviso, mi chiamarono in ospedale al capezzale di una ragazza di 30 anni. Era una vecchia conoscenza. L’avevo incontrata occasionalmente in parrocchia. Era fidanzata e le avevo detto che l’amore è sempre dono di Dio, che per amare il suo ragazzo avrebbe dovuto mettere tutte le forze al servizio di questo dono, che bisognava donarsi fino alla morte di sé per rinascere di nuovo nell’altro.

Quell’esperienza di fidanzamento per lei era stata un’illusione. Dopo il primo incontro, lei tornò altre volte. Avevo l’impressione – banale ma vera – che ci conoscessimo da sempre, che fossimo fatti l’uno per l’altra. Nell’ultimo incontro dopo le prime battute (scontate) sull’andazzo generale, piombammo in un silenzio surreale (quando le parole non bastano!) e provai delle vertigini, ma lei che aveva percepito il pericolo mi disse che era bene non vedersi più. Notte su notte!  Me ne feci una ragione: era bene non giocare con il fuoco. Troncammo, però piansi moltissimo.

Ora venivo chiamato da lei. In ospedale. Che le era successo? Mi sentivo confuso, ma celando abilmente questo dolore sotto altri dolori, mi recai in ospedale, e lei mi disse che voleva finalmente smettere di bucarsi e che per far questo aveva bisogno di me. Rimasi stordito. Mentre mi chiedevo come avesse fatto ad entrare nella trappola della droga e mentre provavo odio per chi la riforniva, con lo stomaco a pezzi  per la presenza simultanea nella mia testa di paura, disgusto, desiderio, felicità inconfessata, mi convinsi che lei aveva le risorse necessarie per riprendersi. Fui per lei amico, fratello, padre, complice e periodicamente e sistematicamente andavo a trovarla. Tutte le volte sentivo il cuore contrarsi in modo anomalo. Forse anche il suo batteva all’impazzata, ma non mi interessava molto. Ho dovuto vincere tantissimi scrupoli, numerosi richiami – frutto della mia nevrotica formazione – all’ordine, alla ragione. Ma lei stava troppo male.

Avevo una voglia immensa di gridare, di urlare, di scoppiare quando pensavo in parallelo al suo ghigno e ai lamenti dei miei benpensanti catechisti, alle assemblee pastorali ove ci si ostina a discettare di morte e risurrezione, di libertà e di speranza davanti a cristiani mummificati nelle loro abitudini. Per chi tutte queste cose – mi dicevo – se questa ragazza sta morendo di solitudine?

Ogni settimana attraversavo l’intera città, la testa infuocata, il cuore incandescente… Mi ritrovavo su un altro pianeta ove nessuno avrebbe potuto immaginare quel che vivevo. Risuonava la domanda «Sentinella, quanto resta della notte?». Ma pensavo anche alla misteriosa risposta: «Viene il mattino e poi anche la notte».

E venne il mattino radioso, della gioia, della grazia, del ministero fecondo senza alcuna mormorazione, della fraternità presbiterale, della limpidezza nei rapporti, dell’entusiasmo contagioso, della voglia di vivere. Ma ritornò pure il buio della notte, dell’angoscia nera, per delle incomprensioni con il mio vescovo, al quale avevo chiesto una lunga pausa di riposo lontano dal luogo del ministero. Le nomine, però, erano già state fatte, e per annullare la mia bisognava squadernare tutto il programma pastorale. Il pastore della diocesi aggiunse: «Cerca di ascoltare. Ormai non posso sentire altri lamenti sulla tua situazione. O accetti questa parrocchia oppure niente. Non ho altro da offrirti. Puoi almeno tentare. Vedrai che le cose cambieranno. Allora: è sì o no?». «No, padre vescovo – replicai –, sarei disonesto se dicessi “sì”. Non voglio farla penare per il mio lassismo, ma io vado avanti imbottito di psicofarmaci». Il vescovo concluse: «Ritorna fra due settimane. Nel frattempo puoi renderti conto della mia proposta. Riflettici bene sopra. Tu sai che io non ho altro da offrirti. Vai. Abbi fiducia non in me, ma in Dio, nella sua grazia, in Gesù Cristo, nello Spirito Santo».

Mi allontanai dall’episcopio alquanto frastornato e arrabbiato. Mi offendeva il modo in cui ero stato licenziato, senza avere alcuna possibilità di replica. Tornando a casa mi scervellavo a trovare una via d’uscita a questa impasse. Ebbi come una folgorazione: il ritornello di Isaia «Sentinella, quanto resta della notte?» pervase la mia testa e andai subito a leggere il brano sulla Bibbia. Appena qualche rigo avanti il profeta aggiunge: «Se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!». Senza pensare al contesto al quale Isaia faceva riferimento, applicai a me queste ultime parole. Potevo anche domandare, in ogni caso dovevo anche cambiare (convertire) il mio atteggiamento. Dopo 15 giorni rividi il vescovo a cui, seppur con qualche riserva, dissi che accettavo la mia nuova destinazione: una piccola parrocchia, tra mare e monti , a 40 km dal capoluogo.

Mi rituffai nella attività pastorali e dopo poco tempo ebbi una gratificazione da parte del vescovo: collaboratore nella formazione del clero. Mi sentii riabilitato. Di colpo, le dense nubi che avevano avvolto gli anni precedenti si erano diradate. Preparavo gli incontri consultando riviste e libri specifici, sentivo gli altri membri del gruppo per concordare le strategie più opportune. Mi sembrava di volare. Mi sfioravano appena le critiche più spietate che mi giungevano da più confratelli: «Adesso che il vescovo ti ha dato il contentino hai saltato il fosso: prima a morte contro il sistema, ora sei un ingranaggio portante dell’apparato curiale. Non sei molto diverso dagli ipocriti che circondano il palazzo vescovile. Per un piatto di lenticchie hai svenduto la tua intelligenza e dignità».

Ma a me interessava solo la mia gioia. Fino al giorno in cui, un amico prete, mi chiamò al telefono dicendomi che voleva parlarmi urgentemente di persona. All’indomani ci incontrammo in un noto caffè della città e lì, seduti a un tavolo semi-nascosto, il mio interlocutore, con molta emozione disse: «Premetto che sono molto contento per il tuo nuovo incarico e non provo alcuna gelosia; tuttavia lascia che aggiunga qualcosa che mi fa molto soffrire. Tu, assieme ad altri, stai portando avanti un progetto a favore della diocesi e soprattutto dei preti. Ho ben chiaro che ne senti parecchi al telefono. Dimmi però: hai mai sofferto per qualcuno di noi, così come soffre l’amato per l’amata o una madre per il figlio? Conosci in profondità i confratelli? Sai come vivono, quanti stanno male fisicamente e quanti altri soffrono ancor di più nello spirito? È innegabile che un numero consistente di preti è provato da scelte pastorali assurde a tal punto da non voler più mettere piede in curia o addirittura non voler vedere il vescovo. Ti sei mai chiesto come poter sconfiggere realmente, e non solo con surrogati stagionali o momentanei, la piaga della solitudine dei preti? Sai quanti fra noi sono assassinati psicologicamente, torturati moralmente, screditati socialmente, decaduti spiritualmente, trattati da infami? Che tipo di Chiesa è quella che si trincera nell’appoggio al potere costituito e si tradisce smarrendo la forza alternativa del Regno di Dio? Quando la Chiesa abdica alla sua dimensione profetica inevitabilmente cade nell’opportunismo».

Mentre l’amico parlava il mio stomaco incassava pugni proibiti. Mi sentivo annichilito perché era stato distrutto il paravento dietro il quale mi ero fin lì riparato. La stoccata vincente fu quella dell’ultimo assalto: «Quando sei stato male ti sei chiuso a riccio e pur cercandoti non mi è stato possibile vederti per dirti che soffrivo con te. Lo dico adesso: ho sofferto con te. Ti chiedo però di far sapere al vescovo che io non posso credere a persone che, rivestite di autoritarismo e con un pauroso vuoto dentro, si fanno paladini di programmi pastorali che sanno di zuppa precotta, e per non infastidire il quieto vivere sfuggono il confronto con le istanze vere sulla identità e sul ruolo del prete in questo scorcio di terzo millennio. Ti ho trascritto un piccolo brano tratto da Funzionari di Dio, di Drewermann: “Come comprendere l’origine psicologica e la crescita di questi uomini (…) che la storia della loro infanzia obbliga ad essere eccezionali e a ricercare l’eccezionale, ma che, troppo fragili per vivere questo destino con le sole forze della loro personalità, devono rifugiarsi nella concretezza di una missione ufficiale?”. Che tanti preti siano ammantati di burocratismo è cosa lampante. Dici a te stesso e ai tuoi amici che servono uomini appassionati, non scialbi esecutori, di logiche e di dinamiche pensate partendo dagli uomini reali, non quelli inventati dagli esperti (molti dei quali caduti ora in bassa fortuna) dei manuali di pastorale. Purtroppo finora abbiamo contemplato solo fantocci camuffati da caporali che pur di rimanere in sella al potere hanno diviso ancor di più il presbiterio e hanno sostituito la Parola di Dio con il loro magistero, rivestendo i panni dei nuovi scribi».

Appena il mio amico terminò di parlare, mi alzai di scatto, lo abbracciai e ringraziandolo dal profondo del cuore versai lacrime di consolazione. Ero finalmente guarito perché avevo abbandonato il sepolcro imbiancato nel quale avevo costruito il mio rifugio. Tornai ancora con la mente al leit-motiv di Is 21,11 e mi ricordai del canto di Guccini (Shomér, Ma Mi-Llailah?, Sentinella, quanto manca all’alba?): «E io mi sento d’essere l’infinita eco di Dio».

P.S.: Per quanto riguarda la vicenda della e con la ragazza dell’ospedale, è finita bene: paradossalmente la “storia” divenne causa e motivo di guarigione per entrambi, perché questa esperienza (apparentemente assurda) fece scoprire la bellezza profonda e sincera dell'amore che diede slancio e motivazione per la vita di entrambi. Ciascuno continuò la sua vita, ma in modo rinnovato.

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